L’art. 7 del d. lgs. 546 del 1992, descrivendo i poteri istruttori del giudice tributari, dispone al comma 4, senza mezzi termini, che “non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale”.
Le conseguenze di tali divieti saranno affrontate, nelle pagine seguenti, partendo da un dato fattuale, che il giuramento non ha suscitato problemi di sorta, né particolari dissensi, mentre il divieto alla prova testimoniale è stato costantemente avversato in dottrina e da una parte consistente della giurisprudenza di merito e di legittimità soprattutto in seguito alla revisione dell’art. 111 della Cost. ed al rilievo costituzionale riconosciuto al principio del giusto processo, non ultimi i recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria.
Inoltre si cercherà di valutare la compatibilità dell’esclusione, contenuta al comma 4 dell’art. 7, anche alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza comunitaria, e, dall'altro, si soppeserà il rapporto tra una siffatta disposizione e la possibilità, o la preclusione, di produrre in giudizio eventuali dichiarazioni acquisite fuori dall'ambito processuale.
1. Il divieto di testimonianza
Le ragioni del divieto, contenuto nell’art. 7 già richiamato, sono state individuate sia nella natura essenzialmente documentale del processo tributario, che nell'esigenza di celerità dello stesso sia, e soprattutto, nell’ “alto rischio” dei possibili testimoni che, in quanto essi stessi contribuenti, potrebbero essere influenzati nelle loro dichiarazioni da una sorta di favore nei confronti della parte privata piuttosto che dell'amministrazione, e, a tal proposito si è parlato di dubbia attendibilità del teste in quanto anch’esso contribuente.
Sono innumerevoli le critiche della dottrina, ed anche numerose le eccezioni di costituzionalità sollevate, fino ad oggi tutte dichiarate infondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, facendo ricorso a varie argomentazioni e soprattutto al criterio della ragionevolezza (per citarne alcune: Corte Cost. ord. 10/12/1987 n. 506, Corte Cost. ord 8/7/1992 n.328, ord. n.237/2000, sent. n.18/2000).
La Corte Costituzionale ha sempre rigettato tutte le istanze, ritenendo infondate le eccezioni sollevate, sottolineando la discrezionalità del legislatore nella scelta delle regole processuali in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli processi.
Estremamente interessante sul punto la sentenza della Corte Costituzionale del 21 gennaio 2000 n. 18 che oltre al tema del divieto di testimonianza affronta anche quello correlato dell'ammissibilità delle dichiarazioni di terzi nel processo tributario.
In sintesi, i Giudici costituzionali hanno ritenuto infondata la questione della legittimità costituzionale del divieto posto dall'articolo 7 poiché lo stesso trova, nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella "spiccata specificità" del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, correlata sia alla configurazione dell'organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio, dall'altro nella circostanza che il processo tributario è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale.
Numerose critiche al divieto posto dall'articolo 7 sono emerse dopo la riforma costituzionale del 1999 (Legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2) che ha novellato l'articolo 111 della Carta Costituzionale, poiché si ritiene indispensabile applicare i principi del giusto processo anche al processo tributario, che dovrebbe essere celebrato offrendo la massima garanzia di difesa e nel pieno contraddittorio delle parti, non diversamente dal processo civile o penale. Come autorevolmente sostenuto, per adeguare il processo tributario alle regole del giusto processo dovrebbe cadere il divieto delle prove per testi, per violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione, o comunque per irragionevolezza; riesce infatti difficile comprendere la ratio per cui, nell'accertamento di un fatto indicato in un processo verbale, il giudice penale possa ascoltare il verbalizzante, ed invece, il giudice tributario, chiamato ad accertare il medesimo fatto, debba limitarsi al solo esame dei documenti.
Nonostante i limiti ed i rischi della prova testimoniale, in particolare quelli sull'attendibilità dei testimoni e sulla libertà del giudice nel valutarne le dichiarazioni, è innegabile come la sua introduzione nel processo tributario potrebbe essere salutata come un "apporto di civiltà giuridica".
L'eliminazione del divieto presupporrebbe, ovviamente, una riforma della attuali regole processuali, eventualmente con l'introduzione di una fase istruttoria monocratica; il collegio potrebbe, durante l'udienza, ammettere la prova, formulare i capitoli da sottoporre al testimone e delegare un giudice all'istruttoria, esaurita la quale il processo potrebbe riprendere nella sua fase collegiale.
Spunti di riflessione si traggono anche dall'orientamento della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con la decisione n. 73053 del 23 novembre 2006 sul caso Jussilia contro Finlandia .
Con il caso Jussilia la Corte ha sancito l'applicabilità del principio del giusto processo anche a quello tributario se, oltre al recupero dell'imposta, il contenzioso verte sull'irrogazione di sanzioni che vanno oltre la finalità di recupero – no quindi per il recupero di sole imposte ed interessi che non avrebbero natura punitiva ma solo di ripristino della situazione corretta – . Secondo la massima della sentenza, infatti, "l'assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile".
Fondamentale indicazione viene fornita dalla Corte con la sentenza Jussilia: in conformità con le regole del giusto processo, l'ammissione delle prove testimoniali nell'ambito del processo tributario è doverosa quando si configura come indispensabile per il corretto esercizio del diritto di difesa.
La presa di posizione della Corte di Strasburgo dovrebbe fungere da “faro” anche per i giudici italiani: la testimonianza, se da un lato potrebbe essere scarsamente rilevante per tutta una serie di controversie, dall'altro potrebbe rilevarsi indispensabile, e come tale dovrebbe essere ammessa, per le controversie tributarie.
A titolo esemplificativo, si pensi, per la prima ipotesi, alle controversie in tema di tributi locali ed ICI, ove la documentazione catastale od altre prove documentali – atti cessione, residenza ecc. – possono sicuramente ritenersi esaustive, ma diversamente, per tutti i casi di ricostruzione sintetica del reddito, per le cause di giustificazione di scostamento da studi di settore ed altre problematiche legate all'accertamento del reddito in capo alle persone fisiche, la testimonianza potrebbe rivelarsi l'unico possibile strumento di difesa per il contribuente. Ed allora, in tutti questi casi, proprio nel rispetto dell'articolo 111 della Costituzione e sulla scorta del sentiero tracciato dalla Corte Europea, anche avanti al giudice tributario dovrebbe essere ammessa la prova testimoniale. In altri termini, la sentenza Jussilia seppure non offre una risposta definitiva nel senso dell'incompatibilità del divieto di testimonianza, tuttavia, se correttamente interpretata, non può non offrire nuovi spunti di riflessione per una diversa lettura dell'articolo 7 del D.lgs. 546 da parte dei Giudici nazionali. In tal senso, con la sentenza 21233 del 18 maggio 2006 i giudici della Cassazione hanno applicato principio paragonabile a quello espresso dalla Corte di Strasburgo, ammettendo la prova testimoniale nel caso di furto della documentazione. Il contribuente, si legge nella massima, impossibilitato ad esibire, a seguito di furto subito, i documenti contabili di cui è obbligatoria la conservazione non è esonerato dall'onere di provare la sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione, ma è – in forza del dettato dell'articolo 2724 n. 3 c.c. – autorizzato alla deduzione di prova testimoniale.
2. Le dichiarazioni di terzi
La necessità di garantire la condizione di parità tra le parti del processo si manifesta in maniera ancor più evidente quando al diniego delle istanze della parte privata si aggiunge, per contro, la possibilità per l'ente impositore di veicolare, seppur surrettiziamente, all'interno del processo dichiarazioni orali raccolte nella fase dell'istruttoria amministrativa. Anche questo aspetto riveste una particolarità “tutta ed unica” del processo tributario, vista la prassi ormai consolidata degli uffici di porre alla base dei propri accertamenti le risultanze di atti, quali ad esempio i verbali della Guardia di Finanza, che contengono dichiarazioni rese da soggetti diversi dalla parte cui l'accertamento è rivolto; dette dichiarazioni sono legittimamente raccolte nell'ambito dell'attività di prima istruttoria ove i poteri di indagine si sviluppano con la raccolta di dati e notizie e di richieste di informazioni e chiarimenti.
Tramite i suddetti poteri di indagine, dunque, si acquisiscono elementi documentali ma anche elementi fondati sulla narrazione di fatti a cura di una persona fisica.
Importante è distinguere le differenze principali tra queste dichiarazioni e le testimonianze. La testimonianza è la narrazione che fa una persona di fatti a lei noti per darne conoscenza ad altri, con la funzione di rappresentare un fatto passato e renderlo presente alla mente di chi ascolta; la legge che regola il processo considera testimonianza solo l'affermazione orale fatta da un terzo, e cioè da una persona estranea al giudizio, chiamata ad esporre al giudice ciò che conosce in relazione a fatti che possono essere rilevanti ai fini della decisione. Mentre le dichiarazioni di terzo sono rese ad un soggetto che non è super partes come il giudice che interroga il testimone, ma è un soggetto diverso, ad esempio un funzionario dell'ufficio che opera nell'ambito della potestà istruttoria, od un militare della Guardia di Finanza nell'ambito dei poteri di ispezioni e verifiche. Manca ogni ritualità relativa al momento dell'assunzione della dichiarazione ed essendo comunque il soggetto verbalizzante "parziale" rispetto alla questione, alcuni dubbi possono legittimamente sorgere in ordine alla modalità di presentazione delle domande al soggetto chiamato a riferire ed ai possibili, seppur involontari, stralci nella trasfusione della dichiarazione nella forma scritta.
Alla luce dei precedenti ragionamenti che individuano gli elementi comuni e le differenze tra testimonianza e dichiarazione di terzo, potrebbero nascere tre ordini di problemi, tra loro correlati:

1. I l divieto di cui all'articolo 7 riguarda solo le testimonianze in senso stretto o riguarda anche le dichiarazioni di terzo?

2. Se invece tali dichiarazioni possono trovare spazio nel processo, qual è il valore probatorio attribuibile?

3. La facoltà di introdurre dichiarazioni raccolte al di fuori del processo è prevista anche per il contribuente, o, comunque, quali strumenti difensivi può utilizzare il contribuente per contrastare il contenuto delle dichiarazioni introdotte dall’ “ufficio”?

Relativamente al primo quesito, la giurisprudenza di merito meno recente è controversa perché ci sono sentenze in cui i giudici hanno inteso il divieto di testimonianza come divieto di assumere qualunque dichiarazione orale resa da terzi, ed altre che invece ammettono l'ingresso di tali dichiarazioni nel processo.
La giurisprudenza di legittimità, già all'inizio degli anni '90, ha espresso parere favorevole all'ammissione della dichiarazione di terzo, specificando però che deve esserci "un legame tra il soggetto che rende la dichiarazione ed il soggetto accertato" (Cass., sez. Trib., 19.1.1990 n. 316 – nel caso specifico le dichiarazioni poste alla base dell'accertamento di maggior reddito erano state riportate da una commessa dell'impresa e confermate dalle risultanze di un quaderno rinvenuto nei locali dell'impresa medesima –).
Più di recente lo stesso orientamento è stato confermato con la sentenza della Cass., sez. Trib., n. 14774 del 15.11.2000, dove viene ribadito che il divieto esplicito dell'articolo 7 è da riferirsi solo alla testimonianza in senso stretto, e che ciò non implica il divieto di utilizzare le dichiarazioni rese nella fase amministrativa dell'accertamento.
Anche i giudici della Corte Costituzionale, con la sentenza 18 del 2000 già citata, si sono favorevolmente espressi sul tema, sottolineando che proprio dalla differenza tra testimonianza e dichiarazione di terzo – resa al di fuori e prima del processo –, si può far discendere la possibilità di utilizzo nel processo delle dichiarazioni eventualmente raccolte dall'amministrazione.
In merito al secondo quesito, partendo nell’analisi dall'inizio degli anni 2000, si può osservare come non paiono più porsi dubbi sull'ammissibilità dell'ingresso delle dichiarazioni di terzo nel processo tributario, come decisamente affermato, tra le altre, da Cassazione, sez. Trib., 25 marzo 2002 n. 4269, dove i giudici non si pongono nemmeno più il dubbio circa l'utilizzabilità delle dichiarazioni raccolte dalla Guardia di Finanza, considerando ormai "scontata" la risposta affermativa al quesito, ma si interrogano invece solo sulla loro portata probatoria. Risposta molto precisa viene offerta dagli stessi giudici della Corte Costituzionale che – sempre con la sentenza 18 già menzionata – hanno ritenuto che le dichiarazioni di terzo non possano godere di piena efficacia probatoria, ma meramente indiziaria: possono concorrere a formare il convincimento del giudice ma non sono idonee a costituire, da sole, il suo convincimento. La Corte Costituzionale, quindi, se da un lato accetta un mezzo di prova orale potenzialmente meno affidabile rispetto alla testimonianza, dall'altro, quasi per compensazione, gli attribuisce una minor efficacia probatoria.
E’ giusto rammentare brevemente, le principali differenze tra prove ed indizi: mentre le prove (che possono essere precostituite – esempio documenti – o costituende – esempio testimonianza –) rappresentano il mezzo che serve a dare la conoscenza di un fatto ed a convincere il giudice, gli indizi rappresentano dei fatti secondari che consentono di ricostruire il fatto principale – ignoto – in virtù di un nesso logico. Anche la Cassazione ha ormai da tempo sostenuto il valore puramente indiziario delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio; per tutte si ricorda le sentenza della Cass., sez. Trib., 22.12.1999 n. 316 e 15.11.2000 n. 14774: nel caso specifico l'esistenza di ricavi non contabilizzati era stata desunta da una dichiarazione di un socio e dagli appunti forniti da un ex dipendente. Secondo i giudici tali dati avrebbero avuto solo valore indiziario, ma poiché la documentazione non era stata disconosciuta, si è ritenuto che le notizie contenute fossero veritiere. Ed ancora, Cass., sez. Trib., 5.11.2003 n. 16583 dove si è attribuita efficacia indiziaria alla dichiarazione del socio relativa alle percentuali delle prestazioni fatturate per sponsorizzazione ad altra società, e Cass., sez. Trib. 2.11.2005 n. 21268 relativa al tema di operazioni fittizie rilevate dalla dichiarazione orale rilasciata dal titolare della ditta. Il principio fissato dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione, e cioè la valenza probatoria ridotta a quella del semplice indizio, se dal punto di vista teorico è senz'altro chiaro, lascia tuttavia ampio margine alla discrezionalità applicativa dei singoli giudici di merito. Spesso i giudici delle commissioni provinciali e regionali chiamati a decidere in ordine ad un singolo ricorso, hanno difficoltà nel tracciare una linea di demarcazione netta e precisa tra prova ed indizio. Il convincimento del giudice non potrebbe, come abbiamo già detto, basarsi su un semplice indizio che andrebbe invece supportato da altri elementi ed altre prove: nonostante ciò, nella pratica, si rilevano sentenze che si basano solo sul contenuto delle dichiarazioni di terzi poste dall'amministrazione a base del proprio atto.

Ultimo problema di notevole importanza, è quello dell'individuazione degli strumenti di tutela offerti al contribuente onde garantire la parità delle armi processuali.
In altri termini, se si ammette, come abbiamo illustrato, l'ingresso nel processo di dichiarazioni di terzi a supporto della posizione della pubblica amministrazione, allora anche al contribuente dovrebbe essere data la possibilità di introdurre nel processo delle dichiarazioni rese da terzi a sostegno delle proprie ragioni.
Sempre muovendo dall'esame della giurisprudenza, si segnala come i giudici della Corte Costituzionale, nella sentenza n. 18 più volte ricordata, hanno affermato che il contribuente può, nell'esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall'amministrazione. Allorchè ciò avvenga il giudice, come ribadisce la sentenza n. 18, potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell'articolo 7 D.Lgs 546 del 1992, rinnovando ed eventualmente integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l'attività istruttoria svolta dall' ufficio. Il contribuente, quindi, potrebbe chiedere al giudice di espletare un'istruttoria supplementare, e, nel caso di inerzia da parte della commissione, le ragioni del mancato esercizio di tale potere/dovere sarebbero soggette al normale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione della sentenza. Pur senza sottovalutare le difficoltà che il contribuente potrebbe incontrare per ottenere delle dichiarazioni scritte di terzi (a differenza di quanto accade per la Guardia di Finanza o la pubblica amministrazione a cui i terzi, nell'ambito delle indagini svolte, hanno l'obbligo di rispondere) nelle sentenze più recenti si è ammesso il valore probatorio – sempre con valenza di indizio – delle dichiarazioni prodotte dal contribuente. Attualmente i giudici, appaiono sempre più spesso orientati nel senso di ammettere la produzione in giudizio di dichiarazioni sostitutive di atto notorio, scritti non dissimili da quelli verbalizzati dall'amministrazione. Si è così ammesso l'utilizzo di tali dichiarazioni per sostenere le argomentazioni del contribuente ad esempio in tema di acquisto di beni immobili, dove è stato riconosciuto valore alla dichiarazione dei genitori in merito alla provenienza del denaro utilizzato (Commissione regionale di Milano 29.11.2000 n. 223) ed agli aiuti economici ottenuti dal contribuente per il mantenimento dell'immobile stesso (Commissione regionale dell'Umbria 24.10.2000 n. 562). Anche la Cassazione si è spesso pronunciata per l'utilizzabilità nel giudizio tributario dell'atto notorio prodotto dal contribuente, proprio per garantire l'effettività del suo diritto di difesa e la parità delle armi delle parti; si ricorda la Cass., sez. Trib., 22.4.2003 n. 6407 che, in tema di accertamento bancario, ha ammesso la produzione di atto notorio con dichiarazione di un parente del contribuente accertato, o ancora, le più recenti Cass., sez. Trib., 13.11.2006 n. 24200 e Cass., sez. Trib., 16.5.2007 n. 11221. Tuttavia, la Cassazione ha cambiato orientamento, con la sentenza della sez. Trib. n. 703 del 15.1.2007, affermando che la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà avrebbe attitudine solamente certificativa, priva di ogni efficacia in sede giurisdizionale, trovando il suo ingresso nel processo "ostacolo invalicabile" nel divieto di cui all'articolo 7 del D.Lgs.546. Ancor più recente, tuttavia, a conferma della corrente ormai prevalente, Cass., sez. Trib., 21.4.2008 n. 10261 che in modo puntuale e preciso ribadisce che, cosi come le dichiarazioni raccolte dai verificatori non hanno natura di prova testimoniale bensì di meri indizi utilizzabili per la formazione del convincimento del giudice di merito, così al contribuente è assicurato un pieno diritto di difesa, poiché anch'egli può produrre documenti contenenti dichiarazioni rese da terzi in sede extra-processuale con il medesimo valore probatorio, nel pieno rispetto del principio del giusto processo costituzionalmente garantito.
Lecce, 05 marzo 2011
Avv. Maurizio Villani
Avv. Giuseppe Miglionico

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