IL TRIBUNALE DI CATANIA
SEZIONE FALLIMENTARE
riunito in camera di consiglio, nelle persone dei seguenti magistrati:
dott. Adriana Puglisi Presidente
dott. Lucia De Bernardin Giudice
dott. Alessandro Laurino Giudice Relatore
letti gli atti del procedimento di opposizione allo stato passivo iscritto al n. 19936/2015 del ruolo generale promosso da SANTANDER CONSUMER BANK con il ministero dell’avvocato Stefania Chierotti contro FALLIMENTO ARKA SRL con il ministero dell’avvocato Barbara Micali,
udita la relazione del giudice designato,
ha emesso il seguente decreto.

Motivazione

La ricorrente ha concesso un finanziamento ad A. G. di 22.800 euro con cessione del quinto dello stipendio ed autorizzazione a rivalersi sul t.f.r., anche se erogato da istituti previdenziali, a garanzia del debito contratto.
Con l’istanza di insinuazione la società finanziaria ha chiesto l’ammissione “in via cautelativa” del debito residuo a valere sul t.f.r. del dipendente, sia per le rate scadute sia per quelle a scadere, per un importo totale di 11.970,00 euro.
In sede di verifica il lavoratore è stato ammesso per la parte del t.f.r. maturata con la società fallita (12.453,54 euro) ed il diritto del mutuante è stato anch’esso parzialmente riconosciuto limitatamente a 12 quote trattenute in busta paga al dipendente ma non versate, da ottobre 2010 ad agosto 2011, oltre quella di gennaio 2012 (per un totale di 2.280 euro a detrarre dall’importo prima indicato).
La complessità della vicenda deriva, inoltre, da fatto che nell’aprile del 2012 la società allora in bonis trasferì l’azienda ad una società terza cessionaria, che divenne il nuovo datore di lavoro del G., ai sensi dell’art. 2112 c.c..
Il rapporto di lavoro perdura ancora, come è pacifico tra le parti.
L’esecuzione dei pagamenti in capo al terzo debitore ceduto sul quinto dello stipendio è, quindi, attuale, tanto che l’opponente ha ridotto la domanda nel corso del giudizio.

Con l’odierna opposizione si insiste per l’ammissione delle rate del finanziamento a scadere dopo il trasferimento di azienda, ed a valere sul t.f.r. ammesso in favore del lavoratore (€ 10.173,54) di cui contestualmente si chiede la revoca in danno del lavoratore ammesso nella misura, rispettivamente, di € 8.930.
In sede di conclusioni l’opponente ha ridotto ulteriormente la domanda ad € 7.030,00 in virtù dei pagamenti avvenuti ad opera del nuovo datore di lavoro.
La curatela, dal suo canto, ha invece osservato che il debito residuo al luglio del 2017 sia di € 4.750 allegando il prospetto delle rate ammesse al fallimento, di quelle antecedentemente pagate dalla fallita e di quelle pagate dal nuovo datore di lavoro per € 11.970, importo superiore rispetto a quello riconosciuto come percepito da controparte.
Nel merito la curatela rileva che l’art. 3 del contratto di cessione del credito in atti subordina esplicitamente alla cessazione del rapporto di lavoro la garanzia sul t.f.r., cessazione mai avvenuta perché lo stesso rapporto di lavoro è unitario ed ancora in corso come, per pacifica giurisprudenza, avviene anche nel caso di trasferimento di azienda.
L’eccezione è fondata in quanto il diritto di garanzia sconta una doppia eventualità: la condizione che il diritto di credito sia rimasto parzialmente insoddisfatto al momento della cessazione del rapporto di lavoro e che, appunto, il rapporto di lavoro sia cessato.
In quest’ultimo senso la garanzia è subordinata ad un termine incerto nel quando e che non si è ancora verificato.

Anzi, per come è pacifico, il nuovo datore di lavoro continua ad operare le trattenute in busta paga, riducendo mese dopo mese il debito del lavoratore verso il cessionario e, quindi, lo spazio operativo della garanzia, rendendo di fatto impossibile determinare il suo oggetto.

L’opponente controdeduce la irragionevolezza e la contraddittorietà della decisione di ammettere il lavoratore per il t.f.r. (nonostante non sia cessato il rapporto di lavoro) contraddittorietà che, a questo punto, potrebbe riguardare la stessa ammissione di parte del credito in suo favore per le rate insolute alla data del fallimento.
La tesi è suggestiva.
Occorre premettere che la solidarietà in capo al cessionario per i debiti del cedente verso il lavoratore, prevista dall’art. 2112 , comma 2, c.c. rappresenta una garanzia ulteriore in favore di quest’ultimo, in deroga con quanto disposto dall’art. 2560 c.c. in cui rilevano, invece, i libri contabili obbligatori.
In questo senso l’ammissione del lavoratore per il t.f.r. maturato presso il cedente (poi fallito) rappresenta l’eliminazione del rischio -per il lavoratore- che il cessionario dell’azienda risulti inadempiente rispetto all’obbligo solidale di pagare il precedente debito di chi ha trasferito l’azienda (ovvero il fallito).
Peraltro, salvo diversi accordi tra cedente e cessionario per i loro rapporti interni, la naturale estinzione della obbligazione prevede che su ciascun debitore gravi esclusivamente quella parte del debito maturata sotto la sua gestione del rapporto lavorativo.
La garanzia prestata dalla solidarietà del cessionario per i debiti di lavoro è appunto limitata ad un trattamento di favore per una categoria privilegiata rispetto agli altri terzi creditori.
Al contrario, se il lavoratore non fosse ammesso per la parte del credito maturata con il cedente perderebbe irrimediabilmente il suo credito, per il caso di inadempimento del cessionario rispetto alla quota maturata con il cedente, salva peraltro l’azione di regresso contro il fallimento, nel caso contrario.
Sotto questo profilo l’ammissione parziale in favore dell’odierna opponente per le rate insolute al momento del trasferimento di azienda, sulla quota parte del t.f.r. maturato a quella data, risponde ad una logica di cristallizzazione della garanzia su quella parte del credito, certo e determinato, che potrebbe essere oggetto di riparto e che incombeva certamente sul precedente datore di lavoro obbligato alla trattenuta in busta paga ed al versamento in favore della società finanziaria.

Le rate successive, oltre a gravare in primo luogo sulle retribuzioni mensili corrisposte dal nuovo datore di lavoro obbligato alla relativa trattenuta, non sono nemmeno passibili di ammissione a valere sul t.f.r. ammesso in favore del lavoratore, in quanto si tratta di un diritto di credito non determinabile, perché variante di mese in mese.
Sono prevalenti, piuttosto, le esigenze sottese alla esecutività, definitività e stabilità dello stato passivo, esigenze che non ammettono atipiche pronunce a scopo cautelativo come è quella richiesta.


Sia detto, per inciso, che sarebbe stato necessario integrare il contraddittorio con il lavoratore G. ai sensi dell’art-. 98 comma 4 l.fall., in quanto è chiesta la revocazione della ammissione del suo credito.
Tuttavia la evidente ragione sottesa al rigetto della domanda, lo stato in cui è proceduto il giudizio a fronte del principio della ragionevole durata del processo nonché la considerazione che l’integrazione del contraddittorio determinerebbe, oggi, solo un inutile aggravio di spese e tempi, sono tutti elementi che inducono ad evitare ostacoli alla sollecita definizione del giudizio onde consentire l’intervento del litisconsorte necessario come, peraltro, deciso in numerosi precedenti di legittimità mutatis mutandis (SS.UU. 6828/10, cfr. pure Cass. 2723/10: Il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli art. 175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l'atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso per cassazione prima facie infondato, appare superflua, pur potendo sussistere i presupposti (come nella specie, per inesistenza della notificazione del ricorso nei confronti di alcuni litisconsorti necessari), la fissazione del termine ex art. 331 c.p.c. per l'integrazione del contraddittorio, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell'effettività dei diritti processuali delle parti).”.
Pertanto la domanda deve essere rigettata e le spese di lite seguono la soccombenza non sussistendo gli estremi della temerarietà attesa la particolarità della vicenda.

PQM

Per questi motivi,
il collegio, rigetta la domanda e condanna l’opponente a pagare le spese di lite che si liquidano in complessivi € 3.500,00 oltre spese generali i.v.a. e c.p.a..
Catania, camera di consiglio del 19/10/2017.


 

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