Con la sentenza n.1361 del 23.01.2014 la Suprema Corte apre nuovi scenari all'interno del risarcimento del danno non patrimoniale.
Più specificamente, ribadendo la bipartizione del danno alla persona in danno patrimoniale e danno non patrimoniale, a sua volta composto dalle diverse lesioni che la sfera personale dell'individuo può subire; detta pronuncia interviene sulla risarcibilità del “danno da morte”.

La Cassazione afferma, dunque, come la perdita della vita, in quanto perdita del bene supremo di ogni persona e come tale tutelato dall'ordinamento, costituisca un danno non patrimoniale di per sé risarcibile anche in caso di morte immediata o istantanea; il risarcimento di questo danno da perdita della vita, lasciato alla valutazione equitativa del giudice, ha natura compensativa ed il relativo diritto è trasmissibile iure hereditatis.

La Suprema Corte scardina così il consolidato indirizzo secondo cui in caso di morte sarebbe trasmissibile il solo danno biologico terminale o il danno morale della vittima rispettivamente rimasta in agonia per un apprezzabile arco di tempo o che abbia lucidamente percepito l'avvicinarsi ineluttabile della propria fine.
La pronuncia in questione si spinge al punto di parlare di un'ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza.

Di seguito riportiamo i principi chiave di questa sentenza la cui effettiva portata resta da decifrare.
«la liquidazione deve rispondere ai principi dell’integralità del ristoro, e pertanto: 
a) non deve essere puramente simbolica o irrisoria o comunque non correlata all’effettiva natura o entità del danno ma tendere, in considerazione della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno, alla maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento; 
b) deve concernere tutti gli aspetti (o voci) di cui la generale ma composita categoria del danno non patrimoniale si compendia; 

– il principio della integralità del ristoro subito dal danneggiato non si pone in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante è tenuto al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone di evitarsi altresì duplicazioni risarcitorie, le quali si configurano (solo) allorquando lo stesso aspetto (o voce) viene computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni, laddove non sussistono in presenza della liquidazione dei molteplici e diversi aspetti negativi causalmente derivanti dal fatto illecito ed incidenti sulla persona del danneggiato; 

– nel liquidare il danno morale il giudice deve dare motivatamente conto del relativo significato al riguardo a considerato, e in particolare se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana; 

– il danno da perdita del rapporto parentale o c.d. esistenziale (che consiste nello sconvolgimento dell’esistenza sostanziatesi nello sconvolgimento delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione - sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare -; in fondamentali e radicali scelte di vita diversa) risulta integrato in caso come nella specie di sconvolgimento della vita subito dal coniuge (nel caso, il marito) a causa della morte dell’altro coniuge (nel caso, la moglie); 

– costituisce danno non patrimoniale altresì il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell’ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica;

il danno da perdita della vita è altro e diverso, in ragione del diverso bene tutelato, dal danno alla salute, e si differenzia dal danno biologico terminale e dal danno morale terminale (o catastrofale o catastrofico) della vittima, rilevando ex se nella sua oggettività di perdita del principale bene dell’uomo costituito dalla vita, a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, e dovendo essere ristorato anche in caso di morte c.d. immediata o istantanea, senza che assumano pertanto al riguardo rilievo la persistenza in vita all’esito del danno evento da cui la morte derivi né l’intensità della sofferenza interiore patita dalla vittima in ragione della cosciente e lucida percezione dell’ineluttabile sopraggiungere della propria fine; 

– il diritto al ristoro del danno da perdita della vita si acquisisce dalla vittima istantaneamente al momento della lesione mortale, e quindi anteriormente all’exitus, costituendo ontologica, imprescindibile eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno-evento e della risarcibilità dei soli danni-conseguenza, giacché la morte ha per conseguenza la perdita non già solo di qualcosa bensì di tutto; non solamente di uno dei molteplici beni, ma del bene supremo della vita; non già di qualche effetto o conseguenza, bensì di tutti gli effetti e conseguenze, di tutto ciò di cui consta(va) la vita della (di quella determinata) vittima e che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i molteplici effetti suoi propri se l’illecito non ne avesse causato la soppressione; 

– il ristoro del danno da perdita della vita ha funzione compensativa, e il relativo diritto (o ragione di credito) è trasmissibile iure hereditatis; 

– il danno da perdita della vita è imprescindibilmente rimesso alla valutazione equitativa del giudice; 

– non essendo il danno da perdita della vita della vittima contemplato dalle Tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice di merito l’individuazione dei criteri di relativa valutazione che consentano di pervenire alla liquidazione di un ristoro equo, nel significato delineato dalla giurisprudenza di legittimità, non apparendo pertanto idonea una soluzione di carattere/meramente soggettivo, né la determinazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell’età delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima»


Vale la pena sul punto, a mero titolo esemplificativo, analizzare alcune massime di recenti pronunce di legittimità e di merito che bene riassumono il principio dell'irrisarcibilità del danno tanatologico, ossia del danno da perdita della vita quale bene supremo, nella sua oggettività.

In caso di morte che segua le lesioni fisiche dopo breve tempo, il danno c.d. tanatologico, consistente nella sofferenza patita dalla vittima che sia rimasta lucida durante l'agonia, in consapevole attesa della fine, dev'essere ricondotto nella dimensione del danno morale, inteso nella sua più ampia accezione, ed il diritto al relativo risarcimento è trasmissibile agli eredi. (Nella specie, avente ad oggetto il decesso conseguente ad un infortunio sul lavoro causato dal crollo di un muro, la S.C. ha cassato la pronuncia della corte di merito che aveva ritenuto che l'ambito temporale estremamente circoscritto dei fatti rendesse irrilevante l'accertamento sull'esistenza in vita del lavoratore al momento dell'estrazione dalle macerie e sulla sua richiesta di aiuto). (Cassa con rinvio, App. Catanzaro, 21/07/2005) (Cass. civ. Sez. lavoro, 07-06-2010, n. 13672)

In tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando all'estrema gravità delle lesioni, segua, dopo un intervallo temporale brevissimo (nella specie due giorni), la morte, non può essere risarcito il danno biologico "terminale" connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull'intensa sofferenza d'animo conseguente alla consapevolezza delle condizioni cliniche seguite al sinistro. (Rigetta, App. Milano, 06/05/2008) (Cass. civ. Sez. III, 20-09-2011, n. 19133)

Il danno tanatologico o da morte, quale lesione definitiva ed immediata del diritto alla vita, costituisce pregiudizio non suscettibile di risarcimento, diversamente dal danno terminale biologico, ovvero dal danno maturato in capo alla vittima, trasmissibile agli eredi, ove la morte della stessa non sia seguita immediatamente alle lesioni, ma tra l'infortunio e la morte sia intercorso un apprezzabile lasso temporale, ancorché minimo. Tale pregiudizio, in ogni caso, può essere oggetto di ristoro nella sola ipotesi in cui venga fornita la prova del decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra il verificarsi dell'evento lesivo ed il sopraggiungere della morte, poiché solo in tale contesto sorge, nella sfera patrimoniale del de cuius, una posta risarcitoria come tale trasmissibile iure successionis ai suoi eredi, da determinarsi considerando i criteri di liquidazione propri per il calcolo della inabilità temporanea, poiché quando il Giudice adotta il criterio tabellare non può prendere come riferimento le tabelle per l'invalidità permanente essendo queste formate sulla base della vita media futura presunta, e quindi il risarcimento va commisurato al numero dei giorni di sopravvivenza della persona, tenendo conto che le lesioni ne hanno provocato la morte. (Trib. Milano Sez. XI, 04-12-2012)

Possiamo, pertanto, concludere come, nella giurisprudenza consolidatasi negli anni, il fattore tempo ed il fattore autocoscienza della vittima giocherebbero un ruolo fondamentale nella liquidazione del danno alla persona dinanzi all'evento morte da inquadrare, non necessariamente in via alternativa, nel danno biologico terminale e nel danno morale, entrambi trasmissibili iure hereditatis, escludendo la risarcibilità autonoma del danno da perdita del bene supremo vita “ex se”.

In altri termini di fronte ad un danno ingiustamente subito la vittima, rimasta vigile ed in agonia anche per un breve tempo prima di spirare, avrebbe diritto al risarcimento del danno morale, quale turbamento dello stato d'animo patito nel percepire l'approssimarsi propria morte.
Dinanzi ad un periodo più considerevole intercorso tra l'evento dannoso e la morte, anche qualora la vittima si trovi in stato di incoscienza, la medesima avrebbe diritto al risarcimento del danno biologico terminale, consistente nella lesione del bene salute, liquidato secondo i criteri tabellari ordinari.

Resta da comprendere se i principi enunciati dalla Sentenza n. 1361/2014 della Suprema Corte porteranno ad una rivoluzione nel campo del risarcimento del danno alla persona o rimarrano una voce isolata, fuori dal coro dell'irrisarcibilità del danno da perdita del bene vita nella sua ontologica oggettività.

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