REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHIARINI Maria Margherita - Presidente -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. SESTINI Danilo - Consigliere -
Dott. SCRIMA Antonietta - Consigliere -
Dott. VINCENTI Enzo - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente
sentenza
sul ricorso 21920-2012 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRONTO 32, presso lo studio dell'avvocato MUNDULA GIULIO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato GIACOBINA ROBERTO giusta procura speciale in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
C.B., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato SELIS DINO GIOVANNI giusta procura speciale a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1046/2011 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 13/07/2011, R.G.N. 634/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2015 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;
udito l'Avvocato GIULIO MUNDULA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. - Nell'aprile del 2003, C.B. convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Torino, il dott. R.F. per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni patiti (da liquidarsi in circa Euro 34.000,00) a causa di un intervento di riabilitazione orale, mediante protesi mista dell'arcata superiore ed inferiore, effettuato dall'odontoiatra.
Espose l'attrice di essersi rivolta allo studio odontoiatrico del R. nell'autunno del 2001 e che a seguito dell'inesatta esecuzione dell'intervento si era dovuta rivolgere successivamente ad altro professionista presso il quale era ancora in cura al momento dell'inizio del processo.
Si costituì in giudizio il convenuto per chiedere il rigetto della domanda, deducendo che l'operazione era stata eseguita correttamente e che i danni lamentati dipendevano dalla situazione preesistente dell'attrice.
Istruita la causa, mediante escussione dei testi ed espletamento di c.t.u. medico-legale, il Tribunale di Torino, con sentenza del 19 febbraio 2007, rigettò la domanda, rilevando che non vi fosse prova del nesso causale tra l'intervento eseguito dal R. e i disturbi lamentati dalla C., in quanto la consulenza, pur affermando la non corretta esecuzione della terapia praticata dall'odontoiatra, aveva evidenziato che i disturbi avvertiti dalla signora erano attribuibili anche alla struttura articolare mandibolare già presente in epoca precedente al trattamento, così emergendo un ruolo concausale dei due fattori, ma non essendo possibile accertare in quale misura avesse contribuito la protesizzazione in assenza di elementi clinici relativi allo stato articolare antecedente alle cure messe in opera dal R..

2. - Avverso tale sentenza interponeva gravame la C. per chiedere la riforma della pronuncia impugnata, con condanna del convenuto al rimborso dell'importo percepito a titolo di onorari, nonchè al risarcimento dei danni.
Nel contraddittorio con l'appellato, costituitosi per chiedere il rigetto dei motivi e l'inammissibilità della richiesta di restituzione del compenso, la Corte di appello di Torino, con sentenza resa pubblica il 13 luglio 2011, riteneva parzialmente fondato l'appello e riformava in parte la sentenza di primo grado, condannando R.F. al risarcimento dei danni in favore della C. liquidati in Euro 17.076,00.

2.1. - Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte territoriale osservava che, in base alla c.t.u. espletata (e ritenuta ben motivata ed esente da vizi logici e giuridici), dovesse considerarsi dimostrata la responsabilità del R., in quanto i consulenti tecnici avevano accertato che le cure non implicavano soluzioni di problemi con particolari difficoltà e vi era stata una non corretta esecuzione della terapia con protesi, pur evidenziando il ruolo concausale della preesistente situazione clinica.
Sicchè, non avendo la consulenza accertato la correttezza dell'intervento, la Corte di appello concludeva che, nella specie, l'appellato non aveva dimostrato l'incolpevole insuccesso dell'intervento e la diligente esecuzione della propria obbligazione, dovendo, pertanto, essere condannato al risarcimento dei danni patiti dalla C., individuati negli esborsi sostenuti per gli ulteriori trattamenti medici necessari per rimediare ai pregiudizi subiti e nel danno biologico pari all'1%, come indicato dalla c.t.u.

3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre R.F. sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso C.B.

Motivazione

1. - Con il primo mezzo viene denunciato, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
La sentenza della Corte di appello sarebbe viziata nella parte cui viene accertato il nesso causale tra l'intervento eseguito dal dott. R. e i danni lamentati dalla C., in quanto ciò si porrebbe in contrasto con le conclusioni raggiunte dai consulenti d'ufficio, i quali avevano affermato come lo squilibrio articolare, che normalmente si accompagna alla riabilitazione di una bocca edentula nei settori posteriori, richieda l'effettuazione di visite di controllo per ritoccare e correggere le protesi, visite che nel caso in esame sarebbero state idonee ad ottenere il medesimo risultato conseguito dal successivo odontoiatra cui si era rivolta la C., ma che non erano state eseguite poichè la stessa non si era più presentata presso lo studio del dott. R..
A fronte di ciò, il giudice di merito non avrebbe assolutamente potuto ascrivere al sanitario i danni lamentati, atteso che i necessari interventi di aggiustamento successivi non erano stati effettuati per colpa della C., che non si era più recata presso lo studio di esso R..
Infatti, relativamente all'installazione di protesi, non sarebbe possibile far gravare sull'odontoiatra un'automatica obbligazione di risultato, in quanto trattasi di un atto terapeutico che spesso coinvolge reazioni imprevedibili, con necessità di aggiustamenti successivi. Pertanto, la Corte territoriale, se avesse preso in esame l'accertamento operato dalla c.t.u., sarebbe giunta ad un diverso convincimento, quale quello seguito dal Tribunale, il quale aveva rilevato che una diversa condotta della paziente - che si fosse regolarmente recata ad effettuare i controlli - avrebbe potuto avere un rilievo concreto nella eliminazione o attenuazione dei sintomi, mentre in difetto di prova di tale circostanza, il primo giudice aveva ritenuto che non fosse stato dimostrato il nesso di causalità.
E a tal riguardo, nemmeno avrebbe potuto considerarsi terminato il rapporto contrattuale, atteso che la prestazione del professionista non era stata ultimata.
Dunque, la motivazione fornita dal giudice di secondo grado sarebbe del tutto incoerente dal punto vista logico-formale, posto che, dopo aver individuato nella c.t.u. la fonte del proprio convincimento, ne avrebbe disatteso le risultanze con riferimento alla necessità di visite di controllo per gli aggiustamenti della protesi cui la paziente si era volontariamente sottratta, ciò che avrebbe consentito, secondo gli stessi periti, di ottenere il medesimo risultato conseguito dall'altro odontoiatra, cui la C. si era successivamente rivolta.

2. - Con il secondo ed il terzo mezzo vengono integralmente riproposte le medesime censure dedotte nel primo motivo in ordine alle stesse circostanze, ma sotto gli ulteriori profili di motivazione omessa e insufficiente.

2.1. - I motivi, da trattarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, non possono trovare accoglimento.
La ratio decidendi che fonda la sentenza impugnata è da rinvenire nella constatazione - mutuata direttamente dalla consulenza tecnica d'ufficio - per cui non risultava correttamente eseguita, da parte dell'odontoiatra, la terapia con protesi parziali removibili alle due arcate del paziente, la quale non implicava la soluzione di problemi di particolare difficoltà, pur essendo evidenziato il "ruolo concausale" della preesistente situazione relativa alla struttura mandibolare della stessa C.
La centralità di siffatto accertamento non è scalfita dal rilievo, che il ricorrente attribuisce alla stessa c.t.u. (sebbene ne riporti solo parzialmente i contenuti, in guisa tale da impedirne una lettura coerente; con ciò violando il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, letto in funzione della necessaria specificità e congruenza della doglianza, che, altrimenti, dovrebbe essere integrata, nella sua costruzione, da questa stessa Corte, in palese deviazione dai suoi compiti istituzionali), della necessità di interventi successivi di correzione, impediti per fatto della stessa paziente, che interrompeva il rapporto contrattuale.
Nella stessa prospettiva assunta dalla sentenza impugnata - e non intrinsecamente censurata nella sua consistenza di fondo - la circostanza dedotta dal ricorrente non pone affatto in discussione l'accertamento del nesso causale tra condotta del sanitario (intervento odontoiatrico eseguito in modo non corretto) ed evento di danno (i disturbi lamentati dalla C. all'esito dell'intervento stesso), essendo tale accertamento basato proprio sulle conclusioni della c.t.u., la quale, precipuamente in ambito di responsabilità medica, assume anche funzione percipiente e non solo deducente, così da poter costituire legittima fonte oggettiva di prova in quanto strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di determinate cognizioni tecniche (Cass., 5 maggio 2005, n. 9353; Cass., 26 febbraio 2013, n. 4792).

Sicchè, la possibilità di successivi interventi correttivi e di aggiustamento non elide il fatto, allegato dalla paziente ed oggetto di accertamento in sentenza, dell'inadempimento qualificato del sanitario già determinatosi (e cioè che la terapia non risultava "corretta tecnicamente", pur non comportando la soluzione di problemi di particolare difficoltà), spettando a quest'ultimo la dimostrazione (non fornita) che l'inadempimento non sussistesse o che l'evento fosse ascrivibile ad altra causa (cfr., tra le altre, Cass., 30 settembre 2014, n. 20547).

E su quest'ultimo punto - che verrà analizzato funditus in sede di scrutinio degli ulteriori motivi di ricorso - la stessa c.t.u. (come giova sin d'ora porre in evidenza) aveva individuato solo un "ruolo concausale" della "preesistente situazione (relativamente alla struttura mandibolare destra)" della C., cosi da escludere che il fattore patologico preesistente avesse un'efficienza eziologica assorbente rispetto alla condotta inadempiente del sanitario.

Altresì inconferente si palesa il rilievo del ricorrente in ordine alla interruzione del rapporto contrattuale di prestazione odontoiatrica ad opera della C. prima che fossero realizzati gli anzidetti interventi correttivi, posto che esso si fonda sull'erroneo presupposto per cui, resa la prestazione odontoiatrica dedotta in contratto ed accertatane la non corretta esecuzione, l'inadempimento qualificato del sanitario sussisterebbe solo qualora non fosse possibile porre rimedio all'errore precedentemente commesso.
Ed infatti le successive operazioni di sistemazione o riposizionamento richiamate dalla c.t.u. non si prestano ad essere intese come funzionali alla rimozione di errori nell'esecuzione non tecnicamente corretta dell'opera professionale, ma presuppongono, comunque, una prestazione diligentemente eseguita e tecnicamente rispondente alle leggi dell'arte medica.
Nè, come opinato dal ricorrente, una siffatta conclusione smentisce la (tendenziale) qualificazione dell'opera professionale in termini di obbligazione di mezzi e non di risultato, posto essa non elide affatto, nella valutazione dell'(in)adempimento del professionista, il ruolo determinante dell'indagine in punto di diligenza e perizia con cui deve essere eseguita la prestazione oggetto dell'obbligazione.

Non è, dunque, ravvisabile alcun vizio motivazionale come lamentato dal ricorrente, poichè il giudice di secondo grado, lungi dal discostarsi immotivatamente dalle risultanze della consulenza d'ufficio o di averle male interpretate, ad esse si è, invece, congruamente riferito e conformato, assumendo dalla stessa c.t.u. l'accertamento sul nesso di causalità tra la condotta inadempiente del sanitario e l'evento dannoso patito dalla C..

3. - Con il quarto mezzo è dedotto, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di motivazione contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
La sentenza impugnata si porrebbe in contrasto con le conclusioni della c.t.u., che aveva affermato la possibilità di un ruolo concausale della protesi con la precedente situazione articolare della paziente, evidenziando che non era possibile accertare in quale misura quest'ultima situazione avesse contribuito, non essendovi elementi clinici attendibili da riferire a quel periodo.
Pertanto, la Corte territoriale - superando le corrette conclusioni cui era giunto il primo giudice - non avrebbe potuto attribuire un ruolo causale diretto alla condotta dell'odontoiatra, con conseguente contraddittorietà della ritenuta sussistenza della responsabilità dello stesso sanitario, per essere stata accertata la non corretta esecuzione della prestazione, nonostante il ruolo concausale assunto dalla preesistente struttura mandibolare.

4. - Con il quinto mezzo vengono sostanzialmente riprodotte le medesime argomentazioni svolte con il motivo precedente e relativamente alla stessa circostanza del valore di concausa della preesistente situazione mandibolare, sotto, però, l'ulteriore profilo della insufficienza motivazionale.

4.1. - I motivi, che vanno congiuntamente scrutinati per la loro stretta connessione, sono infondati.

Si rivelano, infatti, inconsistenti - al pari di quanto già evidenziato in sede dello scrutinio dei motivi che precedono - le censure di vizio motivazionale a fronte della espressa, argomentata e coerente adesione della sentenza impugnata alle conclusioni della c.t.u., ossia che la prestazione, non implicante problemi di particolare difficoltà, non era stata eseguita in modo tecnicamente corretto, pur in presenza del ruolo concausale della preesistente struttura mandibolare.
Ed invero le doglianze del ricorrente, più che stigmatizzare il contrasto tra sentenza di appello e c.t.u. (che, come già rilevato, non viene riportata in modo coerentemente intelligibile), si orientano a mettere in risalto la diversa lettura, divergente da quella della Corte territoriale, che della stessa consulenza ha fornito il giudice di primo grado, con ciò, tuttavia, deviando dal paradigma censorio imposto dall'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 (nella formulazione, applicabile, ratione temporis, antecedente alla novella del 2012), che impone di denunciare il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata avuto riguardo all'intrinseca portata di quest'ultima e non in relazione, logica/dialogica, alla motivazione adottata dal primo giudice ed oggetto di gravame, siccome assunta a metro della sufficienza-congruenza dell'iter argomentativo da adottare.

Peraltro, occorre rilevare come il percorso motivazionale seguito dal giudice di appello non solo si conforma congruamente alle risultanze della c.t.u., ma, altresì, coglie in modo corretto sul piano giuridico le implicazioni della stessa consulenza.
Giova, infatti, rammentare - sulla scorta di un orientamento al quale il Collegio intende dare continuità (Cass., 21 luglio 2011, n. 15991; Cass., 13 novembre 2014, n. 24204; Cass., 6 maggio 2015, n. 8995) - che, in tema di responsabilità civile, qualora la produzione di un evento dannoso possa apparire riconducibile alla concomitanza della condotta umana e del fattore naturale, ed autonomo, rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato, il giudice, accertata l'efficienza eziologica della condotta rispetto all'evento, in applicazione della regola di cui all'art. 41 cod. pen., deve procedere, anche con ricorso a criteri equitativi, alla valutazione della causalità giuridica di ogni singola concausa, si da delimitare l'obbligo risarcitorio dell'autore della condotta, con esclusione delle conseguenze dannose determinate dal fortuito. Il che sta a significare che l'eventuale apporzionamento di responsabilità non opera sul piano della causalità materiale (che risponde alla regola di struttura dell'art. 41 cod. pen.), bensì su quello della causalità giuridica (ossia delle conseguenze dannose derivate dall'evento lesivo, ex art. 1223 cod. civ.), una volta che in base all'indagine compiuta sulla prima - integrata dalla regola di funzione dell'esistenza "più probabile che non" del nesso eziologico tra condotta ed evento di danno - possa escludersi l'efficienza causale assorbente del fattore naturale, preesistente, concomitante o sopravvenuto.
Ciò in forza della condivisibile ragione che, diversamente dalla regola di struttura del cd. all or nothing, l'apporzionamento/frazionamento della responsabilità risarcitoria in ragione della rispettiva diversa misura del concorrente contributo causale umano e naturale porterebbe ad instaurare una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti tra una causa umana imputabile ed una causa naturale non imputabile, là dove una siffatta relazione, funzionale ad una "misurazione" della responsabilità, "può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli"
(cosi la citata Cass. n. 15991 del 2011).

Sicchè, rispettosa di siffatti principi risulta essere la sentenza impugnata, la quale, in presenza della causa umana imputabile (l'inadempimento dell'odontoiatra), avente efficienza eziologica rispetto all'evento di danno lamentato dalla paziente, e della concausa, anch'essa efficiente, ma non in modo assorbente, del fattore naturale rappresentato dalla patologia pregressa della danneggiata, ha correttamente ritenuto sussistente il nesso causale tra la condotta umana ed il danno, escludendo ogni frazionamento di responsabilità sul piano della causalità materiale.

Quanto, poi, alla rilevanza che avrebbe potuto, in ipotesi, assumere il fattore della patologia pregressa sul piano della causalità giuridica e, dunque, delle conseguenze risarcitorie, si tratta di profilo che, alla stregua di quanto si evince dalla sentenza di appello, non risulta affrontato in sede di merito (implicando esso accertamenti fattuali sulla specifica incidenza ex art. 1223 cod. civ. del fattore patologico antecedente), non avendo il ricorrente neppure dedotto il contrario, ma avendo invece insistito sulla presenza di vizi motivazionali in punto di difetto di nesso causale materiale (salvo un fugace, generico ed inconcludente accenno - a chiosa dei motivi in esame - al "minimo concorso" da parte dell'odontoiatra), senza, peraltro, proporre alcuna doglianza in iure, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (in forza di specifiche e congruenti argomentazioni a sostegno), quanto all'applicazione delle regole di causalità, siccome innanzi rammentate.

5. - Il ricorso va, pertanto, rigettato ed il ricorrente condannato, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 1, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo.

PQM

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 18 settembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 13 novembre 2015


 

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