REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice del Tribunale di Catania, sezione lavoro, dott.ssa Claudia Cottini, all'udienza del 20 luglio 2010, ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c., udite le conclusioni delle parti, ha emesso, dandone integrale lettura, la seguente
SENTENZA
nella causa di lavoro n.3128/08 R.G., avente ad oggetto "conversione di contratti lavoro a termine", promossa
da B**** G*** -ricorrente-
contro P.I. spa -resistente-

Svolgimento del processo

Con ricorso al giudice del lavoro del Tribunale di Catania, depositato in data 29.04.2008, il ricorrente di cui in epigrafe esponeva di essere stato assunto da P.I. Spa con un contratto di lavoro a tempo determinato per il periodo dal 18.07.2000 al 30.09.2000; che tale assunzione era stata motivata in relazione ad "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e di rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell'attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", ai sensi dell'art. 8 del C.C.N.L. del 06.11.2004, come integrato dall'Accordo del 25.09.1997.
Ciò premesso, deduceva che il contratto a termine nel nostro ordinamento costituiva una tipologia contrattuale a carattere eccezionale, consentita soltanto nelle ipotesi tassativamente indicate all'art. 1 c.2 della legge 230/1962, sì come integrate dalle ipotesi previste in sede contrattuale ex l. 56/87; che le ipotesi di stipulazione di contratti a termine individuate dalla contrattazione collettiva ai sensi della legge n.56/87 (con l'art. 8 del C.C.N.L. 26 novembre 1994 e successivamente con l'accordo integrativo del 25.9.1997) risultavano illegittime poichè prive del carattere dell'eccezionalità; che l'accordo integrativo del 25.9.1997 doveva considerarsi illegittimo, in quanto in contrasto con i principi inderogabili posti dalla legge n.230 del 1962; che pertanto era illegittima l'apposizione del termine al contratto in questione, anche in ragione del fatto che l'assunzione era successiva al 30.04.1998, termine ultimo previsto dallo stesso accordo integrativo del settembre 1997 per la possibilità di stipulare contratti di lavoro a termine.
Chiedeva pertanto dichiararsi la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto in questione, ordinando a P.I. di riammetterlo in servizio, con la condanna al risarcimento dei danni, pari alle retribuzioni dovute dalla data di estromissione alla data di riammissione in servizio, oltre interessi e rivalutazione monetario, nonchè con la condanna al versamento dei contributi di legge omessi per lo stesso periodo.

La società P.I. Spa si costituiva in giudizio, in persona del legale rappresentante pro tempore, eccependo l'infondatezza delle domande e chiedendone l'integrale rigetto.
Deduceva, in sintesi, la resistente che la trasformazione dell'ente in società per azioni aveva reso necessaria una ristrutturazione degli assetti occupazionali ed in tale fase si era registrata una contingente carenza di personale nelle funzioni produttive e, per converso, un eccesso di personale in funzioni di staff; di avere, in particolare, dato luogo ad un processo organico di ristrutturazione del sistema di allocazione del personale, di riorganizzazione dei processi lavorativi e di modifiche di natura gestionale e che tale processo aveva determinato un notevole esubero di personale cui si era fatto fronte, per un verso, con procedure di mobilità collettiva e, - in relazione alle carenze di personale nelle funzioni produttive - facendo ricorso ai contratti a tempo determinato in relazione ad esigenze produttive di carattere temporaneo; che in tale contesto l'accordo collettivo del settembre 1997 aveva legittimamente consentito (in attuazione della previsione di cui all'art. 23 della legge n.56 del 1987) l'assunzione di dipendenti a tempo determinato per esigenze di carattere straordinario conseguenti alla fase di ristrutturazione in corso e tali pattuizioni erano poi state ribadite dalle successive tornate contrattuali senza la previsione di alcun termine di efficacia. Sosteneva pertanto la legittimitàdel contratto a termine in questione, stipulato in relazione alle esigenze di ristrutturazione aziendale cui facevano riferimento le specifiche previsioni contrattuali; che parimenti legittime andavano ritenute le relative proroghe; che in data 18.01.2001, contestualmente alla sottoscrizione del CCNL 2001, le parti avevano ratificato la prassi delle proroghe, dandosi reciprocamente atto della legittimità dei contratti a termine fino ad allora stipulati; che, comunque, in considerazione del prolungato disinteresse delle parti, il contratto doveva ritenersi consensualmente risolto ovvero doveva rilevarsi la carenza dell'interesse ad agire; che non era comunque dovuto il pretesto pagamentop delle retribuzioni per i periodi antecedenti l'eventuale ripresa dell'attività lavorativa e che dalle somme eventualmente riconosciute al ricorrente avrebbe dovuto essere detratto quanto dallo stesso percepito nell'espletamento, medio tempore, di attività lavorativa retribuita alle dipendenze di terzi.
Autorizzato il deposito di note conclusive, la causa, esaurita la discussione, veniva decisa all'udienza odierna nelle forme dell'art. 281 sexies c.p.c., dando contestuale lettura del dispositivo e dei motivi di fatto e di diritto della decisione.

Motivazione

Si deve preliminarmente rigettare l'eccezione della società convenuta, concernente la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso, in relazione al tempo trascorso tra la scadenza del contratto a termine e la proposizione del presente ricorso.
Se di certo l'inerzia del ricorrente dopo la scadenza del contratto è un dato obiettivamente riscontrabile, tuttavia, in assenza di ulteriori elementi di valutazione, va esclusa la configurabilità della volontà di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, manifestata per comportamento concludente.

Come statuito dalla Suprema Corte (cfr. sentenza n.15628 del 11.12.2001), non è consentito infatti attribuire alla mera inerzia effetti negoziali, occorrendo accertare gli elementi dai quali desumere che sia presente una chiara e certa comune volontà delle parti di volere, d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

Il fatto che il lavoratore assunto con contratto a termine, solo dopo un rilevante periodo di tempo dalla conclusione del rapporto, abbia fatto valere l'illegittimità della clausola relativa al termine e la natura a tempo indeterminato del rapporto, chiedendone il ripristino, invero, non giustifica di per sè la tesi che sia intervenuta la risoluzione consensuale del rapporto o la rinuncia a farne valere la nullità, essendo necessaria la prova di ulteriori segnali incompatibili con la continuatività del rapporto (cfr. Cass. civ., Sez. lav., 15/12/1997, n.12665).
L'esistenza di una volontà dismissiva del rapporto, dunque, non può rilevarsi nel solo decorso di un lungo periodo di tempo, compreso tra la estromissione del lavoro e la proposizione dell'azione: la mera inerzia del lavoratore non può essere interpretata come fatto estintivo del rapporto, ma è un fatto di per sè neutro, che può trovare una sua qualificazione giuridica, un suo significato negoziale, se, in positivo o in negativo, siano accertati fatti incompatibili con la continuità del rapporto. E l'onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduca la risoluzione dello stesso per mutuo consenso.

Nella specie la società resistente non ha assolto tale onere, limitandosi a rilevare il lasso temporale intercorso tra l'interruzione del rapporto di lavoro e la proposizione del ricorso, senza indicare gli specifici elementi che consentano di attribuire all'inerzia del lavoratore "il significato di una univoca manifestazione di volontà volta alla risoluzione del rapporto" (cfr. Tribunale di Milano 2.12.2003 Messina c/ Poste Italiane).
Nel caso concreto, in difetto di ulteriori indici rivelatori, deve quindi ritenersi che l'esercizio dell'azione, volta ad una pronuncia dichiarativa della nullità parziale del contratto a termine ed alla pronunzia di condanna alla riammissione in servizio, dopo alcuni anni dalla conclusione del rapporto di lavoro, non valga di per sè a far ritenere sciolto per mutuo consenso il rapporto.

Nel merito, il ricorso è fondato.
La presente controversia verte sulla validità del termine apposto al contratto stipulato, in data 18.7.2000, da B**** G*****, con la motivazione di far fronte ad esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione ex art.8 del CCNL 29.11.1994.
E', altresì, da precisare che la fattispecie contrattuale ora in contestazione si è esaurita anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo n.368 del 2001, che ha modificato la precedente normativa di cui alla legge n.230 del 1962.
Ciò premesso, deve osservarsi che, con numerose sentenze la Corte di Cassazione (cfr. da ultimo, Cass. nn. 8106/2010; 29889/2008, 18378/2006), decidendo su fattispecie sostanzialmente identiche a quella in esame, ha affermato la configurabilità, in relazione alla L. n.56 del 1987, art.23, di una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati nell'individuazione di nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, e, premesso che inforza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997, la giurisprudenza della stessa Corte ha ritenuto corretta l'interpretazione che, con riferimento al distinto accordo attuativo sottoscritto in pari data ed al successivo accordo attuativo sottoscritto in data 16 gennaio 1998, ritiene che con tali accordi le parti abbiano convenuto di riconoscere la sussistenza fino al 31 gennaio 1998 (e poi in base al secondo accordo attuativo, fino al 30 aprile 1998), della situazione di cui al citato accordo integrativo, con la conseguenza che, per far fronte alle esigenze derivanti da tale situazione, l'impresa poteva procedere (nei suddetti limiti temporali) ad assunzione di personale straordinario con contratto a tempo determinato. Da ciò deriva che deve escludersi la legittimità dei contratti a termine (come quelli in questione) stipulati dopo il 30 aprile 1998 in quanto privi di presupposto normativo.
La Suprema Corte ha osservato in particolare che la suddetta interpretazione degli accordi attuativi non viola alcun canone ermeneutico, atteso che il significato letterale delle espressioni usate è così evidente e univoco che non necessita di un più diffuso ragionamento al fine della ricostruzione della volontà delle part; infatti nell'interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. n.28 agosto 2003 n.12245, Cass. 25 agosto 2003 n.12453).
Inoltre è stato rilevato che tale interpretazione è rispettosa del canone ermeneutico di cui all'art. 1367 c.c., a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la stessa attibuisce un significato agli accordi attuativi de quibus (nel senso che con essi erano stati stabiliti termini successivi di scadenza alla facoltà di assunzione a tempo, termini che non figuravano nel primo accordo sindacale del 25 settembre 1997); diversamente opinando, ritenendo cioè che le parti non avessero inteso introdurre limiti temporali alla deroga, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass. n.14 febbraio 2004 n.2866).
Infine, la predetta Corte ha ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti, l'irrilevanza attribuita dai giudici di merito all'accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo oltre due anni dalla scadenza dell'ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l'intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell'accordo 25 settembre 1997 (scaudto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione è comunque conforme alla regula iuris dell'indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell'interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.lgs. n.165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita. (vedi, per tutte, Cass. 12 marzo 2004 n.5141).
Pertanto, sulla scorta dei principi sopra richiamati, deve essere dichiarata l'illegittimità dell'apposizione del termine al contratto in questione stipulato dalle parti dopo il 30 aprile 1998, dovendo i rapporti di lavoro reputarsi a tempo indeterminato fin dalla loro stipulazione.
Di conseguenza, P.I. spa va condannata a riammettere il ricorrente in servizio nel posto di lavoro occupato in forza dei contratti predetti, con il relativo trattamento economico e normativo.

Va altresì accolta - per quanto di ragione - la richiesta di risarcimento del danno commisurato al pagamento delle retribuzioni maturate sino alla reintegrazione.
Difatti, secondo indirizzo consolidato della Suprema Corte (Cass. sez. Un. n.14381 del 2002), per le ipotesi di scadenza di contratti a termine non legittimamente stipulati, non trova applicazione la disciplina dettata in tema di invalidità del licenziamento con le relative conseguenze risarcitorie, sicchè al dipendente che abbia cessato l'esecuzione della prestazione di lavoro a seguito della scadenza del termine non validamente apposto non spetta la retribuzione per i periodi non lavorati, salvo che si sia verificata la mora accipiendi del datore di lavoro con l'offerta delle energie lavorative.
Nella specie, il ricorrente ha inequivocabilmente posto a disposizione della società resistente le proprie energie lavorative, dimostrando di avere tutto l'interesse alla ripresa dell'attività lavorativa, con la notificazione del ricorso introduttivo, sicchè dalla data di ricezione dello stesso la società convenuta è tenuta al risarcimento del relativo danno, da commisurarsi alle retribuzioni contrattualmente dovute sino al momento dell'effettiva riammissione in servizio, maggiorate della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sul capitale progressivamente rivalutato.
Dalla relativa somma andranno detratte le retribuzioni medio tempore percepite dal ricorrente nello svolgimento di altre attività di lavoro, come risultanti dalla documentazione reddituale prodotta in atti, tra cui la certificazione dell'Agenzia delle Entrate prodotta alla odierna udienza.
Le spese di lite vanno quindi poste a carico della società resistente per il principio della soccombenza e liquidate come in dispositivo, precisandosi che la somma liquidata va attribuita a favore dell'avv C**++ B****, che ha dichiarato di avere anticipato gli esborsi e non riscosso gli onorari.

PQM

disattesa ogni contraria istanza, difesa ed eccezione,
dichiara la nullità deltermine finale apposto al contratto a tempo determinato stipulato tra le parti in causa per il periodo in ricorso specificato, nei termini di cui in motivazione, e, per l'effetto, ne dichiara la natura di contratto di lavoro a tempo indeterminato, condannando P.I spaa riammettere B*** G**** nel posto di lavoro occupato in forza del detto contratto nonchè al risarcimento del danno commisurato a tutte le retribuzioni globali di fatto medio tempore spettanti dalla data di costituzione in mora individuata in parte motiva sino alla effettiva riammissione al lavoro - detratte le retribuzioni aliunde percepite nello stesso periodo di cui in motivazione - oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali sul capitale progressivamente rivalutato;
condanna la società resistente alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte ricorrente, spese che liquida in complessivi euro 1.550,00, di cui euro 780,00 per diritti, oltre a spese generali, CPA e IVA, come per legge, disponendone la distrazione ex art. 93 c.p.c. in favore dell'avv. C**** B****.
Così deciso in Catania il 20 luglio 2010
Depositato in cancelleria oggi 20 luglio 2010.


 

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