REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME' Giuseppe - Presidente -
Dott. VIVALDI Roberta - Consigliere -
Dott. RUBINO Lina - Consigliere -
Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 1153-2013 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BONCOMPAGNI 93, presso lo studio dell'avvocato LOVELLI ANNAMARIA, rappresentato e difeso dall'avvocato QUARATO COSIMO giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
MILANO ASSICURAZIONI SPA DIVISIONE SASA, T. A.;
- intimati -
avverso la sentenza n. 351/2011 della CORTE D'APPELLO DI LECCE SEZ.DIST. di TARANTO, depositata il 07/11/2011, R.G.N. 218/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2015 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito l'Avvocato COSIMO QUARATO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per l'inammissibilità in subordine rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il 31.1.1997 S.S. rimase vittima d'un sinistro stradale.
Nel 1999 la vittima convenne dinanzi al Tribunale di Taranto la persona indicata come responsabile, ovvero T.A., e l'assicuratore della responsabilità civile di questi, ovvero la società SASA s.p.a. (che in seguito muterà ragione sociale in Milano Assicurazioni s.p.a.; d'ora innanzi, per brevità, "la Milano"), chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni patiti.

2. Con ordinanza 17.5.2005 pronunciata ai sensi dell'art. 186 quater c.p.c., il Tribunale di Taranto accolse la domanda.
L'ordinanza acquistò l'efficacia della sentenza per rinunzia a quest'ultima da parte della Milano.
Contro l'ordinanza propose appello S.S., il quale lamentò la sottostima del danno.
La Milano e T.A. restarono contumaci.
3. La Corte d'appello di Lecce con sentenza 7.11.2011 rigettò il gravame.
4. La sentenza d'appello è stata impugnata per cassazione da S.S., sulla base di due motivi articolati in più censure ed illustrati da memoria.
Nel giudizio dinanzi a questa Corte nè la Milano nè T. A. si sono difesi.

Motivazione

1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati l'art. 32 Cost.; artt. 1223, 1226, 2043, 2056 e 2059 c.c. e artt. 112 e 115 c.p.c.); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5.

Il motivo, formalmente unitario, si articola in più censure autonome, con le quali il ricorrente lamenta che la Corte d'appello:
(a) ha liquidato il danno alla salute con criteri diversi da quelli elaborati e diffusi dal Tribunale di Milano (cd. "Tabelle");
(b) ha comunque motivato in modo apodittico sulla stima del danno non patrimoniale;
(c) ha applicato in modo erroneo le tabelle "del Salento" (con un minus in suo danno di circa 96 Euro);
(d) non ha attualizzato il risarcimento;
(e) ha sottostimato il cd. "danno morale".

1.2. La censura sub (a) è fondata; tutte le altre restano assorbite.
Le tabelle uniformi adottate dal Tribunale di Milano per la liquidazione del danno alla persona sono state indicate da questa Corte come il parametro equitativo preferibile, in linea generale, per la liquidazione del danno non patrimoniale, ove la legge non disponga altrimenti.
Tale principio è stato affermato per la prima volta dalla sentenza pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 12408 del 07/06/2011, Rv. 618048, e più volte ribadito in seguito: da ultimo, da Sez. 3, Sentenza n. 5243 del 06/03/2014, Rv. 630077.
Tale criterio di liquidazione non è stato adottato dalla sentenza impugnata. La sentenza va dunque cassata con rinvio alla Corte d'appello di Lecce, la quale provvederà a liquidare il danno non patrimoniale invocato dal ricorrente:
(a) o assumendo a parametro di riferimento le tabelle uniformi di cui si è detto;
(b) ovvero indicando analiticamente le ragioni per le quali, nel caso di specie, non sarebbe equo applicare le suddette tabelle.

1.3. Nel liquidare il danno in base coi criteri indicati dal precedente, il giudice di rinvio valuterà ovviamente se ed in che misura l'importo standard del risarcimento, risultante dall'applicazione della tabella uniforme, debba essere variato in più od in meno per tenere conto delle peculiarità del caso concreto che siano state ritualmente dedotte e provate.
Nel compiere tale operazione terrà conto eventualmente delle sofferenze derivanti dalla lesione della salute, ma non aventi una base organica (o "nocicettiva": ad esempio la tristezza, la vergogna, il dispiacere, ecc), le quali vanno liquidate in una con il danno biologico, come stabilito da questa Corte con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605495.
Da ciò consegue che le censure indicate al p. 1.1, sub (b), (c), (d) ed (e) restano assorbite dall'accoglimento del primo profilo del presente motivo di ricorso.

2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Anche col secondo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da una violazione di legge, ai sensi all'art. 360 c.p.c., n. 3, (si assumono violati gli artt. 1223, 2697 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c.; R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403); sia da un vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5. Il motivo, formalmente unitario, si articola in quattro censure.
2.1.1. Con una prima censura il ricorrente lamenta che la Corte d'appello avrebbe illogicamente motivato il rigetto della sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale per perdita di alcune indennità lavorative.
2.1.2. Con la seconda censura il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica nella parte in cui, nonostante il consulente tecnico d'ufficio avesse accertato una "riduzione della capacità lavorativa specifica" del 10%, ha ritenuto che tale pregiudizio incidesse solo sullo svolgimento, da parte della vittima, dell'attività di libero professionista, ma non su quella di medico pubblico dipendente.
2.1.3. Con la terza censura il ricorrente sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato nel liquidare il danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno capitalizzando il reddito perduto in base ai coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922, divenuto inadeguati a causa dell'allungamento della durata media della vita media.
2.1.4. Con la quarta ed ultima censura il ricorrente sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato nell'escludere il rimborso della spese mediche sostenute dalla vittima.

2.2. La prima censura del secondo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di autosufficienza.
Il ricorrente, infatti, lamenta che la Corte d'appella abbia rigettato la sua domanda di risarcimento del danno patrimoniale consistito nella forzosa rinuncia a speciali indennità retributive, delle quali aveva "fornito in giudizio ampia prova" (così il ricorso, p. 17, ultimo capoverso).
Nondimeno, non indica in quale fase processuale abbia depositato i relativi documenti ed a quale fascicolo siano stati allegati, indicazione prescritta dall'art. 366 c.p.c., n. 6, così come interpretato dalle sezioni unite di questa Corte con la nota sentenza pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 22726 del 03/11/2011, Rv. 619317).

2.2. La seconda censura del secondo motivo di ricorso (con la quale si assume il vizio di motivazione nella liquidazione del danno patrimoniale da incapacità di lavoro) è infondata.
La Corte d'appello ha, nella sostanza, ritenuto che per un medico avere un difetto articolare alla caviglia può in astratto ridurre il reddito dal lavoro autonomo, ma non quello da lavoro dipendente.
Questa motivazione non è illogica: infatti il lavoro dipendente assicura al lavoratore un reddito stabile quale che sia la sua maggiore o minore efficienza fisica; mentre per contro una minore efficienza fisica, riducendo il tempo e la voglia da dedicare al lavoro autonomo potrebbero in teoria comprometterne i proventi.
Stabilire, poi, se la statuizione della Corte d'appello sia anche corretta nel merito è questione di fatto, come tale incensurabile in questa sede.

2.3. La terza censura del secondo motivo di ricorso è fondata.

2.3.1. Il Tribunale di Taranto ha liquidato il danno patrimoniale da incapacità di lavoro patito da S.S.:
(a) determinando in via equitativa la quota di reddito perduto;
(b) moltiplicando questa quota per un coefficiente di capitalizzazione.

Il Tribunale ha usato un coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 (recante "Approvazione delle nuove tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali").
La decisione del Tribunale è stata impugnata sotto questo profilo da S.S., il quale ha dedotto che i coefficienti allegati al R.D. n. 1403 del 1922 non sono oggi più attuali, a causa dell'allungamento della vita media.

2.3.2. Investita di tale questione, la Corte d'appello di Lecce ha osservato: "bene ha operato il Tribunale (...) utilizzando il coefficiente di capitalizzazione correlato all'età e detraendo la percentuale di scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Nè esistono allo stato elementi sicuri per rettificare I parametri de quibus (...), addivenendo all'auspicata equazione tra l'età di 37 anni del 1997 e l'età di 22 anni del 1922".
Questa statuizione della Corte d'appello è illegittima per violazione dell'art. 1223 c.c.

2.3.3. Il risarcimento del danno deve essere integrale: cioè comprendere tanto la perdita subita, quanto il mancato guadagno (art. 1223 c.c.).
Il danno da perdita della capacità di lavoro e di guadagno è un danno permanente: esso infatti è destinato a riprodursi anno per anno, per tutta la vita lavorativa della vittima.

L'integrale risarcimento del danno permanente può avvenire in due modi: vuoi in forma di rendita (art. 2057 c.c.), vuoi in forma di capitale. Per trasformare in capitale il reddito perduto de die in diem dalla vittima sono possibili in teoria due criteri.
Il primo consiste nel sommare tutti i renditi che la vittima perderà tra il momento della liquidazione e il momento futuro in cui avrebbe comunque cessato il lavoro, e quindi nell'applicare ai risultato un saggio di sconto, per tenere conto del fatto che la vittima percepisce immediatamente redditi che, se fosse rimasta sana, avrebbe incassato solo tra n anni (e quindi il danneggiato trarrebbe vantaggio dal risarcimento se non si eliminasse, attraverso lo sconto, il cd. "montante di anticipazione").
Il secondo criterio consiste ne moltiplicare il reddito annuo perduto dalla vittima (al netto delle imposte e debitamente rivalutato all'epoca della liquidazione) per un numero che tenga già conto del montante di anticipazione.
Questo numero è detto coefficiente di capitalizzazione.
I coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 sono stati calcolati sulla base delle tavole di mortalità ricavate dal censimento della popolazione italiana del 1911, e presuppongono una produttività del denaro al saggio del 4,5%.
I suddetti coefficienti non consentono l'integrale ristoro del danno prescritto dall'art. 1223 c.c., e la loro adozione non è dunque consentita nemmeno in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c.
Ciò per quattro ragioni.

2.3.4. La prima ragione è che la vita media della popolazione italiana si è notevolmente accresciuta nel secolo trascorso tra il 1922 ed il 2015. Nel 2014 l'Istituto Nazionale di Statistica ha determinato la speranza di vita alla nascita per la popolazione italiana in 80,2 anni per gli uomini ed 84,9 anni per le donne.
Nel 1900 la speranza di vita media della popolazione italiana (calcolata, all'epoca, indistintamente per maschi e femmine) era di soli 54,9 anni. Pertanto liquidare il danno permanente in base ad un coefficiente calcolato su una speranza di vita inferiore di oltre un terzo a quella reale non può dirsi in alcun modo un risarcimento "integrale" ai sensi dell'art. 1223 c.c.. La seconda ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono unici per maschi e femmine, mentre la durata della vita media è diversa per i due sessi. Ciò conduce ad una sovrastima del danno patito dalla vittima maschile, e ad una sottostima per le vittime dell'altro sesso. Anche tale circostanza non soddisfa, pertanto, la regola di integralità di cui all'art. 1223 c.c..
La terza ragione è che i coefficienti di capitalizzazione di cui al R.D. n. 1403 del 1922 sono calcolati ad un saggio del 4,5%. Tale saggio indica la quota di risarcimento che viene detratta per tenere conto della anticipata capitalizzazione, rispetto all'epoca futura in cui il danno si sarebbe effettivamente verificato. Il saggio al quale viene calcolato il coefficiente di capitalizzazione indica dunque il "vantaggio" che il creditore teoricamente acquisisce per effetto del pagamento immediato, ed è pari alla ipotetica remunerazione che il denaro ottenuto gli dovrebbe garantire attraverso le forme più comuni di investimento senza rischio di capitale.
Il saggio del 4,5%, al quale sono calcolati i coefficienti di cui ai R.D. n. 1403 del 1922, non è più corrispondente alla realtà, in un'epoca in cui il tasso legale degli interessi è pari allo 0,5% e gli investimenti in titoli a reddito fisso raramente garantiscono rendimenti superiori al 2%.
Pertanto l'adozione dei coefficienti di cui al R.D. n. 1403 del 1922 ha l'effetto di decurtare dal risarcimento un importo superiore a quello che, per effetto dell'anticipato pagamento, il danneggiato potrebbe ottenere attraverso l'impiego proficuo di quella somma: anche sotto tale profilo, pertanto, i coefficienti in esame non soddisfano la regola di integralità di cui all'art. 1223 c.c.

La quarta ragione è che il R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403 è stato implicitamente abrogato per effetto della soppressione della Cassa Nazionale per Assicurazioni Sociali (CNAS, ovvero l'ente erogatore delle prestazioni disciplinate dal suddetto decreto), e della sua sostituzione dapprima dall'Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (1933), e quindi dall'Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), e comunque per effetto della riforma dei criteri di calcolo della pensione sociale.

2.3.5. Per ovviare agli inconvenienti sopra descritti, ovviamente il giudice di merito resta libero di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritiene preferibili, purchè aggiornati e scientificamente corretti. Potranno a tal fine essere adottati i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti normativi vigenti per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali, come pure i coefficienti elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano: a mero titolo indicativo, quelli diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura ed allegati agli Atti dell'Incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno - 1 luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.).

2.3.6. La sentenza impugnata deve quindi essere cassata sul punto, e rinviata alla Corte d'appello di Lecce, la quale nel riesaminare il caso applicherà il seguente principio di diritto:

Il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, i quali a causa dell'innalzamento della durata media della vita e dell'abbassamento dei saggi di interesse non garantiscono l'integrale ristoro del danno, e non sono perciò consentiti dalla regola di integrante del risarcimento di cui all'art. 1223 c.c.

2.4. La quarta censura contenuta nel secondo motivo di ricorso (con la quale il ricorrente lamenta l'erroneo rigetto della sua domanda di risarcimento del danno consistito nelle spese di cura, così come di quelle di viaggio e vitto per curarsi) è anch'essa fondata, sotto il profilo del vizio di motivazione.
2.4.1. La Corte d'appello ha ritenuto che il giudice di primo grado abbia correttamente deciso di rigettare la domanda di risarcimento del danno consistito nelle spese di cura, viaggio e soggiorno per curarsi. Ha così motivato: "sono state giustamente escluse dal rimborso le spese di vitto, trasporto e soggiorno, non riferibili con certezza alla malattia, anche perchè non personalizzate nelle ricevute".

Questa motivazione è sia carente che illogica.
E' carente, perchè non consente di comprendere cosa intenda la Corte con l'espressione "ricevute personalizzate".
E' illogica, perchè dal fatto noto che la vittima patì una frattura; dal fatto noto che la vittima si recò a farsi curare in una città diversa e distante da quella di residenza; dal fatto noto che viaggi e soggiorni in altre città hanno un costo, in base al criterio dell'id quod plerumque accidit la Corte d'appello avrebbe dovuto indicare quali circostanze concrete ostavano a raggiungere questa banale conclusione.

3. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 3.

PQM

la Corte di cassazione, visto l'art. 380 c.p.c.:
-) accoglie il ricorso per quanto di ragione;
cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Lecce in diversa composizione;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, il 9 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2015


 

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