L’utilizzo per fini privati del cellulare di servizio configura il peculato d’uso
(Sezioni Unite 20 dicembre 2012, dep. 2 maggio 2013)

MASSIMA
“Risponde di peculato d’uso, delitto previsto e punito dall’art. 314 co. 2 c.p., il dipendente che utilizza, per fini privati, il telefono cellulare fornitogli dalla pubblica amministrazione per ragioni di ufficio, qualora produca un apprezzabile danno al patrimonio della p.a.(o di terzi) o una concreta lesione alla funzionalità dell’ufficio.”



1. Il peculato.
Il delitto di peculato punisce il pubblico ufficiale o l’incaricato di servizio pubblico che si appropria del denaro o della cosa mobile altrui, avendone il possesso per ragioni d’ufficio.
Si tratta di un reato proprio che condivide tratti genetici tipici dell’appropriazione indebita (art. 646 c.p.) a cui aggiunge alcuni elementi ulteriori.

Alcune pronunce lo hanno definito un reato monoffensivo, che offende, cioè, il solo bene giuridico del patrimonio della pubblica amministrazione (e, indirettamente, l’imparzialità e il buon andamento della stessa): da ciò consegue che, in assenza del danno patrimoniale, non può ravvisarsi il reato.
Altra impostazione giurisprudenziale ha invece confermato la configurabilità del delitto de quo, a prescindere dalla lesione patrimoniale, in quanto il reato sarebbe plurioffensivo, dunque, potendosi perfezionare alternativamente attraverso il danno economico cagionato alla p.a. o attraverso la lesione dell’art. 97 Cost., che può avvenire a prescindere dalla produzione del primo.

La sentenza delle S.U. in epigrafe pare fornire un’indicazione a tal riguardo, conforme alla seconda tesi, in quanto pone come alternativi gli eventi del danno patrimoniale e della lesione all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione.
Ricadendo i beni giuridici nella titolarità della p.a., sarà l’Ente pubblico a potersi costituire parte civile nel processo penale ma, stante l’abrogazione del reato di malversazione ai danni del privato e l’”incorporazione” dello stesso nel delitto di peculato, il privato che subisca un danno economico sarà soggetto danneggiato e potrà comunque pretendere il risarcimento del danno.

La condotta vietata si compone di alcuni caratteri:
1) deve essere appropriativa;
2) deve avere come presupposto che l’agente abbia ottenuto il possesso dell’oggetto materiale del reato prima di azionare la condotta appropriativa;
3) il possesso deve essere stato assegnato per ragioni di ufficio.
Rispetto al punto n. 1, l’appropriazione avviene – secondo dottrina maggioritaria – attraverso i due momenti di “espropriazione” ed “impropriazione”, laddove il primo tende a scollegare il bene dalla sua destinazione naturale e funzionale impressa dalla p.a. per il raggiungimento del fine pubblico, mentre il secondo è finalizzato a porre in essere una signoria dell’agente sul bene stesso.
Quest’ultima, con maggiore precisione, si verifica quando il soggetto, realizzando la c.d. interversio possessionis, utilizza la cosa uti dominus, cioè come se ne fosse proprietario, e con un animus rem sibi habendi, vale a dire con la volontà di “tenere la cosa per sé”, di guisa che i comportamenti maggiormente significativi che manifestano i suddetti sintomi dell’appropriazione saranno: la ritenzione, la negazione del possesso, l’alienazione, la consumazione.

Circa il quesito se l’attività di distrazione sia punita dall’art. 314 cit., sussistono due tesi: secondo una prima ricostruzione, l’abrogazione del peculato per distrazione, ai sensi della Novella del 1990, ha causato lo “spostamento” della rilevanza penale di tale condotta, riconducendola all’alveo normativo dell’art. 323 c.p. (Abuso d’ufficio) almeno nel caso in cui la distrazione non sia compiuta a vantaggio proprio;
secondo un’altra tesi, il concetto di appropriazione deve comprendere quello di distrazione, in quanto il primo è letto come mero atto produttivo dello svincolo del bene dal suo ambito funzionale, carattere che dunque sarebbe riferibile anche alla distrazione. Da tale assunto, si ricava che la distrazione, radicandosi ancora nel termine “appropriazione”, disciplinato a sua volta dall’art. 314 c.p., resta attratto nella medesima orbita di quest’ultimo.

Rispetto ai punti nn. 2 e 3, v’è da dire che quella di “possesso” non è una nozione ancorata alla disponibilità materiale immediata del bene in capo all’agente, bensì è da intendersi in senso funzionale-giuridico, come possibilità dello stesso di instaurare una relazione ad libitum con l’oggetto (denaro o altro bene mobile) derivante dal suo status all’interno della p.a.
Il possesso deve essere pre-esistente rispetto alla condotta appropriativa e deve essere legittimato da “ragioni d’ufficio”, vale a dire che il bene, innanzitutto, deve servire all’Ente per i fini pubblici a cui esso è preposto e, in secondo luogo, la “ragione” d’ufficio non coincide con la competenza specifica dell’agente, bensì è sufficiente che il possesso sia in qualche modo connesso con l’ufficio ricoperto dallo stesso.

Secondo alcuni, il possesso deve essere stabile e dunque non occasionale, risultando quindi escluso il reato nel caso in cui esso sia acquisito in base a prassi o consuetudini. Contrariamente, si esprime invece la giurisprudenza oramai maggioritaria, incline ad escludere che vi sia possesso, nel senso richiesto dalla norma, solo quando il contatto tra il p.u. e il bene possa avvenire solo per caso fortuito.

L’oggetto materiale del reato è costituito dal denaro o da altra cosa mobile altrui. Quest’ultima è definita da attenta dottrina come entità materiale dotata di definitezza spaziale, autonoma esistenza e del carattere di amovibilità; se si aderisce alla tesi della monoffensività del peculato, bisogna ammettere, altresì, che tale cosa mobile debba essere senz’altro suscettibile di una valutazione economica. Contrariamente, accogliendo la tesi della plurioffensività, anche l’appropriazione di un bene non dotato di significato economico può perfezionare il reato qualora abbia causato una lesione dei caratteri di imparzialità e buon andamento dell’ufficio.
Altresì, deve considerarsi cosa mobile altrui anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico (art. 624 c.p., comma 2).

2. Differenze rispetto al peculato d’uso.
L’art. 314 comma 2 – “battezzato” come peculato d’uso – punisce chi realizza il fatto di cui al comma primo al solo scopo di utilizzare momentaneamente la cosa per poi restituirla immediatamente dopo l’uso. Si badi che la restituzione deve effettivamente avvenire, potendosi escludere il più grave delitto di peculato solo nel caso in cui il soggetto, pur essendo intenzionato ab initio a restituire, non ha potuto farlo per caso fortuito o causa di forza maggiore.

I caratteri fondamentali del peculato d’uso sono dunque la momentaneità dell’uso e la restituzione aventi ad oggetto il bene.
Per uso momentaneo si intende un utilizzo strettamente volto allo sfruttamento della cosa per il tempo necessario a trarre dalla stessa l’utilità che le è connaturata, non potendo però tale tempo espandersi fino ad escludere la disponibilità del bene in capo al legittimo titolare per un periodo apprezzabile e/o eccessivo.
Più precisamente, dunque, tra l’appropriazione e l’utilizzo non devono trascorrere tempi intermedi non funzionali al secondo; l’uso della cosa deve avvenire per un breve periodo, strettamente necessario per “carpire” dalla cosa stessa la sua utilità; subito dopo l’utilizzo, essa deve essere restituita.

In tema di elemento soggettivo, la fattispecie è contrassegnata dal dolo e, come si è già accennato, la volontà di utilizzare e restituire immediatamente deve essere presente sin dall’inizio.
Ciò comporta che, in tema di tentativo, pienamente configurabile, fondamentale sarà proprio il riscontro del dolo di peculato d’uso, poiché dal punto di vista oggettivo la condotta di chi intende realizzare un peculato “ordinario” non differisce, sino all’avvenuta restituzione, dalla condotta di chi vuole porre in essere la meno grave fattispecie di cui all’art. 314 cpv.

La condotta del p.u., astrattamente idonea a configurare il delitto in parola, deve in ogni caso essere filtrata attraverso le “maglie” del principio di offensività.
In altri termini, punendo un comportamento apparentemente “di poco conto”, il Legislatore non sta rendendo punibile un comportamento inoffensivo. Il peculato d’uso resta una fattispecie offensiva nei confronti dei beni giuridici afferenti la pubblica amministrazione e dunque il fatto resterà irrilevante penalmente nel caso in cui sia inoffensivo, vale a dire nel caso in cui, per l’istantaneità estrema della condotta o per la sua assoluta inidoneità a ledere le funzioni dell’ufficio, non si palesino le possibili lesioni agli interessi tutelati dall’ordinamento.

3. Uso indebito del telefono assegnato per ragioni d’ufficio: le varie tesi giurisprudenziali.

- TESI DEL PECULATO D’USO (art. 314 c.p., cpv)
Secondo questa prima impostazione, la condotta di chi utilizza, per fini personali, il telefono assegnatogli dalla p.a. per ragioni d’ufficio, configura il delitto di cui all’art. 314 comma 2 cod. pen., vale a dire il peculato d’uso.
Per giungere a tale conclusione, si considera oggetto materiale del reato l’apparecchio telefonico, il quale viene momentaneamente utilizzato per fini privati, concretizzandosi in tal momento l’appropriazione, seguita dalla restituzione.
Quest’ultima, più in concreto, non sarà una reimmissione dell’oggetto nella disponibilità materiale della p.a., bensì una ricollocazione del bene nell’alveo funzionale al quale esso doveva rimanere attratto.

- TESI DEL PECULATO “ORDINARIO” (art. 314 co. 1 c.p.)
Secondo altra impostazione invero dominante prima dell’avvento della pronuncia in commento, il dipendente che utilizzi l’utenza assegnatagli dalla p.a., per fini privati, risponde di peculato tout court, ex art. 314 comma 1 del codice penale.
A tali esiti si perviene considerando oggetto materiale del reato gli impulsi elettronici, come tali non suscettibili di essere restituiti.
Invero, parte della giurisprudenza già precisava che, nel caso in cui l’utenza operasse secondo un piano tariffario “tutto incluso” (tariffa flat), non traspariva alcun danno patrimoniale eziologicamente collegato alla condotta del dipendente pubblico.
Tale tesi, peraltro, deve oggi fare i conti proprio con la plurioffensività del reato di peculato (che pare essere stata affermata dalla sentenza in commento), potendosi ben configurare il peculato ex art. 314 cit. anche nel caso di utilizzo di una tariffa flat da parte della pubblica amministrazione, qualora la condotta del soggetto agente, per la sua continuità nel tempo, abbia prodotto un danno non economico bensì funzionale all’andamento dell’ufficio.

- TESI DELL’ABUSO D’UFFICIO (art. 323 c.p.)
Altra prospettazione minoritaria riguarda la possibilità di annoverare il comportamento del dipendente in parola tra le condotte punibili ex art. 323 c.p., ancorando tale punibilità all’elemento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale e alla sussidiarietà del delitto di abuso d’ufficio.
In realtà, la critica maggiore riguarda il fatto che non si verifica alcuna violazione di legge o di regolamento, elemento essenziale per l’integrazione del citato delitto.

- TESI DELL’IRRILEVANZA PENALE
L’ultima tesi giurisprudenziale è quella che considera come oggetto materiale della condotta del dipendente non l’apparecchio telefonico, e neppure gli impulsi elettronici, bensì il contratto di utenza stipulato dalla p.a. col gestore di riferimento.
Da ciò, conseguirebbe l’impossibilità di intravedere un’appropriazione concettualmente idonea ad essere considerata elemento costitutivo del delitto di peculato.
La condotta dell’agente, si dice, ha come unico effetto quello di causare gli addebiti a carico della p.a., conseguenti allo sfruttamento della linea mobile.
La confluenza dell’attività del dipendente pubblico nell’art. 323 c.p. è resa non percorribile a causa delle già citate critiche.

4. Le Sezioni Unite accolgono la tesi del peculato d’uso.

- CRITICA ALLA TESI DEL PECULATO EX ART. 314 CO. 1 C.P.
Non può configurarsi il peculato semplice in quanto:
1) non ci si può appropriare di impulsi elettronici.
2) pur volendo considerare la condotta del p.u. condotta “appropriativa”, si cadrebbe in un palese corto-circuito giuridico, in quanto gli impulsi elettronici non pre-esisterebbero alla condotta appropriativa, bensì sarebbero prodotti dalla stessa.
3) la “consistenza economica” del danno-evento non è riscontrabile ex se, bensì è strettamente ancorata al contratto di utenza stipulato dalla p.a.; dovendo quest’ultima corrispondere al gestore solo successivamente i costi prodotti dall’uso della linea telefonica, si assisterebbe ad un poco comprensibile spostamento cronologico del vantaggio ottenuto dal dipendente immediatamente a seguito del perfezionamento della sua condotta.

- NON PUO’ PARLARSI DI TRUFFA
La pur sostenuta ipotesi della truffa viene confutata dai Giudici di Legittimità in quanto il vantaggio è “incamerato” dal pubblico ufficiale immediatamente dopo l’utilizzo indebito del telefono, e non a seguito di una realizzata induzione in errore.

- SI CONFIGURA IL PECULATO D’USO
Viene accolta la tesi del peculato d’uso grazie ad una nuova lettura del concetto di appropriazione.
Essa viene definita come “abuso del possesso” e “disconoscimento dell’altrui maggior diritto”. In altri termini, appropriazione può significare semplicemente “uso deviato, distorto, del bene”.
La restituzione, conseguentemente, non viene ancorata ad una rimessione del bene nella disponibilità materiale della p.a., bensì alla riconduzione dello stesso nella sua destinazione funzionale.
Essendo stato il bene asservito ai fini personali dell’agente per un periodo poi cessato, non potrà parlarsi di peculato ordinario, bensì di peculato d’uso.

5. Riflessioni della dottrina.
In primo luogo, come più volte accennato in questa trattazione, pare opportuno sottolineare la rilevanza di quanto statuito dalle Sez. Un. in tema di plurioffensività del delitto di peculato: quest’ultimo potrà sussistere sia nel caso in cui il danno economico varchi la soglia del “penalmente rilevante” (vale a dire la soglia di offensività) sia nel caso in cui, pur essendo la deminutio patrimonii assolutamente irrisoria (ad esempio, infinitesimale), si possa dire che la funzionalità dell’ufficio sia stata concretamente compromessa.

In secondo luogo, si vuole porre l’accento sui rinnovati concetti di appropriazione e restituzione: il primo si riempie del significato di abuso/uso indebito; il secondo assume la valenza di “ricollocazione” del bene nella destinazione funzionale impressa ad esso dalla p.a.
Infine, si vuole dare atto delle prime critiche emerse.
Parte della dottrina prende infatti le distanze dal dictum, in quanto esso postula che nella condotta del dipendente che utilizzi per fini privati il telefono di cui egli è dotato per ragioni d’ufficio vi sia un’attività definibile come appropriazione. In realtà, alcuni Autori rivendicano l’inesistenza di qualsivoglia tipo di appropriazione sia nel caso in cui si ritenga oggetto materiale l’apparecchio telefonico, sia nel caso in cui si ritenga che esso consista negli impulsi elettronici.
Secondo tal dottrina, la condotta afferisce al diritto d’utenza, il quale, non potendo essere oggetto di appropriazione, fa scattare la sola responsabilità risarcitoria in capo all’agente nei confronti della p.a.

Qualora, poi, si voglia dotare di rilevanza penale la condotta in parola, pare opportuno riconsiderare l’ipotesi criminosa dell’abuso d’ufficio ex art. 323 c.p., poiché la recente approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, fa sì che il divieto di utilizzo del telefono d’ufficio per fini personali (salvo casi di assoluta necessità) assurga al rango di norma regolamentare e possa dunque giustificare l’operatività del delitto di abuso d’ufficio.

Dott. Filippo Lombardi

FONTI
Patrizia TRUNFIO, “Le Sezioni Unite (19054/2013) sulla questione dell’uso per fini privati di telefono assegnato per ragioni d’ufficio”, in www.neldiritto.it
Luigi DELPINO, “Diritto Penale. Parte Speciale”, Ed. XVIII, 2011, pagg. 79 e ss.
Carlo BENUSSI, “Il pubblico funzionario che fa uso del cellulare di servizio per fini privati risponde di peculato d’uso”
, 12 maggio 2013, in www.penalecontemporaneo.it
Roberto GAROFOLI, “Manuale di Diritto Penale. Parte Speciale”, tomo I, Ed. V, pagg. 153 e ss.

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