REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VENUTI Pietro - rel. Presidente -
Dott. MANNA Antonio - Consigliere -
Dott. BERRINO Umberto - Consigliere -
Dott. DORONZO Adriana - Consigliere -
Dott. ESPOSITO Lucia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 27288/2014 proposto da:
L.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell'avvocato PANICI PIER LUIGI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
GALLI INNOCENTI & C. S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE, 5, presso lo studio dell'avvocato SONIA FRANZESE, rappresentata e difesa dall'avvocato TOMASINO ANDREA, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 7568/2014 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 21/10/2014 R.G.N. 4533/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/07/2015 dal Consigliere Dott. PIETRO VENUTI;
udito l'Avvocato PANICI PIERLUIGI;
udito l'Avvocato TOMASINO ANDREA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Roma, con sentenza depositata il 21 ottobre 2014, ha confermato la decisione di primo grado che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa, intimato a L. M. dal datore di lavoro, S.p.A. Galli Innocenti & C.
Ha ritenuto la Corte di merito che la condotta tenuta dal lavoratore, davanti ad altri dipendenti dell'azienda, nei confronti di un altro lavoratore di nazionalità rumena, V.S., consistita in una aggressione verbale, in un atteggiamento minaccioso e in pesanti offese, quali rumeno di merda, stronzo e simili, costituiva atteggiamento di intolleranza razziale, idoneo ad integrare la giusta causa di licenziamento, facendo venir meno l'elemento fiduciario che sta alla base del rapporto di lavoro.
A nulla rilevava che al diverbio litigioso non fossero seguite le vie di fatto, come previsto dal contratto collettivo ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, posto che l'elencazione delle condotte in esso previste erano meramente esemplificative. Non era altresì rilevante il fatto che non fosse stata contestata al dipendente la recidiva, atteso che taluni episodi pregressi erano idonei a fornire elementi di giudizio per la valutazione complessiva del comportamento del lavoratore. Infine, la sanzione espulsiva adottata nei confronti del dipendente era proporzionata ai fatti dal medesimo commessi.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre il lavoratore sulla base di due motivi. Resiste con controricorso la società. Le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivazione

1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di plurime disposizioni di legge (art. 2909 c.c., artt. 112 e 434 c.p.c.), in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si deduce che doveva considerarsi definitivamente accertato dalla sentenza di primo grado, perchè non oggetto di impugnativa, il fatto che il ricorrente mai ebbe a rivolgersi al dipendente rumeno per ordinargli di aiutarlo a svolgere il lavoro da lui disimpegnato - circostanza questa che diede origine alla contestazione disciplinare -, avendo viceversa chiesto al collega P.R. di recarsi dal V. e di chiedergli di aiutare il ricorrente a controllare il materiale durante le operazioni di scarico da lui eseguite.
Erroneamente dunque la Corte di merito ha ritenuto che fosse stato il ricorrente a rivolgersi direttamente al V. per chiedergli di aiutarlo e che, di conseguenza, fosse sussistente l'addebito di avere arbitrariamente incaricato un altro dipendente di svolgere quel tipo di lavoro. Inoltre, al rifiuto del V. non fece seguito alcuna reazione da parte del ricorrente, il quale continuò a svolgere regolarmente il proprio lavoro.

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione "degli artt. 217 e 221 CCNL", L. n. 183 del 2010, art. 30, L. n. 300 del 1970, art. 7, artt. 2109 e 2106 c.c..
Si osserva che per i fatti in questione - "diverbio litigioso senza vie di fatto e senza alcun nocumento o turbativa al normale esercizio dell'attività aziendale" - è prevista dal contratto collettivo una sanzione conservativa e che pertanto è illegittimo il licenziamento, a nulla rilevando che detta ipotesi fosse stata indicata nel contratto in via esemplificativa.
Si aggiunge che erroneamente la Corte di merito, ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento, ha desunto elementi di giudizio dalla recidiva, atteso che questa non era stata oggetto di contestazione disciplinare e, in ogni caso, a norma della L. n. 300 del 1970, art. 7, non poteva tenersi conto ad alcun effetto della sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. Il licenziamento appariva, inoltre, del tutto sproporzionato, trattandosi in definitiva di un semplice diverbio litigioso tra colleghi, conseguente ad un plateale rimprovero del ricorrente da parte del datore di lavoro di fronte ad altri colleghi, nel piazzale dove il medesimo stava lavorando. Non era stata poi tenuta in alcuna considerazione l'intensità dell'elemento intenzionale ed il grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal ricorrente. Del tutto inconferente era, infine, il richiamo agli insulti razziali: il rumeno era di razza bianca e cittadino comunitario ed, inoltre, la condotta del ricorrente non era stata dettata da alcun intento discriminatorio.

3. Il ricorso, i cui motivi vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione, è fondato.
Come risulta dalla contestazione disciplinare riportata nel controricorso, all'odierno ricorrente venne fatto carico, in sintesi, di avere del tutto arbitrariamente, in data 17 novembre 2011, ordinato al suo collega, sig. V.S., impegnato in analoga attività presso il magazzino, di controllare (al suo posto) la merce che veniva scaricata e la corrispondenza con le bolle di consegna.
Di tale fatto il V. informava il consigliere di amministrazione della società, sig. I., il quale, "piuttosto alterato", portatosi presso il magazzino, in presenza di altri lavoratori, rimproverava il L., facendogli notare che l'attività di controllo della merce doveva essere da lui espletata e che non era affatto autorizzato a demandare ad altri tale incombenza. Una volta allontanatosi lo I., il L. aggrediva con toni alterati e provocatori il V., utilizzando nei suoi confronti frasi ed epiteti sconvenienti ed offensivi in presenza di altri colleghi di lavoro, i quali evitavano che si passasse alle vie di fatto. Il V. non replicava agli insulti, provvedendo, sebbene non vi fosse obbligato, a svolgere l'attività non di sua competenza richiestagli.
L'istruttoria svolta ha confermato parzialmente la contestazione disciplinare.

In particolare, come pure risulta dalla sentenza impugnata, il L. non ordinò, del tutto arbitrariamente, al V. di controllare la merce al suo posto, ma chiese ad un collega di lavoro ( P.R.) "di andare dal V. per chiedergli di aiutarlo al controllo del materiale durante lo scarico". Il V. si rifiutò. Poco dopo, il sig. I., unitamente ad un dipendente ( D.R.), si recò dal L. per chiedere spiegazioni sul suo comportamento. Chiarita la questione, dopo che i due si erano allontanati, sentirono un "vociare a tono elevato" e videro che il L. aveva alzato la voce aggredendo verbalmente il V. con insulti del tipo "rumeno di merda, stronzo ed altre espressioni simili". Il V. non reagì ed anzi sembrava piuttosto intimorito anche perchè il L. era molto vicino mentre lo insultava. Non vi fu una aggressione fisica da parte del L..
Sulla base di tale ricostruzione, la Corte di merito ha ritenuto provata la circostanza che il L. chiese al V. "di aiutarlo" non direttamente, ma attraverso un collega di lavoro ( P.); che era provato il comportamento offensivo del L. nei confronti del V.; che i due non passarono a vie di fatto; che la reazione del L. fu sproporzionata e si risolse di fatto in un atteggiamento offensivo del tutto gratuito nei confronti del V.; che l'indicazione della ipotesi di giusta causa contenuta nel contratto collettivo (diverbio litigioso seguito da vie di fatto) aveva valore esemplificativo e non tassativo e non escludeva pertanto la legittimità del licenziamento in presenza di una condotta che aveva fatto venir meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore; che pur non essendo stata contestata la recidiva per fatti risalenti al 1996 e al 2009 (diverbi verbali con colleghi di lavoro) essi potevano essere considerati ai fini della valutazione della gravità dell'inadempimento; che la sanzione espulsiva era proporzionata alla condotta tenuta dal L., avendo questi posto in essere nei confronti del collega di nazionalità rumena un'aggressione verbale sproporzionata e per futili motivi, con modalità minacciose, usando epiteti e termini offensivi con valenza discriminatoria, insultando il V. per il fatto di essere di nazionalità rumena; che il licenziamento era dunque legittimo, tenuto conto che il L. non aveva tenuto fede "all'impegno preso nella precedente occasione a non reiterare siffatte condotte".

Non ritiene il Collegio, alla stregua di tutto quanto sopra evidenziato, che il giudice d'appello abbia correttamente applicato i principi elaborati da questa Corte in materia di giusta causa di licenziamento (art. 2119 c.c.).
Innanzitutto, non ha tenuto conto che con la contestazione disciplinare era stato fatto carico al L. di avere arbitrariamente ordinato al V. di controllare (al suo posto) la merce da scaricare in magazzino, circostanza questa esclusa dalla stessa Corte di merito, la quale ha affermato che l'odierno ricorrente "chiese ad un suo collega di andare dal V. per chiedergli di aiutarlo al controllo del materiale durante lo scarico".
La circostanza non è di poco conto, poichè una cosa è impartire ordini ad un collega senza averne i poteri, altra cosa è chiedere la collaborazione per l'espletamento di un servizio a favore del datore di lavoro, comune ad entrambi. Peraltro, se il V. si fosse limitato, così come ha fatto, ad opporre il rifiuto - come era un suo diritto - la vicenda non avrebbe avuto alcun seguito. Il V. invece riferì la circostanza ad un suo superiore, determinando, dopo il chiarimento della vicenda con quest'ultimo, una reazione da parte del L., reazione che, sebbene non giustificata, fu connotata da toni accesi e ingiuriosi, senza trascendere a vie di fatto.

La Corte territoriale, inoltre, non solo ha trascurato di considerare che in tema di licenziamento vige il principio che non possono essere assunti alla base del recesso fatti diversi da quelli contestati, ma non ha tenuto conto che, ai fini della legittimità dello stesso, la condotta del lavoratore deve essere valutata anche sotto il profilo soggettivo, tenuto conto delle ragioni che hanno indotto il lavoratore ad agire in un determinato modo.
Se è vero, poi, che il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, a titolo esemplificativo, nell'ipotesi di diverbio litigioso seguito da vie di fatto e che tale circostanza non esclude che il licenziamento possa essere disposto, così come affermato dal giudice d'appello, nell'ipotesi di "condotte idonee alla lesione del vincolo fiduciario pur non comprese nelle indicazioni specifiche contrattuali", sta di fatto che le parti sociali hanno dato una indicazione abbastanza chiara di non rilevanza, ai fini del licenziamento, di mere condotte non seguite da vie di fatto, ancorchè offensive e minacciose.

Quanto, infine, all'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui l'aggressione verbale sarebbe stata "sproporzionata ai fatti in corso e per futili motivi, con modalità minacciose, usando termini offensivi ed ingiurie con valenza discriminatoria, insultando il V. per il fatto di essere di nazionalità rumena", anche qui la Corte di merito ha omesso di considerare che non si trattava "di futili motivi", essendo stato il L. richiamato dal datore di lavoro, "piuttosto alterato", alla presenza di altri colleghi per una mera richiesta di collaborazione, ancorchè non autorizzata, e che gli insulti anzidetti non avevano intenti discriminatori, ma erano stati dettati dal fatto che il V. non si era limitato ad opporre il rifiuto, ma aveva informato il superiore gerarchico con il chiaro intento di dar seguito, sotto il profilo disciplinare, alla vicenda.

Alla stregua di tutto quanto precede, si impone un riesame della controversia da parte del giudice del rinvio, ai fini della corretta applicazione dei criteri che integrano la giusta causa del licenziamento. Al riguardo vanno richiamati i seguenti principi di diritto affermati in materia da questa Corte:

a) "Per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale; dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare.

b) "Nel giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione in relazione all'illecito commesso, l'inadempimento del lavoratore deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicchè l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3), ovvero tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.).


La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale, nel riesaminare la causa, dovrà tenere conto dei criteri e dei principi di diritto sopra enunciati.
Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
In ragione dell'accoglimento del ricorso, non sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, comma inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Ai sensi al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, non sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, il 15 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 16 ottobre 2015


 

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