La perdita di capitale tra poste “cuscinetto” e poste “cenerentola”
A cura dell'avv. Marco Leocata, già pubblicato su "Contratto e Impresa"

Sommario: 1. La nozione civilistica della “perdita di capitale”. – 1.1. La tesi prevalente. – 1.2. (segue) Questioni applicative. – 1.3. La tesi di minoranza. – 2. Lo scopo della disciplina della riduzione del capitale per perdite e gli interessi tutelati. – 3. L’equivoco delle riserve come “barriera protettiva del capitale”. – 4. La centralità del capitale sociale. – 5. Le modalità di utilizzo delle riserve. – 6. Conclusione. La tesi qui proposta.

1. La nozione civilistica della perdita di capitale
La prima e fondamentale questione che pone la disciplina dettata dagli articoli 2446 e 2447 c.c. per la società per azioni e dagli articoli 2482 bis e 2482 ter c.c. per la società a responsabilità limitata è quella della determinazione del concetto di “perdita di capitale”.
In sostanza, il problema è quello di comprendere quando una perdita di bilancio possa essere considerata altresì “perdita di capitale” ai sensi della succitata disciplina, ai fini degli adempimenti ivi previsti.
Il problema posto ha invero una rilevanza pratica solo nel caso concreto in cui nel bilancio risultino iscritte delle riserve, di tal che l’importo del patrimonio netto sia superiore a quello del capitale nominale.

1.1. La tesi prevalente
L’orientamento assolutamente prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza ritiene che le perdite di bilancio debbano essere conteggiate prima sulle riserve (iniziando dalle più disponibili e finendo con quella legale, anzi, con quella da fair value, si parla a proposito di vari “strati” del netto) e solo dopo la loro totale erosione sul nominale. Pertanto, di perdita di capitale si potrebbe parlare solo dopo che le prime (le perdite) arrivassero a superare l’ammontare delle seconde (le riserve) andando così ad incidere per l’eccedenza sul nominale.
Gli obblighi imposti dalla disciplina in esame, quindi, scatterebbero solo quando le perdite raggiungessero la cifra risultante dalla somma dell’ammontare delle riserve e di un importo pari ad oltre un terzo del capitale nominale (1). Sulla base della sopra riferita interpretazione, si è giunti ad affermare che sarebbe invalida una delibera di assemblea straordinaria di riduzione del capitale, approvata sul presupposto di una perdita considerata rilevante (perché conteggiata immediatamente sul capitale nominale) pur in presenza di riserve sufficienti a coprirla (2).
Gli argomenti posti a fondamento della tesi appena illustrata possono essere così riassunti: a) le riserve costituiscono la naturale barriera protettiva del capitale, onde è consequenziale che quest’ultimo sia interessato soltanto dopo la riduzione delle prime (3); b) il procedimento indicato assicura tutela: b1) sia ai creditori della società che hanno l’interesse a che le disponibilità della stessa siano intaccate secondo un ordine che tenga conto del grado di facilità con cui le medesime potrebbero essere distribuite ai soci, perché, diversamente, verrebbe aggirata la norma sul rimborso del capitale esuberante dettata all’art. 2445 c.c. (4), ciò che li priverebbe delle garanzie ivi previste a loro favore; b2) sia agli eventuali soci di minoranza (o comunque assenzienti o assenti) che hanno l’interesse a che le riserve vengano utilizzate prima di un’operazione sul nominale che incide sulle loro azioni o quote, in quanto, altrimenti, pur in presenza di un elevato valore patrimoniale della società e di non significative perdite di esercizio, coloro che non sono in grado di sottoscrivere l’aumento successivo all’azzeramento per perdite potrebbero rimanere privati della qualità di socio.
Rappresenta una variante della tesi appena illustrata quella cd. Degli aziendalisti, secondo la quale le perdite di bilancio andrebbero conteggiate direttamente sull’intero patrimonio netto (dato dalla somma del capitale nominale più le riserve), pertanto, gli obblighi previsti nella disciplina in esame, scatterebbero solo quando le perdite stesse raggiungessero un importo pari ad oltre un terzo del netto medesimo (5). Si tratta di una tesi invero rimasta isolata, ma che comunque ha aperto una breccia sul fronte della tesi prevalente, riconoscendo la necessità di un’interpretazione più elastica (6) (7).

1.2. Questioni applicative
Nel suo momento applicativo la tesi sopra riferita si imbatte in alcune questioni di notevole spessore e delicatezza, che credo sia opportuno esaminare anche se per sommi capi.
Le prime due questioni riguardano le modalità di conteggio delle perdite di bilancio nelle ipotesi in cui la società disponga di utili di periodo e/o di versamenti volontari dei soci eseguiti a titolo di capitale di rischio, la terza questione riguarda le modalità di sistemazione delle perdite nelle more che si giunga al punto in cui è obbligatorio intervenire sul nominale.
In ordine alla prima questione, risulta minoritario l’orientamento secondo il quale gli utili di periodo non potrebbero essere presi in considerazione perché mancherebbero del carattere della realità, caratteristica che, si afferma, potrebbero acquisire solo a conclusione del ciclo produttivo con l’approvazione del bilancio di esercizio (8). Prevale, invece, la tesi contraria, la quale è fondata sui seguenti argomenti. Da un lato, si sostiene che sarebbe incoerente affermare che le perdite sarebbero rilevanti anche se risultassero da una situazione infra-annuale, mentre gli utili solo se risultanti da un bilancio di esercizio. Dall’altro, si precisa che trascurare il risultato favorevole successivo all’ultimo bilancio importerebbe una rappresentazione dello stato patrimoniale della società difforme da quella reale, alla quale invece il legislatore dimostra di riferirsi, come si deduce: a) dalla norma dettata al primo comma dell’art. 2446 c.c., la quale, richiedendo un confronto tra la situazione patrimoniale e il bilancio successivo, necessariamente deve significare che la prima deve essere redatta con gli stessi principi del secondo, altrimenti il rapporto non sarebbe corretto; b) dall’art. 2433 bis, quarto comma, c.c., il quale, a proposito della possibilità di distribuire acconti sui dividendi, si riferisce agli utili conseguiti dalla chiusura dell’esercizio precedente; c) dalla circostanza che il mancato conteggio potrebbe portare a liberare dal vincolo del capitale una parte dello stesso con diminuzione della garanzia dei creditori (9).

In ordine alla seconda questione, quella dei versamenti volontari dei soci eseguiti a titolo di capitale di rischio (10), senza pretendere di approfondire le diverse e complesse questioni che li riguardano, mi limito a ricordare alcuni principi che qui assumono rilevanza.
Secondo l’interpretazione ormai prevalente (11), i suddetti versamenti vanno distinti in due categorie: quelli eseguiti genericamente al fine di creare una riserva discrezionalmente utilizzabile dagli amministratori per il raggiungimento dell’oggetto sociale e quelli eseguiti al fine di essere utilizzati esclusivamente per un aumento di capitale (12).
I primi, avendo uno scopo generico, vengono acquisiti immediatamente al patrimonio della società in modo definitivo, vanno appostati in bilancio in una riserva apposita e non danno diritto alla restituzione se non che allo scioglimento della società e per il residuo (13).
I secondi, vanno distinti in due sottotipi, quelli eseguiti in conto di un aumento non ancora deliberato ma solo programmato (14) e quelli eseguiti in conto di un aumento già deliberato. A proposito dei versamenti destinati ad un aumento ancora da deliberare, a prescindere dall’esatta individuazione della natura giuridica del negozio in forza del quale gli stessi vengono eseguiti (15), si ritiene comunque che questi, essendo vincolati ad un fine specifico, debbano intendersi subordinati alla delibera di aumento, di tal che, in caso di mancata adozione della stessa nel termine pre-fissato o post-fissando, devono essere restituiti ai rispettivi esecutori (16) (17).
Per il motivo anzidetto, dunque, nel momento in cui vengono eseguiti, questi versamenti rappresentano per la società una posta provvisoria (18). Ebbene, proprio per le caratteristiche appena illustrate, nell’ambito della tesi in esame, si è arrivati da recente alla conclusione che i versamenti in conto futuro aumento non possono essere considerati riserve alla stessa stregua dei versamenti genericamente in conto capitale (tant’è che l’eventuale aumento eseguito mediante il loro utilizzo sarebbe a pagamento, non gratuito come sarebbe nel caso di utilizzo di riserve), quindi, diversamente da questi ultimi, non possono essere conteggiati ai fini del calcolo dell’incidenza delle perdite (19) (20).

In ordine alla terza questione, quella che riguarda le modalità di sistemazione delle perdite nelle more che si giunga al punto in cui è obbligatorio intervenire sul nominale, nell’ambito della tesi prevalente in esame si riscontrano due interpretazioni contrapposte. Infatti, alcuni autori ritengono che il preventivo assorbimento delle perdite da parte delle riserve opererebbe in modo automatico, indipendentemente dalla volontà della società, quindi di un’apposita delibera assembleare, la quale ultima eventualmente potrebbe solo constatare l’avvenuta riduzione; i suddetti autori, pertanto, affermano che gli amministratori nella redazione del bilancio annuale dovrebbero procedere a ridurre le riserve (iniziando da quelle più disponibili) in misura pari all’ammontare delle perdite subite (21). Di contrario avviso sono quanti sostengono che il ripianamento delle perdite comporterebbe una gestione delle poste di bilancio la quale sarebbe senz’altro di competenza dell’organo deliberativo; peraltro, avverso la tesi opposta si obietta che l’interpretazione sarebbe in contrasto con la possibilità di riportare a nuovo la perdita nel caso in cui questa non fosse di entità rilevante, possibilità implicitamente riconosciuta dal legislatore all’art. 2433 bis c.c., dettato in tema di distribuzione di acconti sui dividendi. I suddetti interpreti, pertanto, affermano che fin quando non si rendesse obbligatorio intervenire sul nominale, l’assemblea ordinaria potrebbe decidere alternativamente ed esclusivamente: o di assorbire le perdite riducendo per pari importo le riserve, decisione che sarebbe attuabile solo con riferimento al bilancio successivo, ovvero di riportare le perdite a nuovo di anno in anno, lasciando intatte le riserve (22).

1.3. La tesi di minoranza
La tesi prevalente sopra illustrata non è condivisa da coloro, invero una minoranza, che, ritenendo la perdita di bilancio già essa stessa perdita di capitale, affermano che la medesima andrebbe conteggiata direttamente sul nominale.
Tale soluzione interpretativa è stata variamente motivata.
Innanzitutto si argomenta sul dato letterale, in merito al quale si osserva che al legislatore era ben chiara la differenza tra i concetti di “capitale”, “patrimonio” e “riserve” (si vedano per esempio gli artt. 2327, 2328, primo comma, n. 4, 2329, primo comma, n.1., 2332, primo comma, n. 5, riferiti al primo, gli artt. 2325, 2350, 2394 c.c. riferito al secondo e l’art. 2442 c.c. riferito alle terze), pertanto, se negli articoli 2446, 2447, 2482 bis e 2482 ter c.c., ha utilizzato il termine “capitale” è evidente che voleva riferirsi al nominale.
Pur partendo da questo punto condiviso, tuttavia, nell’ambito della tesi in esame si riscontra una divergenza di opinioni in ordine all’individuazione degli interessi tutelati dalla disciplina in esame. Infatti, alcuni interpreti ritengono che la succitata disciplina mira a tutelare l’interesse dei creditori ed, in tale prospettiva, affermano che la più efficace garanzia dei creditori è rappresentata dal capitale, posto che mentre questo può essere ridotto solo con le garanzie appositamente previste, le riserve (almeno quelle disponibili) possono invece essere ridotte liberamente (23).
Per altri interpreti, invece, la disciplina in esame mira a tutelare, da un lato, l’interesse dei soci (in particolare quelli di minoranza) alla remunerazione del proprio investimento, i quali altrimenti vedrebbero eccessivamente compressa la loro aspettativa alla distribuzione degli utili di esercizi futuri (stante il divieto di distribuzione di utili fintanto che si registra una perdita sancito dall’art. 2433, comma 3, c.c.), dall’altro lato, quello di carattere informativo di tutti gli operatori giuridici che hanno intenzione di intrattenere rapporti giuridici con la società, a ravvisare nel capitale la misura minima della garanzia patrimoniale offerta dall’ente, indipendentemente da indagini sulla contabilità (24). Infine, v’è chi richiama l’interesse dei soci a decidere sull’utilizzo delle riserve (25).

2. Lo scopo della disciplina della riduzione del capitale per perdite e gli interessi tutelati.
Conclusa la rassegna delle tesi proposte sul tema in esame, osservo che nessuna sembra riuscire a fornire un’interpretazione della relativa disciplina che possa considerarsi appagante, cioè capace di soddisfare allo stesso tempo, conciliandoli, tutti gli interessi coinvolti nella fattispecie, i quali, peraltro, non essendo neppure individuati in modo uniforme, rimangono ancora da identificare con chiarezza. È per questo motivo che ritengo che debba essere ricercata una soluzione più soddisfacente e che, in tale direzione, bisogna iniziare proprio dallo studio dei summenzionati interessi.
Nella prospettiva indicata, ritengo che il primo punto da chiarire riguardi l’individuazione dello scopo che ha inteso perseguire il legislatore nel dettare la disciplina della riduzione del capitale per perdite. A mio parere, per quanto siano molteplici gli interessi coinvolti nella vicenda in esame (26), il reale ed unico scopo immediatamente perseguito dalla summenzionata disciplina dovrebbe essere individuato in quello di garantire l’effettività del capitale sociale, quale mezzo al fine di consentire al capitale stesso di svolgere correttamente la funzione informativa attribuitagli dal legislatore, funzione che viene assicurata attraverso il bilancio (artt. 2423 ss. c.c.) e la corrispondenza (la norma dettata al secondo comma dell’art. 2250 c.c. impone alle società soggette all’iscrizione nel registro delle imprese l’indicazione negli atti e nella corrispondenza non solo dell’importo del capitale nominale, ma, ancor di più, della somma effettivamente versata ed esistente secondo l’ultimo bilancio approvato) (27).
In definitiva, a mio parere, è solo garantendo l’effettività del capitale sociale che tutti i succitati interessi possono trovare, peraltro solo in via indiretta, adeguata soddisfazione (28).

Scendendo adesso dal piano generale a quello particolare dei singoli interessi, bisogna precisare che nella vicenda in esame, oltre a quelli sopra genericamente ricordati, ne rimangono coinvolti pure degli altri sui quali è opportuno soffermarsi.
In primo luogo, ritengo che la disciplina in esame miri a soddisfare un’esigenza di chiarezza e “pulizia” del bilancio, come si riconosce pure tra i sostenitori della tesi prevalente (29). Ora, il punto è che proprio la tesi appena citata non sembra idonea al suddetto fine. Invero, come prima riferito in merito alla modalità di sistemazione delle perdite medio tempore, due sono le vie che i sostenitori della tesi prevalente ritengono percorribili, quella di cancellarle immediatamente in misura pari alle riserve e quello di riportarle a nuovo di anno in anno fino al momento in cui diventi obbligatorio intervenire sul nominale. Ebbene, a mio avviso, nessuna delle due soluzioni appare soddisfacente al fine in questione: non la prima, perché finirebbe per aggravare il problema della chiarezza anziché risolverlo, posto che le due voci contrapposte verrebbero fatte scomparire dalla contabilità con un “colpo di spugna”, del quale non rimarrebbe traccia sufficientemente visibile ai terzi; non la seconda, perché appare incongruente rispetto al fine in esame riportare a nuovo perdite anche per importi notevolmente superiori alla cifra dello stesso capitale nominale.
In secondo luogo, come pure riconosciuto tra i sostenitori della tesi prevalente (30), ritengo che assuma rilevanza anche l’interesse dei soci alla gestione delle riserve, che a sua volta giustifica il riconoscimento all’assemblea dei soci della relativa competenza.
Il punto è che proprio la succitata tesi non mi sembra tuttavia condivisibile, perché pretende di introdurre nel nostro ordinamento un istituto invero non codificato, quello della riduzione delle riserve per perdite, operazione appunto (in tesi) rimessa alla competenza dell’assemblea ordinaria dei soci. Il punto sarà approfondirò appresso.
In terzo luogo, come sostenuto nell’ambito della tesi prevalente, riconosco che sia meritevole di tutela anche l’interesse dei soci di minoranza a non subire manovre fraudolente della maggioranza, volte ad escluderli dalla società, benché, invero, il suddetto pericolo potrebbe sorgere solo nel caso disciplinato dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c., in cui è necessario aumentare il capitale dopo la sua riduzione onde evitare lo scioglimento. Atale proposito, se, da un lato, va rilevato che il legislatore non sembra aver minimamente considerato il possibile risvolto qui in esame dell’applicazione della succitata disciplina (probabilmente perché non aveva immaginato il fenomeno della sottocapitalizzazione che ormai caratterizza il nostro sistema economico), dall’altro lato, tuttavia, la surriferita circostanza non esime l’interprete a ipotizzare una soluzione idonea a porvi rimedio.
Ora, posto che i sostenitori della tesi minoritaria non hanno avanzato alcuna proposta sul punto e che la soluzione offerta dalla tesi prevalente non sembra condivisibile per i motivi in seguito illustrati, si tratta di ricercarne una diversa. Anche questo punto sarà approfondito appresso.
Infine, rimane il delicato problema dell’interesse dei creditori sociali al mantenimento della garanzia di soddisfazione dei loro crediti. Sul punto ricordo che mentre per la tesi prevalente tale tutela andrebbe riferita direttamente a tutto il patrimonio della società, per la tesi minoritaria, invece, la stessa tutela andrebbe riferita al solo capitale nominale.
A proposito della prima tesi, va osservato che dal confronto della disciplina in esame con quella della riduzione volontaria del capitale, che nel codice la precede (art. 2445 e 2482 c.c.), sembra potersi dedurre con certezza che il legislatore non abbia inteso tutelare nella prima un interesse dei creditori analogo a quello tutelato nella seconda, nella quale infatti ha previsto lo strumento dell’opposizione (31). Il motivo di tale scelta legislativa è evidente, infatti, essendo stata questa riduzione prevista come obbligatoria, in quanto causata da perdite, nessuno spazio sarebbe potuto rimanere per la tutela dell’interesse in esame né, quindi, per una eventuale opposizione.
In sostanza – premesso che il problema sollevato dai sostenitori della tesi prevalente si pone solo nel caso in cui siano presenti in bilancio riserve disponibili, che, in quanto tali possono essere distribuite ai soci e così sottratte alla garanzia dei creditori sociali – il punto è che nel sistema costruito dal legislatore la tutela di questi ultimi sembra essere stata collocata in un momento precedente a quello del sorgere del loro credito. In altri termini, sembra che il legislatore abbia voluto mettere a disposizione dei creditori una tutela di carattere esclusivamente preventivo, fondata sulla possibilità, da parte dei terzi che intendono entrare in rapporto con la società, di acquisire informazioni sul suo stato economico.
È proprio in questa prospettiva che, a mio parere, vanno lette sia la disciplina in esame, che (come già prima illustrato) risulta ispirata dallo scopo di garantire l’effettività del capitale sociale, quindi l’attendibilità dell’informazione, sia quella dettata al secondo comma dell’art. 2250 c.c. che pone appunto l’obbligo di informazione. Nella prospettiva indicata, non ritengo si possa negare che i terzi (eventuali futuri creditori della società), prima di contrarre con questa, hanno la possibilità di conoscere sia l’importo del suo capitale nominale (e ciò agevolmente tramite la semplice corrispondenza, ovvero un’indagine presso il registro delle imprese), sia anche l’esatta composizione del suo patrimonio (e ciò solo con qualche difficoltà in più, esaminando l’ultimo bilancio depositato, ovvero chiedendo una situazione patrimoniale aggiornata), venendosi quindi a trovare nelle condizioni di decidere in modo consapevole ed informato se accettare di contrarre o meno (32).
In sostanza, il terzo che deve decidere se contrarre con una società dispone innanzitutto di un indice già di per sé indicativo, che è rappresentato dalla cifra del capitale; ove poi questo dato non fosse ritenuto sufficiente, dispone ancora della possibilità di esaminare i bilanci. A questo punto, se la società fosse sottocapitalizzata, ma fortemente patrimonializzata per la presenza di cospicue riserve disponibili, il suddetto terzo avrebbe due alternative (se non volesse rinunciare all’affare): o accettare la situazione economica che si sarà presentata, ovvero, se ne avesse la forza economica, subordinare la conclusione dell’affare al previo assoggettamento delle riserve disponibili al vincolo di indisponibilità proprio del capitale stesso (mediante un aumento nominale) (33). In definitiva, in nessuno dei due casi si porrebbe il problema della tutela del terzo creditore della società così come è stato posto dai sostenitori della tesi prevalente: nel primo caso perché sarebbe stata accettata la situazione effettiva (conoscendola o potendola conoscere), nel secondo perché sarebbe stata ottenuta la garanzia richiesta (34).

Per quanto sopra argomentato, l’eventuale peggioramento medio tempore della situazione economica della società, sarebbe irrilevante sotto il profilo in questione per il terzo divenuto ormai creditore, in quanto questi era consapevole di poter contare per certo solo sul nominale e sulle riserve indisponibili. A questo punto il suddetto creditore avrebbe due sole alternative: quella di chiedere un aumento delle garanzie patrimoniali (come sopra illustrato), ove ne avesse il potere contrattuale, oppure quella di interrompere i rapporti con la società, ove non disponesse di tale potere. In definitiva, mentre il creditore contraente forte avrebbe ancora una carta da giocare, appunto il proprio peso economico (come per esempio una banca, ovvero un fornitore di una materia prima indispensabile), il creditore contraente debole dovrebbe arrendersi.
Ove tale sistema di tutela non lo si ritenesse adeguato, in quanto insufficiente a garantire in ugual modo entrambe le categorie di creditori (contraenti forti e contraenti deboli), si tratta ancora una volta di vedere se sia possibile ipotizzare una soluzione diversa sia da quella appena prospettata sia da quella proposta della tesi prevalente.

3. L’equivoco delle riserve come “barriera protettiva del capitale”
A mio parere, per procedere alla ricerca di una interpretazione che si dimostri idonea a tutelare adeguatamente tutti gli interessi coinvolti nella vicenda in esame, bisognerebbe preliminarmente sgombrare il campo da quello che considero un equivoco di fondo, nel quale ritengo siano caduti i sostenitori della tesi prevalente, che è rappresentato dal principio secondo il quale le riserve rappresenterebbero la « barriera protettiva del capitale” (35).
Invero, nel linguaggio e nella logica comuni il termine “riserve” evoca il concetto di “scorte”, cioè di un “supplemento” di risorse provvisoriamente accantonate (normalmente di entità inferiore rispetto a quella principale), da utilizzare in seconda battuta in caso di necessità, cioè in caso di diminuzione o esaurimento della risorsa principale. Ora, se quella appena ricordata è la logica comune (ed invero lo è), non si vede per quale ragione si debba pensare che il legislatore se ne sia voluto discostare. In altri termini, non vedo perché non si debba riconoscere che anche in materia di società, le riserve (in quanto risorse supplementari) si possano utilizzare solo in seconda battuta, in caso di necessità (cioè appunto di perdite), al fine di ripristinare (nei limiti della loro consistenza) la risorsa principale (esaurita o solo diminuita) che i soci hanno inteso destinare in prima battuta allo svolgimento dell’attività economica, rappresentata appunto dal capitale.
In definitiva, il riferimento al concetto di “barriera protettiva” operato dai sostenitori della tesi maggioritaria, evidenzia un errore già sotto il profilo concettuale (prima ancora che sotto quello giuridico), dovuto ad una inversione del ragionamento logico, che una semplice metafora può efficacemente rappresentare.
In battaglia le riserve, che, in quanto tali, stazionano nelle retrovie, vengono impiegate, cioè inviate in prima linea, non all’inizio del combattimento, come se dovessero proteggere il grosso dell’esercito stesso, ma, al contrario, solo in caso di necessità, proprio per rimpiazzare le perdite subite.

Per concludere, a ben riflettere, rimanendo sul piano della metafora, sembra che la tesi che qui si contesta abbia confuso le “riserve” con le “guardie del corpo”, visto che queste ultime hanno istituzionalmente proprio lo scopo che invece qui si affida alle prime (36).

4. La centralità del capitale sociale
La metafora sopra riferita porta il discorso su un problema di notevole complessità, quello della centralità del capitale sociale nell’organizzazione della società e nello stesso ordinamento societario, sul quale, stanti i limiti di questo studio, mi limiterò a brevi ma opportuni cenni.
Nel succitato ambito è accaduto che la prassi ha capovolto le posizioni originariamente configurate dal legislatore, perché, per effetto dell’anomalo fenomeno della sottocapitalizzazione (ormai generalizzato nel nostro sistema, in particolare per effetto dell’uso diffuso degli apporti dei soci a capitale di rischio prima esaminati) l’importo del nominale è assai spesso di gran lunga inferiore rispetto a quello delle riserve, al punto da arrivare ad assumere esso l’aspetto della riserva e le riserve quello del capitale (37).
Questo fenomeno è stato criticato da uno dei più autorevoli studiosi della materia, il quale lo ha denunciato apertamente parlando di “illiceità della tendenza a trasformare il capitale da posta “principe” a posta “cenerentola”” (38).
In sostanza, il citato Autore contesta la tesi ormai prevalente secondo la quale, la mancanza nel nostro ordinamento di disposizioni che pongano limiti al rapporto tra capitale sociale in senso stretto e capitale proprio, dimostra che “la valutazione complessiva dei mezzi propri di cui l’impresa dispone in un dato momento deve essere fatta con riguardo ad un insieme (capitale, riserve in senso tecnico, contributi in conto capitale) nel cui ambito il capitale sociale svolge sostanzialmente la funzione di parametro delle singole partecipazioni, adempiendo cioè ad una funzione soprattutto organizzativa” (39).
Questa tesi, a parere del citato Autore, non può essere condivisa perché risulta “in contraddizione con la posizione centrale che ad esso (il capitale) ancora attribuisce la seconda Direttiva comunitaria in materia societaria (da tenere sempre presente nell’interpretazione dei diritti nazionali), dalla quale, di certo, non può essere arguita una degradazione delle funzioni del capitale a quella, pressoché esclusiva, (e per di più, secondo taluno, in via di progressivo svuotamento), di strumento di misurazione della partecipazione sociale” (40) (41). Tuttavia, mentre il citato Autore, come prima ricordato, finisce comunque per condividere la tesi prevalente, deducendo dal riconoscimento della centralità del capitale sociale la conclusione secondo la quale il capitale stesso, proprio perché posta “principe” dovrebbe essere protetto dalle poste “cenerentola” (42), a mio parere, invece, dal suddetto riconoscimento dovrebbe discendere per coerenza la conclusione proprio opposta, secondo la quale le riserve potrebbero e dovrebbero effettivamente utilizzate (contabilmente) solo in secondo momento, appunto solo dopo la perdita o la riduzione rilevante del nominale.

5. Le modalità di utilizzo delle riserve
La tesi secondo la quale nella logica del legislatore le riserve siano considerate propriamente “riserve” (oltre che poste “cenerentola”), non “guardie del corpo”, e che il capitale, in quanto posta “principe”, sia il primo a dover sopportare le perdite, in quanto il primo a dover essere utilizzato, a mio avviso risulterebbe confermata da due circostanze: la prima è che lo stesso legislatore ha previsto e disciplinato solo l’ipotesi della riduzione del capitale per perdite, non anche quella delle riserve; la seconda, connessa alla prima, è che, per converso, il medesimo legislatore ha previsto e disciplinato un unico procedimento attraverso il quale le riserve stesse possono essere (contabilmente) utilizzate (con l’effetto di ridurne la relativa cifra), quello consistente nel loro passaggio a capitale mediante l’operazione di aumento nominale disciplinata dagli artt. 2442 e 2481 ter c.c.
In ordine alla prima circostanza, va rilevato che in senso contrario non sembrano poter deporre le norme dettate al secondo comma dell’art. 2430 c.c. (riserva legale) ed al secondo comma dell’art. 2413 c.c. (riduzione del capitale di società che abbia emesso obbligazioni) (43). Invero, la prima norma, disponendo che “La riserva legale deve essere integrata a norma del comma precedente se viene diminuita per qualsiasi ragione”, potrebbe indurre a pensare che, non essendo la suddetta riserva suscettibile né di distribuzione, né di utilizzo per un aumento nominale (44), l’unica ragione per la quale la stessa potrebbe diminuire sarebbe appunto quella riconducibile alle perdite. A maggior ragione, al medesimo risultato interpretativo sembrerebbe condurre la seconda norma sopra citata, la quale in modo esplicito dispone che “Se la riduzione del capitale sociale è obbligatoria, o le riserve diminuiscono in conseguenza di perdite, non possono distribuirsi utili . . .”.

A mio parere, alle norme succitate non può essere riconosciuta una valenza superiore a quella che le stesse hanno effettivamente. Invero, entrambe si limitano a prevedere (in astratto) il fenomeno della riduzione delle riserve, cioè il fatto che se ne possa ridurre la cifra per la quale risultano iscritte in bilancio, ma nessuna delle due chiarisce quale sia il procedimento da seguire per giungere al superiore risultato. Fermo restando che non v’è dubbio che le riserve (invero sole quelle disponibili) possano diminuire per effetto di una delibera dell’assemblea ordinaria che ne disponga la distribuzione, l’unico caso di riduzione nel quale risulta espressamente disciplinato dal legislatore il relativo procedimento è quello dell’aumento nominale del capitale. Infatti, gli artt. 2442 e 2481 ter c.c., prevedendo che il capitale possa essere aumentato mediante imputazione delle riserve (in quanto disponibili), disciplinano un procedimento attraverso il quale si realizza di fatto un duplice effetto, da un lato, appunto, l’aumento della cifra del nominale, dall’altro e corrispondentemente, la riduzione della cifra delle riserve.
A voler essere più precisi, poi, va detto che il secondo effetto trova la sua causa nel primo. In altre parole, nella fattispecie in questione, l’operazione non ha per oggetto diretto la riduzione delle riserve, bensì l’aumento del capitale, pertanto, la prima (la riduzione) viene a realizzarsi non per uno scopo diretto, ma quale mezzo al fine per poter consentire il perfezionamento della seconda (l’aumento).
In ultima analisi, è la decisione di aumentare il capitale che rappresenta il prius logico di quella di utilizzare (quindi ridurre) le riserve.

Tanto premesso, passiamo adesso al problema delle perdite, per vedere se il medesimo risultato interpretativo appena raggiunto possa essere applicato anche in quest’ultimo caso. Non v’è dubbio che anche le riserve, come il capitale, possano diminuire a causa di perdite di bilancio (tant’è che lo afferma appunto la norma dettata al secondo comma dell’art. 2413 c.c. prima citato), ma il punto che rimane da chiarire è se le suddette perdite debbano essere considerate causa diretta ovvero solo mediata della riduzione stessa.
In altri termini, posto che, come appena illustrato, le riserve possono diminuire anche per effetto di un’operazione diversa, il punto da chiarire nel caso adesso in esame è se le perdite vanno ad incidere immediatamente sulle riserve, così da rappresentarne una causa diretta di riduzione, ovvero, invece, se vanno ad incidere prima sul capitale nominale, così che sia la riduzione di questo a rappresentare la causa della riduzione delle riserve, secondo un meccanismo analogo a quello prima illustrato.
A mio parere, a favore della seconda opzione ermeneutica militerebbe la circostanza che, come sopra anticipato, il legislatore ha disciplinato compiutamente solo l’ipotesi della riduzione del capitale per perdite, non quella delle riserve (che si è limitato a prevedere solo come effetto dell’aumento nominale del capitale). Detta circostanza dimostrerebbe, a mio avviso, che per il medesimo legislatore la causa della riduzione delle riserve sarebbe rappresentata non dalla perdita di bilancio (che altrimenti sarebbe una causa diretta), bensì, appunto, dalla perdita del capitale nominale (che, quindi, come illustrerò appresso, sarebbe la causa prima, ma non diretta). A ragionare diversamente, invece, si dovrebbe giungere alla conclusione, a mio parere tuttavia non desumibile dal sistema, che la fattispecie della riduzione del capitale per perdite si articolerebbe di due fasi distinte: la prima, avente carattere prodromico, che avrebbe ad oggetto la riduzione delle riserve, la seconda, rappresentante la vera e propria riduzione del capitale, che avrebbe ad oggetto appunto quest’ultimo (45).
In definitiva, ritornando alla precedente metafora, ritengo che il legislatore, sul presupposto che le riserve non possono essere (contabilmente) utilizzate fino a quando rimangono nelle retrovie, abbia predisposto un solo modo per portarle in prima linea, così dimostrando che è proprio il capitale a dover per primo sopportare le perdite, coerentemente alla sua primaria funzione di strumento economico per l’esercizio dell’attività.
La circostanza, poi, che lo stesso legislatore abbia disciplinato l’istituto dell’aumento nominale solo nell’ipotesi “fisiologica”, cioè quella che precede le perdite, nella quale possono essere passate a capitale le sole riserve “in quanto disponibili”, a mio avviso non esclude che il medesimo procedimento possa, anzi debba, essere utilizzato anche nell’ipotesi “patologica”, cioè quella che si verifica allorché siano già maturate perdite (rilevanti o meno).
Per concludere, la ratio dell’istituto dell’aumento nominale sembra unica e se non fosse quella qui ipotizzata, l’istituto stesso rimarrebbe (almeno in parte) privato di significato, perché, ove lo strumento in esame potesse essere utilizzato solo nell’ipotesi “fisiologica”, probabilmente non sarebbe neppure necessario, posto che il medesimo risultato potrebbe essere ottenuto più semplicemente, assoggettando le riserve disponibili a vincolo di indisponibilità, operazione questa che, non comportando una modifica dell’atto costitutivo, rimarrebbe di competenza dell’assemblea ordinaria (46).

6. Conclusione. La tesi qui proposta
È giunto quindi il momento di esporre la tesi che si propone. Prima, però, è opportuno riepilogare i risultati interpretativi fin qui raggiunti e cioè:
a) il reale ed unico scopo immediatamente perseguito dalla disciplina della riduzione del capitale per perdite é quello di garantire l’effettività del capitale sociale in funzione della sua funzione informativa, di tal che, la soddisfazione di tutti gli interessi coinvolti nella fattispecie in questione avviene solo in via mediata, per effetto della realizzazione del suddetto scopo;
b) nel nostro ordinamento è il capitale che svolge un ruolo centrale, in quanto posta “principe”; le riserve, invece, svolgono la tipica funzione delle “scorte”, non quella di “barriera di protezione” del primo, pertanto, come tali, possono essere utilizzate (e quindi ridursi) solo mediante imputazione a capitale;
c) risultano meritevoli di tutela sia l’interesse alla chiarezza e pulizia del bilancio, sia l’interesse di tutti i soci a decidere sulla gestione delle riserve e quello dei soli soci di minoranza a non subire manovre fraudolente da parte della maggioranza volte ad escluderli dalla società;
d) all’interesse dei terzi come futuri creditori della società è garantita dall’ordinamento una tutela di carattere soltanto preventivo, tramite la funzione informativa svolta dal capitale e la possibilità di acquisire informazioni sullo stato economico della società mediante la consultazione dei bilanci.
Sulla base dei superiori presupposti, mi sembra che la soluzione interpretativa più coerente con il sistema come sopra ricostruito, sia quella di conteggiare le perdite di bilancio immediatamente sul nominale, considerando al tempo stesso connesso all’obbligo di ridurre il capitale, nell’ipotesi prevista dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c., quello ulteriore di aumentarlo mediante utilizzo delle riserve, a partire da quelle più disponibili (47), procedendo, se necessario, secondo il sistema degli aumenti così detti a “fisarmonica” ovvero ad “altalena” (48).

In sostanza, ciò che si propone é un’interpretazione estensiva dell’obbligo di aumento già previsto dal legislatore nei succitati articoli. Avverso l’interpretazione così proposta, si potrebbe facilmente obiettare, che la stessa finirebbe per forzare eccessivamente il testo delle norme, pretendendo di leggervi ciò che invero v’è scritto. Alla superiore pur legittima obiezione, però, potrebbe altrettanto facilmente replicarsi che, invero, è l’ambiguità del dettato normativo che obbliga l’interprete a qualche forzatura, che si rende quindi necessaria nella ricerca di una soluzione adeguata alla complessa problematica, tant’è che, come si è ricordato in precedenza, sono costretti a ricorrervi anche i sostenitori della tesi prevalente, visto che si appellano a principi che non risultano enunciati in alcuna norma, né appaiono deducibili dal sistema in modo certo.
Raggiunto tale risultato interpretativo, un ulteriore passo avanti potrebbe forse essere compiuto nella direzione indicata, ove si mirasse all’ulteriore obiettivo di tutelare maggiormente anche i creditori sociali, soprattutto se contraenti “deboli”, cioè quelli che non avrebbero la forza (contrattuale o economica) di imporre alla società di assoggettare le riserve disponibili al vincolo di indisponibilità. Il passo sarebbe quello di ritenere applicabile il medesimo obbligo di aumento sopra ipotizzato, anche all’ipotesi prevista dagli artt. 2446, secondo comma, e 2482 bis, quarto comma, c.c., nonché a quella prevista implicitamente dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c.
In definitiva, la tesi proposta potrebbe essere così riassunta: ogni qualvolta la società subisca perdite (da rapportare al capitale nominale) di importo tale da far scattare l’obbligo della sua riduzione, al suddetto obbligo dovrebbe ritenersi connesso quello di aumentare il capitale stesso mediante l’utilizzo delle riserve, iniziando da quelle più disponibili, fino a giungere all’importo del nominale ante perdita, altrimenti a quello possibile (nell’ipotesi prevista dagli artt. 2446, secondo comma, e 2482 bis, quarto comma, c.c., nonché in quella prevista implicitamente dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c.), ovvero a quello minimo di legge (nell’ipotesi prevista esplicitamente dagli artt. 2447 e 2482 ter c.c.).

Avverso la ricostruzione sopra proposta i sostenitori della tesi prevalente potrebbero ancora obiettare che, invero, la prima finirebbe per giungere al medesimo risultato della seconda ma con due complicazioni: lo spostamento della competenza a decidere dell’utilizzo delle riserve dall’assemblea ordinaria a quella straordinaria ed il rischio di costringere la società ad intervenire sul capitale con cadenza anche molto frequente, con continue riduzioni e contestuali aumenti, con notevole appesantimento della gestione.
Alla prima obiezione ritengo si possa replicare, che, in fondo, attraverso il meccanismo del riporto a nuove delle perdite, che è quello generalmente utilizzato, anche la tesi prevalente finisce per riservare la gestione delle riserve all’assemblea straordinaria, stante che la loro “riduzione” viene in genere decisa proprio e solo al momento in cui la società é costretta ad intervenire sul nominale.
Alla seconda obiezione ritengo si possa replicare, innanzitutto, con l’osservazione che “l’anomalia nasce dall’esistenza di un rapporto tra capitale e riserve sicuramente diverso da quello tipico immaginato dal legislatore” (49); in secondo luogo, che le ragioni della prassi (50) non possono superare quelle del diritto, quando, come nel caso in esame, ciò dovesse avvenire al prezzo del sacrificio di interessi o diritti dei soci; in terzo ed ultimo luogo, che la tesi proposta avrebbe il pregio di rappresentare un’efficace strumento per contrastare il fenomeno dalla sottocapitalizzazione (quella formale), generalmente denunciato come un’anomalia del nostro sistema imprenditoriale (51).
Invero, a tale ultimo proposito, per tornare ad un argomento caro ai sostenitori della tesi prevalente, ferma restando la liceità della prassi di accumulare riserve sotto forma di versamenti a capitale di rischio, alla quale invero il legislatore non sembra aver posto espressamente alcuna restrizione, va rilevato che il suo abuso finisce con il ledere proprio l’interesse dei creditori che i primi affermano di voler tutelare, sotto il profilo dell’elusione della disciplina della riserva legale (52). Pertanto, ritengo che alla suddetta prassi un limite debba pur essere posto, al fine di ricondurla all’interno del sistema costruito dal legislatore, che è caratterizzato dalla presenza di una posta “principe” (appunto il capitale) e di varie poste “cenerentola” (appunto le riserve). Limite che può ben essere rappresentato proprio dall’accertamento di perdite, che, come sopra illustrato, può far scattare l’obbligo di imputare le riserve a capitale.



NOTE
1.
In tal senso la dottrina è quasi unanime: cfr. per tutti Colombo, Il bilancio e le operazioni sul capitale, in Giur. comm., 1984, I, 841 ss., ivi 865 ss., ove amplia bibliografia; Id., Il bilancio d’esercizio, in Trattato delle società per azioni, a cura di Colombo-Portale, 7*, Torino, 1994, 23 ss , ivi 508 ss.; Marchetti, Sulla destinazione dei saldi da rivalutazione monetaria, in Riv. soc., 1983, 114 ss., ivi 124 ss.; Nobili-Spolidoro, La riduzione di capitale, in Trattato delle società per azioni, a cura di Colombo-Portale, 6*, Torino, 1993, 197 ss., ivi 285 ss.; Nobili, La riduzione del capitale, in Il nuovo diritto delle società, diretto da Abbadessa-Portale, Torino, 2007, 317 ss.; da ultimo Trimarchi, Le riduzioni del capitale, in Notariato e nuovo diritto societario, collana diretta da Laurini, Milano, 2010, 204 ss.; Fico, Le operazioni sul capitale nella s.p.a. e nella s.r.l., Milano, 2010, 151 ss., ed in particolare Busi, Riduzione del capitale nelle s.p.a. e s.r.l., Milano, 2010, 25 ss., ove ampi riferimenti (dello stesso autore cfr. altresì S.p.a. - s.r.l., operazioni sul capitale, Milano, 2004, 401 ss., e Azzeramento e ricostituzione del capitale nelle S.p.A., Padova, 1998, 1 ss.); in giurisprudenza cfr. in sede di legittimità Cass., 2 aprile 2007, n. 8221, in Giur. comm., 2008, II, 963, in Vita not., 2008, I, 135; Cass., 17 novembre 2005 n. 23269, in Foro it., 2007, 3, 919; Cass., 6 novembre 1999 n. 12347, in Soc., 2000, 943; in sede di merito cfr. App. Catania, 16 ottobre 2010, inedita; Trib. Isernia, 10 gennaio 2007, in cd rom juris data; Trib. Roma, 7 ottobre 2005, in Riv. not., 2006, 4, 1101; Trib. Mantova, 13 agosto 2004, in www.ilcaso.it; Trib. Genova, 12 febbraio 2003, in Soc., 2003, 616; Trib. Roma, 17 marzo 2000, in Foro it., 2001, I, 748; Trib. Roma, 20 febbraio 2001, in Soc., 2001, 969; Trib. Roma, 4 febbraio 2000, in Nuovo dir., 2001, 23; App. Milano, 19 giugno 1999, in Notar., 1999, 243; Trib. Napoli, 11 maggio 1999, in Riv. not., 2000, 163; Trib. Napoli, 25 febbraio 1998, in Banca borsa tit. cred., 1998, II, 537, e 1999, II, 199; Trib. Roma, 6 maggio 1997, in Soc., 1997, 1326; Trib. Roma, 16 dicembre 1996, in Foro it., 1997, I, 3036; Trib. Milano, 27 marzo 1996, in Notar., 1997, 191; Trib. Udine, 17 gennaio 1995, in Soc., 1995, 676; Trib. Napoli, 1 marzo 1994, in Soc., 1994, 959; Trib. Napoli, 20 febbraio 1991, in Soc., 1991, 1236, in Riv. not., 1991, II, 769; App. Perugia 30 giugno 1992, in Impr., 1992, 2997; Trib. Cassino, 18 gennaio 1991, in Foro it., 1991, I, 1000; Trib. Cassino, 21 novembre 1990, Soc., 1991, 655; Trib. Verona, 9 novembre 1990, in Soc., 1991, 232; Trib. Genova, 6 giugno 1989, in Soc., 1990, 59; Trib. Roma, 24 maggio 1989, in Soc., 1989, 1085; App., Brescia, 20 marzo 1989, in Soc., 1989, 603; Trib. Brescia, 6 dicembre 1988, in Soc., 1989, 603; App. Napoli, 29 gennaio 1988, in Soc., 1988, 739; Trib. Genova, 2 febbraio 1987, in Soc., 1987, 526; Trib. Roma, 16 maggio 1986, in Soc., 1986, 1317; App. Milano, 10 maggio 1985, in Soc., 1985, 1298; App. Trieste 16 febbraio 1985, in Soc., 1985, 971; Trib. Udine, 22 dicembre 1984, in Soc., 1985, 971.

2. In tal senso cfr. in giurisprudenza Cass., 2 aprile 2007, n. 8221, cit., che richiama Cass., 6 novembre 1999 n. 12347, cit., la quale riconduce il vizio alla nullità per mancanza di causa; in dottrina cfr. Guerrera, Commento agli artt. 2446 e 2447, in Società di capitali, commentario a cura di Piccolini – Stagno D’Alcontres, Napoli, 2004, 1200 ss., ivi 1203; Trimarchi, cit., 208, per il quale la censura andrebbe ricondotta o a quella di impossibilità o illiceità dell’oggetto, che è l’unica che ai sensi dell’art. 2379 c.c. possa giustificare la sanzione della nullità, ovvero a quella della non conformità alla legge, che ai sensi dell’art. 2377 c.c. darebbe luogo alla sanzione dell’annullabilità.

3. Il principio risulta enunciato già sotto la vigenza del codice del commercio, in particolare cfr. Vivante, Trattato di diritto commerciale, Milano, 1923, II, 315, e Navarrini, Delle società e delle associazioni commerciali, Milano, 1924, 785, ed è stato poi ripreso anche dagli autori successivi, in particolare cfr. Simonetto, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, 275, il quale parla di “prima barriera di difesa” del capitale; nonché, Tantini, Capitale e patrimonio, cit., 89, il quale parla di “cuscinetto di protezione del capitale”, nonché dalla dottrina e dalla giurisprudenza quasi unanimi.

4. Invero, la riforma del 2003 ha modificato l’articolo citato, elidendo ogni riferimento all’esuberanza ed ampliando i poteri del Tribunale.

5. In tal senso cfr. Trib. Udine, 19 febbraio 1983, in Soc., 1983, 1278.

6. Mi riferisco in particolare a Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzate, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo-Portale, 1**, Torino, 2004, 3 ss., ivi 108-109, il quale, se per un verso, pur non dichiarandolo espressamente, dimostra di aderire alla tesi maggioritaria, per altro verso, sembra condividere la tesi cd. degli aziendalisti, anche se solo in casi estremi, affermando: “la storia e la ratio della norma rendono necessaria l’interpretazione estensiva dell’art. 2446, 1° comma, nell’ipotesi di perdita di oltre il terzo del patrimonio netto di una società che, prima della perdita stessa, risultava composto di centoventimila euro di capitale e di oltre nove milioni di euro di riserve”. Amio parere, l’osservazione del citato autore rischia però di creare confusione se non tradotta in un principio (proporzionale) ben preciso. Il problema, però, è che questo principio è ben difficile da stabilire, posto che il limite oltre il quale si rende “necessaria l’interpretazione estensiva” è assolutamente opinabile.

7. La tesi degli aziendalisti presenta a sua volta una variante, secondo la quale la perdita andrebbe conteggiata sulla sommatoria del capitale nominale e della sola riserva legale (tale tesi è riportata da Nobili-Spolidoro, La riduzione di capitale, cit., 286, ma non risulta citato alcuno che la abbia sostenuta).

8. In tal senso cfr. in giurisprudenza Trib. Napoli, 13 giugno 2000, e Trib. Roma, 8 novembre 1999, in Soc., 2000, 748; App. Napoli, 4 giugno 1999, in Giur. nap., 2000, 81; Trib. Milano, 2 novembre 1998, in Notar., 1999, 243; App. Roma, 3 luglio 1998, in Riv. not., 1998.

9. In tal senso cfr. in giurisprudenza Cass., 23 marzo 2004 n. 5740, in Giur. it., 2005, 296; Trib. Roma, 7 ottobre 2005, in Riv. not., 2006, 1101; App. Milano, 19 settembre 2000, Trib. Napoli, 27 aprile 2000 e App. Milano, 19 giugno 1999, in Notar., 1999, 243; Trib. Napoli, 11 maggio 1999, in Riv. not., 2000, II, 163; Trib. Napoli, 23 marzo 1999, in Notar., 1999, 244; Trib. Roma, 2 giugno 1998, e Trib. Roma, 6 maggio 1997, in Soc., 1997, 1326; in dottrina cfr. Colombo, Pretesa non iscrivibilità di utili di periodo nella situazione patrimoniale ai sensi dell’art. 2446 c.c.,in Soc., 2000, 748; Nobili-Spolidoro, La riduzione di capitale, cit., 352; Trimarchi, Le riduzioni del capitale, cit., 230; Busi, Riduzione del capitale, cit., 48 ss.; Id., S.p.a. - s.r.l., cit., 428.

10. È generalmente condiviso sia in dottrina come in giurisprudenza, il principio per il quale l’aumento di capitale non è l’unico sistema (benché sia quello tipico) attraverso il quale è consentito ai soci eseguire apporti a titolo di capitale di rischio. Sul punto per tutti da ultimo cfr. Busi, Riduzione del capitale, cit., 55 ss., e Trimarchi, L’aumento del capitale sociale, in Notariato e nuovo diritto societario, collana diretta da Laurini, Milano, 2007, 70 ss.; Cass., 14 aprile 2006, n. 8876, in Soc., 2007, 159, in Foro it., 2007, 11, 3217, e in Obbligazioni e contratti, 2006, 12, 1033.

11. Sul tema rinvio per tutti da ultimo ancora a Busi e Trimarchi, opp. locc. ultt. citt., ove riferimenti.

12. Nel caso in cui sia dubbio in quale tipo rientri un determinato versamento, la prova deve essere tratta non tanto dalla denominazione con la quale il versamento è stato registrato nelle scritture contabili della società, che può valere solo quale elemento di valutazione residuale, quanto soprattutto dal modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, quindi dal tenore del documento all’uopo redatto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi. In tal senso cfr. Cass., 6 luglio 2001, n. 9209, in Soc., 2002, 35; Cass., 14 dicembre 1998, n. 12539, in Notar., 1999, 538; Cass., 19 marzo 1996 n. 2314, in Soc., 1996, 1267, in Vita not., 1997, 316, in Riv. dir. comm., 1996, II, 329; App. Firenze, 21 maggio 1990, in Dir. fall., 1990, 13, 1432; Trib. Napoli, 25 febbraio 1998, in Banca borsa tit. cred., 1998, II, 537; in dottrina cfr. per tutti Tantini, I versamenti dei soci alle società, in Trattato delle Società per Azioni, diretto da Colombo-Portale, 1***, Torino, 2004, 743 ss., ivi 775; Ginevra, Sulla qualificazione dei finanziamenti dei soci alla società partecipata, in Banca borsa tit. cred., 2002, II, 728 ss., ivi 737; Busi, S.p.a. - s.r.l., cit., 87 ss.

13. In ordine al regime cui assoggettare i versamenti in esame, diverse sono le tesi sostenute: alcuni ritengono che si tratti di un’ipotesi di riserva facoltativa (in tal senso cfr. in giurisprudenza Trib. Genova, 12 febbraio 2003, cit.; in dottrina Tantini, I “versamenti in conto capitale” tra conferimenti e prestiti, Milano, 1990, 96; Id., I versamenti dei soci, cit., 780 ss.; Cera, Il passaggio di riserve a capitale, Milano, 1988, 149 ss.; Cenni, I versamenti fuori capitale dei soci e la tutela dei creditori sociali, in Questa rivista, 1995, 1110 ss., ivi 1150 ss.; da ultimo Trimarchi, Le riduzioni del capitale, cit., 224, L’aumento del capitale, cit., 156); altri li riconducono alla riserva da sovrapprezzo (in tal senso cfr. per tutti Portale, Appunti in tema di “versamenti in conto futuri aumenti di capitale eseguiti da un solo socio”, in Vita not., 1994, 587 ss., ivi 589; Colombo, Il bilancio d’esercizio, cit., 518; Irrera, Prestiti dei soci alla società, Padova, 1992, 183; Costa, Le riserve nel diritto delle società, Milano, 1984, 65; Sodi, I versamenti in conto capitale nella prassi: differenti caratteristiche e atteggiamenti della giurisprudenza, in Giur. Comm., 1996, II, 39 ss., ivi 50 ss.); per altri ancora i versamenti in questione dovrebbero essere assoggettati ad un regime più rigoroso, analogo a quello del capitale (in tal senso cfr. Chiomenti, I versamenti a fondo perduto, in Riv. dir. civ., 1974, II, 111 ss., ivi 118; Castellano, Riserve e organizzazione patrimoniale nelle società per azioni, Milano, 2000, 291 ss.; Ragno, Versamenti in conto capitale, Versamenti in conto futuro aumento di capitale e prestiti subordinati effettuati dai soci di società di capitali, in Giur. comm., 2000, I, 763 ss., ivi 767); in giurisprudenza cfr. Cass., 19 marzo 1996 n. 2314, cit., secondo la quale si tratta di una riserva da iscrivere al patrimonio netto tra le “altre riserve, distintamente indicate” di cui all’art. 2424 c.c., sub A) VII) del passivo).

14. Questi versamenti vanno a loro volta distinti a secondo che il futuro aumento di capitale sia stato concretamente previsto entro un periodo di tempo determinato, ovvero genericamente previsto per il futuro. In questo secondo caso si ritiene che possa essere fissato successivamente il termine entro il quale la delibera di aumento debba essere adottata. All’uopo sono state indicate tre possibili alternative: secondo una tesi dovrebbe trovare applicazione il principio civilistico dettato all’art. 1183 c.c., primo comma secondo inciso, pertanto, in mancanza di un successivo accordo tra i soci (ritengo secondo il metodo assembleare), ciascuno di essi può chiedere che sia il giudice a fissare il termine (in tal senso cfr. in dottrina ancora Trimarchi, Le riduzioni del capitale, cit., 223, L’aumento del capitale, cit., 284; in giurisprudenza cfr. Cass., 14 aprile 2006, n. 8876, e Cass., 19 marzo 1996, n. 2314, citt.); coloro che ritengono che il versamento si sostanzierebbe in una proposta contrattuale irrevocabile di sottoscrizione (sul punto rinvio alla successiva nota 15), sostengono invece che dovrebbe trovare applicazione l’art. 1331 c.c., secondo comma (in tal senso cfr. Parrella, Versamenti in denaro dei soci e conferimenti nelle società di capitali, Milano, 2000, 118; Verdirame, Commento a Cass., 6 luglio 2001, n. 9209, in Soc., 2002, 37 ss., ivi 39); secondo un’ultima tesi, enunciata prima della riforma del 2003, potrebbe applicarsi per analogia la norma dettata all’art. 2329 c.c., terzo comma, per la quale “Se entro un anno dal deposito l’iscrizione non è avvenuta, le somme di cui al comma precedente devono essere restituite ai sottoscrittori” (in tal senso cfr. Rubino De Ritis, Gli apporti spontanei in società di capitali, Milano, 2001, 144); la riforma, tuttavia, che ha spostato la norma succitata al quarto comma, secondo inciso, dell’art. 2331 c.c., ha ridotto il termine a novanta giorni.
In senso contrario, si rileva presso la giurisprudenza di merito un orientamento che afferma che i versamenti dei soci in conto di un futuro aumento di capitale dei quali non sia certo il collegamento causale con un futuro e ben determinato aumento, non solo possono, ma debbono essere utilizzati a copertura delle perdite, in coerenza con la loro essenziale e primaria funzione di riserve, e cioè di strumenti di protezione del capitale sociale, in tal senso cfr. App. Milano, 16 febbraio 2009, in Giur. mer., 2010, 4, 1018, Trib. Isernia, 10 gennaio 2007, cit.; Trib. Roma, 17 marzo 2000, in Foro it., 2001, I, 748; Trib. Roma, 4 febbraio 2000, in Nuovo dir., 2001, 23; Trib. Verona, 9 novembre 1990, in Soc., 1991, 232.

15. Alcuni autori individuano il negozio sottostante in un contratto atipico con il quale il socio effettua ovvero si obbliga ad effettuare anticipatamente in favore della società la prestazione oggetto del futuro ed eventuale contratto concernente l’aumento (in tal senso cfr. Cenni, I versamenti fuori capitale dei soci e la tutela dei creditori sociali, in Questa rivista, 1995, 1110 ss., ivi 1128), ovvero in un contratto atipico di sottoscrizione delle azioni di futura emissione, condizionato risolutivamente alla mancata realizzazione dell’aumento (in tal senso cfr. Angiello, Dei versamenti a fondo perduto, in conto capitale e in conto futuro aumento di capitale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1984, 1393 ss., ivi 1410); altri parlano di atipicità del procedimento, nel senso che si realizzerebbe una inversione del tipico procedimento di aumento, del quale i versamenti rappresenterebbero anticipazioni di sottoscrizione (in tal senso cfr. Trimarchi, L’aumento del capitale sociale, cit., 79, 154, 281; Id., Le riduzioni del capitale, cit., 306; Fico, op. cit, 105; Ginevra, op. loc. cit.; Rubino De Ritis, Gli apporti, cit., 128 ss., Colombo, Il bilancio e le operazioni, cit., 860, Cera, Il passaggio di riserve, cit., 144); nell’ambito di quest’ultimo orientamento si pongono quanti sostengono che i suddetti versamenti si sostanzierebbero in una proposta contrattuale irrevocabile avente ad oggetto la sottoscrizione del futuro aumento (in tal senso cfr. Di Sabato, Manuale delle società, Torino, 2001, 365; Parrella, op. loc. cit.; Verdirame, op. loc. cit.; nonché Busi, Riduzione del capitale, cit., 65, il quale afferma che “La proposta di sottoscrizione del socio sarà accompagnata dal deposito dell’intera somma (ma potrebbe forse configurarsi la possibilità di un versamento dei soli tre decimi) con la previsione di un termine per la restituzione in favore della società ex art. 1770, comma 1, c.c., e con eventuale clausola di utilizzo del denaro in favore della stessa ai sensi degli artt. 1779 e 1782 c.c. In tal caso per quanto previsto dal capoverso dell’art. 1782 c.c., sarà ammissibile che i versamenti siano produttivi di interessi a favore dei soci sino alla loro conversione in capitale”.

16. Sul punto si ritiene generalmente che la fattispecie sia riconducibile a quella della condizione risolutiva, proprio perché lo scopo dei soci è quello di fornire alla società risorse immediatamente utilizzabili, in tal senso cfr. in dottrina da ultimo Trimarchi, Le riduzioni del capitale, cit., 222; Id., L’aumento del capitale, cit., 79 ss.; Busi, Riduzione del capitale, cit., 55 ss.; Fico, cit., 104 ss.; Ginevra, Sulla qualificazione, cit., 738; in giurisprudenza cfr. Cass., 14 aprile 2006, n. 8876, cit.; Cass., 6 luglio 2001, n. 9209, in Foro it., 2001, I, 2621; App. Milano, 31 gennaio 2003, in Giur. comm., 2003, II, 612. Sembra propendere invece per la sospensiva Tantini, I versamenti dei soci, cit., 777 (tuttavia, bisogna riconoscere che è ben difficile che il socio possa avere un qualche interesse ad eseguire un versamento sotto condizione sospensiva; invero, visto che la società non potrebbe utilizzarlo, il versamento stesso rimarrebbe immobilizzato ed infruttifero). Infine, contrario alla tesi della condizione Olivieri, I versamenti in conto futuro aumento di capitale in favore degli istituti di credito di diritto pubblico tra legge speciale e diritto comune societario, in Banca borsa tit. cred., 1999, II, 200, ivi 206 ss., stante l’inammissibilità nel nostro ordinamento di apporti condizionati.

17. Scaduto il termine può tuttavia accadere che i soci non richiedano la restituzione dei versamenti, quindi si tratterà di comprendere quale sia il senso da attribuire a tale comportamento, se quello di una mera dimenticanza, ovvero quello di lasciarli in società come semplici versamenti in conto, quindi come riserve, ovvero ancora quello di trasformali in versamenti sempre in conto futuro aumento ma indeterminato.

18. Dalla provvisorietà della posta discende il problema delle modalità della sua iscrizione in bilancio. Secondo una tesi i versamenti in esame trattandosi di anticipazioni debbano essere iscritti al passivo reale tra i debiti (in tal senso cfr. Fico, cit., 124; Trimarchi, L’aumento del capitale, cit., 86, 282, il quale parla di “apposito fondo che deve essere utilizzato allo scopo per cui è previsto”; Ginevra, Sulla qualificazione, cit., 738 nota 43, nonché prima in Sottoscrizione e aumento del capitale sociale nella s.p.a., Milano, 2001, 378, nota 39, il quale pure parla di un apposito “fondo rischi” ed equipara il fenomeno in esame a quello delle obbligazioni convertibili, le quali solo in seguito alla conversione passano dai debiti reali alle “passività fittizie”; De Ritis, cit., 136 ss., il quale contesta l’iscrizione nel “fondo rischi” [questo non sarebbe compatibile la certezza che “si è in presenza di un valore che resterà iscritto al passivo o come debito vero e proprio (in caso di mancato aumento di capitale o mancata sottoscrizione) o come capitale (in caso di aumento di capitale e sottoscrizione da parte del socio conferente)”] e riconduce la vicenda “a quella degli acconti ricevuti, che sono iscritti al passivo per neutralizzare l’incremento dell’attivo dovuto all’incasso anticipato”, in sostanza si tratterebbe di un debito puramente contabile; Fortunato, Capitale e bilanci, in Riv. Soc., 1991, 125 ss., ivi 159. Secondo un’altra tesi, invece, i versamenti vanno iscritti al passivo “fittizio”, cioè tra le riserve ma “solo provvisoriamente” (in tal senso cfr. Cass., 19 marzo 1996 n. 2314, cit.); sul punto cfr. pure Cass., 14 aprile 2006, n. 8876, cit., secondo la quale “I soci creano, cioè, in sostanza, un’area provvisoria di stazionamento”.

19. In tal senso in giurisprudenza cfr. Trib. Napoli, 25 febbraio 1998, cit., confermata da App. Napoli, 15 febbraio 2002, inedita, ed infine da Cass., 17 novembre 2005, n. 23269, in Foro it., 2007, 3, 919 [il caso esaminato dai succitati giudici era quello noto del salvataggio del Banco di Napoli, nel quale era intervenuto lo Stato, tramite il Tesoro, mediante un versamento appunto in conto futuro aumento di capitale al fine di diventarne azionista; la delibera di aumento era stata impugnata da un socio del Banco proprio perché, a suo dire, nel calcolo delle perdite il predetto versamento del Tesoro non era stato conteggiato; il giudice di prima istanza ha quindi enunciato il principio, poi confermato nei successivi gradi di giudizio, per il quale “la riserva così costituita sia assistita da un vero e proprio vincolo di indisponibilità (se non, ovviamente, mediante l’adozione della prevista delibera di aumento di capitale), tale da far sì che della stessa non possa in alcun modo tenersi conto al fine di ripianare le perdite”.
In dottrina cfr. Busi, Riduzione del capitale, cit., 67; Fico, cit., 106, e Trimarchi, L’aumento del capitale, cit., 81, Id., Le riduzioni del capitale, cit., 306 [quest’ultimo autore, tuttavia, sembra contraddirsi nello scritto citato per secondo, avendo affermato implicitamente il contrario (226), commentando l’opinione di Portale, Appunti, cit., 592, il quale ha sostenuto la tesi opposta, affermando che in caso di riserve “targate” ovvero “personalizzate”, cioè di quei versamenti eseguiti dai soci in misura non proporzionale alle rispettive partecipazioni possedute, il conteggio dovrebbe essere successivo a quello della riserva legale; tesi questa alla quale hanno aderito Colombo, Il bilancio d’ esercizio, cit., 511; Parrella, Versamenti in denaro dei soci e conferimenti nelle società di capitali, Milano, 2000, 153; Olivieri, op. loc. cit.; ebbene, Trimarchi si è invero limitato a contestare la legittimità della postergazione alla riserva legale non del conteggio in sé.

20. Analoga a quella appena descritta è la situazione dei versamenti eseguiti a sottoscrizione di un aumento già deliberato, ove l’aumento stesso sia previsto come inscindibile, nella pendenza del termine per la sottoscrizione; come pure, in caso di aumento scindibile deliberato, la situazione dei versamenti eseguiti prima dell’iscrizione della delibera. Anche in tali ipotesi, infatti, in caso di mancata integrale sottoscrizione entro il termine previsto, ovvero in caso di mancata iscrizione, i versamenti dovrebbero essere restituiti (in particolare, per l’applicazione dell’art. 2329, terzo comma, c.c. all’aumento di capitale cfr. in dottrina Ginevra, Sottoscrizione e aumento del capitale sociale nelle s.p.a., Milano, 2001, 436; Angiello, Dei versamenti, cit., 1400; Cenni, I versamenti, cit., 1127; Tantini, Capitale e patrimonio nelle s.p.a., Padova, 1980, 127; in giurisprudenza Trib. Milano, 3 febbraio 1977, Giur. Comm., 1977, II, 834).

21. In tal senso cfr. Simonetto, I bilanci, Padova, 1967, 301 ss.; Costa, Riserva nelle società (voce), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 1224 ss., ivi 1238; Colombo, Il bilancio d’ esercizio, cit., 509; Id., Il bilancio e le operazioni sul capitale, cit., 871, il quale arriva a riconoscere una competenza decisionale dell’assemblea solo nel caso in cui siano presenti in bilancio più riserve con pari grado di disponibilità, ipotesi nella quale bisogna decidere sul relativo ordine di riduzione; ma anche Busi, Azzeramento e ricostituzione, cit., 8, il quale afferma che “un’ipotetica deliberazione assembleare possa solo constatare l’avvenuta erosione automatica per perdite delle riserve”; lo stesso Autore, tuttavia, successivamente, in Riduzione del capitale, cit., 38 ss., sembra considerare tale tecnica come alternativa (entro certi limiti) a quella del riporto delle perdite a nuovo.

22. In tal senso cfr. Fortunato, Capitale e bilanci, in Riv. soc., 1991, 125 ss., ivi 143 ss.; Forte - Imparato, Aumenti e riduzioni di capitale, Napoli, 1998, 197; Minniti, Studio su alcuni casi di riduzione del capitale, in Vita not., 1987, 885 ss., ivi 894; Marchetti, Sulla destinazione dei saldi da rivalutazione monetaria, cit., 120; Ferro Luzzi, Problemi vecchi e nuovi in tema di passivo, in Il progetto italiano di attuazione della IV Direttiva CEE a cura di Iorio, Milano, 1988, 134; da ultimo Castellano, Riserve e organizzazione nelle società per azioni, Milano, 2000, 169 ss.; Busi, Riduzione del capitale, loc. ult. cit. Invero, mi sembra questa la tesi più seguita.
Il dato lo si deduce dalla formulazione generalmente adottata dai verbali notarili, ove si fa assumere all’assemblea straordinaria una deliberazione del seguente tenore: “si delibera di ripianare le perdite per l’importo di ( . . .) mediante utilizzo delle riserve, poi per il residuo importo di (. . .) mediante la riduzione del capitale”. In definitiva, posto che una delibera dell’assemblea ordinaria medio tempore non è obbligatoria, nella pratica la gestione delle riserve e, quindi, delle perdite, viene solitamente rinviata al momento in cui la società è costretta ad operare sul nominale, anche se in tal caso la relativa delibera viene adottata interamente dall’assemblea straordinaria.

23.) In tal senso in particolare cfr. Trib. Trieste, 22 dicembre 1984, in Soc., 1985, 971; in dottrina cfr. Rordorf, Intervento in La riduzione del capitale sociale in misura superiore a un terzo, Aa.Vv., in Soc., 1983, 738 ss., ivi 741-742 (invero l’autore com’è noto è un magistrato).

24. In tal senso in particolare cfr. Spada, Reintegrazione del capitale senza operare sul nominale, in Giur. comm., 1978, I, 36 ss., ivi 37, e Cabras, La riduzione del capitale in presenza di riserve nella s.p.a., in Impresa, 1986, 1583 ss., ivi 1586.

25. In tal senso in particolare cfr. App. Milano, 6 febbraio 1996, in Giur. it., 1996, I, 832; più genericamente cfr. pure Trib. Torino, 20 gennaio 1994, in Giur. piem., 1994, 230; App. Milano 19 ottobre 1993, in Soc., 1994, 54, incidentalmente; Trib. Treviso, 9 ottobre 1985, in Foro it. Rep., 1986, voce Società, n. 350, solo massima; da ultimo cfr. Trib. Catania, 9 agosto 2010, inedita, la quale, in un ricorso ai sensi del secondo comma dell’art. 2485 c.c., promosso da soci titolari del 50% del capitale di una s.r.l., per ottenere l’accertamento dello stato di scioglimento per mancata ricostituzione del capitale azzerato, pur in presenza tra le riserve di versamenti in conto futuro aumento di capitale per un importo superiore alle perdite, ha affermato il principio secondo il quale “è necessario che i soci deliberino espressamente di voler utilizzare tali riserve per ricostituire il capitale, ben potendo gli stessi, di fronte ad una situazione di tale gravità, legittimamente optare per la messa in liquidazione della società”; la sentenza appena citata ha fondato la propria decisione sull’argomento tratto da Cass., 24 luglio 2007, n. 16393, in Riv. not., 2009, 4, 1058, secondo la quale “I versamenti in conto capitale . . . si traducono in un incremento del solo patrimonio netto della società e non sono imputabili a capitale, salvo che, con apposita delibera assembleare di modifica dell’atto costitutivo, non ne venga disposto successivamente l’utilizzo per un aumento del capitale sociale”; invero, anche se si fosse voluto risolvere il caso in esame applicando la tesi prevalente, il risultato sarebbe stato il medesimo, cioè, appunto la dichiarazione dello stato di scioglimento per mancata ricostituzione del capitale azzerato, in quanto, stando all’interpretazione di Cass., 17 novembre 2005, n. 23269, cit., i suddetti versamenti, stante la loro indisponibilità, non avrebbero potuto essere conteggiati ai fini del calcolo dell’incidenza delle perdite sulle riserve e quindi sul capitale no minale, il quale sarebbe risultato azzerato e non ricostituito per la mancata approvazione della delibera di ricostituzione.

26 Gli interessi sono stati variamente individuati in: quello della società ad aumentare più agevolmente il capitale sociale, rivolgendosi al mercato per collocare le partecipazioni di nuova emissione; quello dei possibili acquirenti di partecipazioni a poter valutare al meglio il loro valore, ovvero a che le perdite siano sopportate dai soci attuali; quello dei possessori di categorie di partecipazioni postergate a conoscere con certezza l’incidenza delle perdite; quello dei terzi potenziali creditori della società alla consistenza del capitale sociale; quello dei soci a poter distribuire utili (stante il divieto previsto dal terzo comma dell’art. 2433 c.c.).
Sul punto rinvio da recente per un’esame critico a De Luca, Riduzione del capitale ed interessi protetti. Un’analisi comparatistica, in Riv. dir. civ., 2010, II, 559 ss., ivi 562 ss.

27. Sul punto sembra conforme Trimarchi, Le riduzioni, cit., 59, il quale, pur sostenendo la tesi prevalente, afferma “Sicché appare condivisibile l’affermazione secondo cui nella riduzione per perdite vengono all’evidenza principalmente l’interesse di tutti, soci e terzi, all’effettività del capitale sociale, e l’interesse di tutti, soci e terzi, alla corretta informazione relativamente all’esatta consistenza, composizione e destinazione del patrimonio sociale”; ma cfr. pure, anche se parzialmente difforme, Busi, S.p.a. - s.r.l., cit., 418, e dopo anche in Riduzione del capitale, cit., 105 ss., il quale afferma “In altre parole, in forma riassuntiva, l’esigenza perseguita dalla riduzione del capitale per perdite sarebbe quella di informare i soci e i terzi.
La funzione é allora quella di rispettare il principio di effettiva corrispondenza tra il capitale nominale e patrimonio reale, rispetto alla quale la possibile distribuzione degli utili, o la postergazione delle azioni privilegiate nelle perdite, o la tutela dei creditori, o dei possibili acquirenti di partecipazioni, si configurano come mero effetto, conseguenza del rispetto di quel principio di effettività”; l’autore, diversamente da quanto riferito nel testo e coerentemente alla tesi dallo stesso sostenuta (quella prevalente), ricollega l’effettività non al capitale ma al patrimonio; parzialmente difforme anche De Luca, cit., 569, secondo il quale lo scopo sarebbe quello di informare i soci affinchè questi possano assumere una decisione consapevole; cfr. altresì Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, (voce) in Enc. dir., Milano, 1990, XLII, 977 ss, ivi 1024; Fenghi, La riduzione del capitale, Milano, 1974, 64.

28. A prova della fondatezza di quanto affermato nel testo, con riferimento all’interesse dei soci alla distribuzione degli utili, va rilevato che se questo fosse da considerarsi direttamente tutelato dalla disciplina in esame, bisognerebbe giungere ad ammettere la possibilità che la compagine sociale potrebbe decidere all’unanimità di soprassedere alla riduzione stessa, anche nei casi nei quali essa è obbligatoria, ciò che invece è evidentemente inammissibile. In tal senso cfr. Castellano, cit., 93.

29. In tal senso cfr. Colombo, Il bilancio e le operazioni sul capitale, cit., 869, nota 56.

30. Sul punto rinvio agli autori citati alla precedente nota 22.

31. Concorda sulla deduzione ancora Trimarchi, Le riduzioni, cit., 59, il quale, pur condividendo la tesi maggioritaria, ha affermato “Nella riduzione del capitale per perdite . . . è incontestabile, innanzitutto, che non si possa evidenziare un interesse del ceto creditorio analogo a quello di cui sopra. Il che, ad esempio, spiega la ragione per cui in questo tipo di operazione non vi sia traccia, nel diritto positivo, di un generale potere dei creditori di opporsi. . .”.

32. Sul punto va ricordato, da un lato, come già prima rilevato, che la disciplina della riduzione per perdite risulta dettata proprio al fine di fornire una corretta informazione, sul punto cfr. Trimarchi, citato alla nota che precede, il quale afferma ancora “È incontestabile, infatti, che l’innesco dei meccanismi di cui alle norme sopra enunciate . . . determina l’emersione di una serie di informazioni di cui sono destinatari innanzitutto i soci, e poi, in generale tutti i terzi”; dall’altro lato, che al capitale sociale viene riconosciuta (tra le altre) proprio una funzione informativa per i terzi, sul punto cfr. Spolidoro, Capitale sociale, in Enc. dir., IV, aggiornamento, Milano, 2000, 221 ss.; Id., Sul capitale delle società di persone, in Riv. Soc., 2001, 790 ss.; Id., Indicazione obbligatoria del capitale negli atti e nella corrispondenza, in Giur. comm., 1989, I, 304 ss. A conferma di quanto sostenuto nel testo, cfr. ancora da ultimo Busi, Riduzione del capitale, cit., 14, il quale, pur condividendo la tesi maggioritaria, afferma: “Il capitale sociale rappresenta, inoltre, un’informazione anche per i terzi, consentendo agli stessi di valutare con maggior ponderazione l’opportunità di investire nella società (. . .) La protezione dei crediti viene affidata dunque (. . .) soprattutto all’autotutela: se la struttura del patrimonio della società non sembra equilibrata i creditori sociali possono astenersi dall’instaurare rapporti patrimoniali con la società o procurarsi causa di prelazione o diritti di garanzia (tipicamente: una fideiussione dei soci) a maggior protezione delle proprie ragioni. Sotto questo aspetto (. . .) esso non rappresenta tanto la garanzia dei finanziatori esterni, quanto lo strumento di informazione sul loro rischio”. Su quest’ultimo vedi pure Gomellini, Prestiti dei soci, società sottocapitalizzata e causa del contratto di mutuo, in Riv. dir., comm., 1990, II, 80 ss., ivi 88 ss.

33. Non è raro che le banche, in particolare, impongano tali condizioni al fine della concessione di un finanziamento.

34. A ben riflettere, la situazione ipotizzata nel secondo caso è proprio quella che ha ispirato il legislatore del ‘42 nel dettare l’art. 2442 c.c. che disciplina appunto l’aumento gratuito operato mediante il passaggio di riserve a capitale. Si legge infatti nella relazione ministeriale (994) che si è ritenuto di disciplinare “i così detti trasferimenti di riserve a capitale, e cioè quell’operazione assai comune con la quale la società imputa a capitale le riserve accumulate, adeguando in tal modo il capitale nominale a quello effettivamente investito nell’impresa sociale”. In definitiva, posto che l’aumento gratuito non muta la percentuale di partecipazione al capitale sociale, quindi i rapporti di forza all’interno della compagine sociale, il passaggio a capitale delle riserve e dei fondi disponibili serve solo a garantire maggiormente i creditori, quindi a consentire alla società non solo un maggiore accesso al credito, ma anche maggiori opportunità di lavoro.

35. Invero, se, da un lato, si riconosce che il succitato principio non risulta codificato in alcuna norma di legge, dall’altro lato, tuttavia, si afferma che “non pare dubbio che nella logica del sistema il preventivo assorbimento delle perdite da parte delle riserve costituisca una vicenda così naturale tanto da non aver bisogno di un’esplicita affermazione (così Castellano, cit., 176-177, il quale poi si prodiga comunque nella dimostrazione della fondatezza del principio).

36. Sull’interpretazione del linguaggio giuridico e sulle metafore del diritto è obbligatorio il rinvio a Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico, Saggio sulle metafore del diritto, Bologna 2010.

37. Il riferimento è al fenomeno della sottocapitalizzazione formale, posto che quella sostanziale si riferisce all’ipotesi di squilibrio tra mezzi propri (capitale e riserve) e mezzi esterni (finanziamenti a titolo di debito), che qui non assume rilevanza (sul punto rinvio alla successiva nota 51).

38. In tal senso cfr. Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzate, cit., 102 ss.; sul punto cfr. anche Ferro Luzzi, I versamenti in conto capitale, in Giur. comm., 1981, II, 895 ss., ivi 904, il quale, in merito alla sottocapitalizzazione, afferma che la situazione “se non ritenersi contra legem, non può tuttavia neanche ritenersi fisiologica”.

39. In tal senso per tutti cfr. Tantini, Capitale e patrimonio nella società per azioni, Padova, 1980, 141 ss.

40. Così Portale, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzate, cit., 105, il quale, a sostegno della propria tesi, ricorda che il diverso significato del capitale rispetto alle riserve e ai fondi disponibili emerge da una serie di norme presenti nel nostro codice civile ed all’uopo cita gli articoli 2250, comma 2°, 2442, 2357, comma 1°, 2359 bis, comma 1°, 2433, comma 3° . Da ultimo del medesimo a., sul tema dell’essenzialità del capitale, v. “Società a responsabilità limitata senza capitale sociale e imprenditore individuale con “capitale destinato” (Capitale sociale quo vadis)”, in Riv. soc., 2010, 1237 ss.

41. Alla tesi riportata nel testo si potrebbe altresì obiettare che, se così fosse, avrebbe poco senso fissare un limite minimo per il capitale, in quanto sarebbe sufficiente fissarlo a cento, o a mille ecc., onde ricavarne le percentuali corrispondenti al numero di partecipazioni di ciascun socio.

42. Nello stesso senso cfr. pure ancora a Castellano, cit., 182, il quale afferma “Insomma il fondamento del preventivo assorbimento delle perdite da parte delle riserve rinvia alla centralità del capitale nel suo significato di costi programmati in contratto per la produzione dell’attività e, se mi si passa per il momento la genericità della formulazione, alla “non centralità” su questo piano della funzione delle riserve. Centralità o meno che rimbalza immediatamente dal diverso ruolo che le diverse forme del netto assumono nell’ambito del programma contrattualmente disposto. E cioè rispetto all’attività contrattualmente programmata”; nonché Cera, Il passaggio di riserve a capitale, Milano, 1988, 16 ss.

43. La norma è stata introdotta con la riforma del 2003 ed ha riformato e sostituito il precedente art. 2412 c.c.

44. Invero la questione è dibattuta, sul punto rinvio per tutti da recente a Trimarchi, L’aumento del capitale, cit., 139 ss., e Busi, S.p.a. - s.r.l., cit., 384 ss.

45. Non sembra quindi fondata la critica rivolta da Marchetti, cit., 126, alla tesi minoritaria, secondo la quale questa tradurrebbe i procedimenti ex art. 2446 e 2447 in ipotesi di riduzioni obbligatorie non del capitale ma delle riserve. Invero, è proprio l’interpretazione proposta dalla tesi maggioritaria che giunge al succitato risultato ermeneutico, posto che, prima della riduzione del capitale dovrebbero essere ridotte appunto le riserve.

46. In fondo, considerato che l’aumento nominale non modifica la percentuale di partecipazione al capitale sociale dei soci, quindi gli equilibri di forza interni, gli interessi che mira a soddisfare (quello di sottoporre le riserve al vincolo di indisponibilità e quello di fornire all’esterno un’immagine della società di maggiore solidità economica), potrebbero adeguatamente essere soddisfatti anche nel modo indicato nel testo.

47. Sembrerebbe orientato in tal senso cfr. Rordorf, op. loc. cit., il quale, dopo aver obiettato che l’anomalia discende dal fenomeno della sottocapitalizzazione, conclude “ed allora l’apparente paradosso si risolve facilmente utilizzando l’esuberante riserva per reintegrare il capitale perduto e quindi, in definitiva, ripristinando un rapporto tra capitale e riserve più adeguato alla garanzia dei terzi”; nonché Salafia, Intervento in La riduzione del capitale sociale in misura superiore a un terzo, Aa.Vv., in Soc., 1983, 738 ss., ivi 742, il quale afferma “Le riserve cioè sono elementi del patrimonio netto dell’azienda, che si possono però valutare nell’ambito della situazione di cui all’art. 2446 codice civile solo in quanto passino nella categoria del capitale. (. . .) solo il loro passaggio al capitale le rende definitivamente indisponibili, da un punto di vista giuridico. In definitiva, dunque, la legge non impedisce alla società di utilizzare le riserve, richiede soltanto che la società faccia chiarezza sulla loro funzione, assorbendole nel capitale per coprire la perdita accertata”; l’autore, tuttavia, successivamente ha chiaramente aderito alla tesi prevalente in Nota a Trib. Udine, 19 febbraio 1983, cit., 1279, ivi 1280, nonché in Funzione delle riserve iscritte in bilancio, in Soc., 1997, 501 ss.

48. L’ammissibilità delle suddette forme di aumento è stata tuttavia messa in forse dalla riforma del 2003. Infatti, ai sensi dell’art. 2436 comma 5 c.c. (che dispone “La deliberazione non produce effetti se non dopo l’iscrizione”), gli effetti della delibera di modifica dello statuto risultano adesso differiti alla sua iscrizione nel registro delle imprese. Pertanto, se già la delibera della prima riduzione e contestuale aumento non può avere effetto se non dopo la relativa iscrizione, a maggior ragione non possono averne le altre successive. Il problema, tuttavia, a mio avviso è superabile con l’accorgimento di sottoporre le delibere successive alla prima, ciascuna, alla condizione sospensiva dell’iscrizione delle precedenti (in tal senso cfr. Guerrera, Commento, cit., 1209).

49. In tal senso cfr. Rordorf, op. loc. cit.

50. Mi riferisco sia ai vantaggi economici connessi all’esecuzione di versamenti a capitale di rischio al di fuori della tipica operazione di aumento, sia, per le s.r.l., al vantaggio sotto il profilo della gestione di evitare l’obbligo del collegio sindacale, mantendo il capitale al di sotto della soglia all’uopo prevista.

51. Invero, il diverso fenomeno della sottocapitalizzazione sostanziale non rileverebbe nella questione in esame, stante che in quest’ultimo caso i versamenti dei soci vengono effettuati a titolo di debito e non di capitale di rischio. A porre un rimedio al suddetto fenomeno, che pur rappresenta un’anomalia, è intervenuto il legislatore della riforma con l’introduzione dell’art. 2467 c.c., il quale ha stabilito la postergazione nel rimborso dei finanziamenti dei soci rispetto alla soddisfazione di tutti gli altri creditori.

52. Invero, se una s.p.a. avesse il capitale di e. 120.000,00 e riserve disponibili per e. 1.000.000,00, la riserva legale sarebbe pari a e. 24.000,00; se, invece, avesse capitale e. 1.000.000,00 e riserve disponibili per e. 120.000,00, la riserva legale sarebbe pari a e. 200.000,00.

Ultime Decisioni

Segnala Giurisprudenza ›

Vai alle altre Sentenze →

 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.