TRIBUNALE DI BRINDISI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Maria Cristina Mattei, ha pronunciato la seguente
SENTENZA CONTESTUALE

nella causa di I Grado iscritta al n. r.g. 2187/2013 promossa da:

(Omissis), rappresentata e difesa, con mandato a margine del ricorso, dall’AVV.
Berloco G.
Ricorrente
CONTRO
Ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca e Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia,
rappresentati e difesi dai funzionari Ostuni L. e Gianniello T.
Resistente
Oggetto: illegittima apposizione termine su contratti a tempo determinato

Svolgimento del processo

Con atto depositato il 14.5.2013, la ricorrente di cui in epigrafe affermava di aver ricevuto incarichi a tempo determinato per lo svolgimento di supplenze su posto vacante e disponibile dall'anno scolastico 2006/2007 fino al 2012/2013. Sosteneva l'illegittimità dell'apposizione del termine ai suddetti contratti e chiedeva che, accertata la nullità della clausola di apposizione del termine, ne fosse dichiarata la conversione in contratto di lavoro a tempo indeterminato, con condanna dell'amministrazione resistente al risarcimento del danno derivante dall'illegittima apposizione del termine ai contratti di lavoro.
Si costituivano il Ministero e l'ufficio scolastico che contestavano le avverse deduzioni rivendicando la legittimità del sistema di reclutamento del personale scolastico e dell'apposizione del termine ai contratti di lavoro stipulati dalla ricorrente e chiedevano il rigetto del ricorso.
La causa veniva istruita con l'acquisizione della documentazione prodotta dalle parti e alla odierna udienza veniva decisa con la seguente motivazione contestuale.

Motivazione

Il ricorso è fondato e merita accoglimento per i motivi e nei termini di seguito esposti.
La ricorrente deduce di avere stipulato contratti a tempo determinato con il Ministero resistente in violazione di norme interpretative, sia sotto il profilo della nullità ab origine dell'apposizione del termine ai contratti, sia sotto il profilo del superamento del limite temporale massimo. Lamenta di essere stata assunta in assenza di specificazione della concreta esigenza posta a base dell'apposizione del termine e deduce inoltre che i periodi di insegnamento espletato superano complessivamente il limite massimo di
trentasei mesi previsto dalla normativa in materia di contratti a termine (art. 5 comma 4 bis del D. Lgs. 368/01).
Tale risultando il tenore delle doglianze della ricorrente, appare opportuno esaminare partitamente le domande formulate in ricorso.

1. Sistema di reclutamento del personale scolastico e conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato: infondatezza.
Ed invero, in ordine alla illegittima stipulazione dei contratti a termine in assenza di specificazione della
causale e alla domanda di conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato, osserva il giudicante come la ricorrente non abbia allegato in giudizio i contratti stipulati con il Ministero mentre dalla documentazione prodotta risulta l'assunzione per supplenze brevi e saltuarie ovvero per servizio annuale.
In ogni caso, per quanto emerge dagli atti, le modalità di assunzione della ricorrente sono conformi alla disciplina di reclutamento del personale scolastico, che prevede il ricorso alle cd. supplenze annuali o temporanee come strumento ordinario per coprire le cattedre ed i posti di insegnamento vacanti. La materia è regolata dall'art. 4 della legge 124/991, in base al quale le supplenze vengono normalmente affidate ai cd. precari, inseriti nelle graduatorie permanenti, successivamente trasformate in graduatorie ad
esaurimento. La normativa di settore prevede l'utilizzo dei supplenti solo con contratti di lavoro a tempo determinato, ancorché finalizzati a soddisfare esigenze stabili e durevoli della P.A., poiché l'assunzione a tempo indeterminato è possibile solo con l'immissione in ruolo. Tale normativa non è mai stata abrogata da norme successive e pertanto deve ritenersi ancora in vigore. In tal senso depone anche l'attuale formulazione dell'art. 10 del D. Lgs. 368/01.
La ricorrente eccepisce l'illegittimità dell'intero sistema legislativo di reclutamento per contrasto - tra l'altro - con l'art. 36, commi 1 e 2, del D. Lgs. 165/01.
L'eccezione è infondata, ove si consideri che la normativa scolastica prevale su quella generale in materia di pubblico impiego, anche se successiva, in virtù del principio di specialità; in tal senso depone anche il tenore letterale dell'art. 70 comma 8 del D. Lgs. 165/01 e le peculiarità del servizio scolastico rendono non irragionevoli tali differenze.
La normativa scolastica non è contraria nemmeno alla normativa in materia di contratti a termine; anzi l'art. 1 del D. Lgs. 368/01 prevede espressamente: "È consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro", e quindi non solo per rispondere ad esigenze temporanee o eccezionali, come previsto invece dall'art. 36 del Testo Unico sul Pubblico Impiego.
Deve dunque ritenersi che anche il sistema delle supplenze, annuali o temporanee, rientri in tale ipotesi di contratti a termine, la cui legittimità è già predeterminata da un sistema normativo complesso e tuttora in vigore, strutturato al fine di evitare che l'insegnamento scolastico subisca interruzioni durante l'anno. In questi casi, l'apposizione del termine non è stata ritenuta priva di causa, trattandosi invece di ipotesi in cui la causa è predeterminata per legge come peraltro ribadito dalla Corte Costituzionale in relazione alla
legittimità di utilizzo di contratti a termine in altri settori nevralgici (trasporto aereo, servizio postale).
Del pari conforme al meccanismo legislativo relativo alle graduatorie ad esaurimento è la reiterazione delle assunzioni nel corso degli anni, con proroghe o rinnovi: anche sotto tale profilo, non si ravvisano concreti profili di illegittimità della normativa, la quale è stata anzi concepita nel senso di favorire la massima ripetizione di assunzioni e rinnovi; da tale meccanismo non discende un danno concreto per i supplenti interessati, per i quali, anzi, ogni periodo lavorato comporta l'aumento del punteggio interno alla graduatoria e, quindi, la progressione nell'ordine di preferenza per le successive assunzioni.
Viene poi eccepita la contrarietà della normativa in questione rispetto alla direttiva n. 70/1999/CE, con particolare riferimento alla clausola 5 - lettere a), b) e c); tale direttiva, tuttavia, prevede l'obbligo per gli Stati membri di adottare almeno una delle misure indicate da tale clausola allo scopo di prevenire gli abusi, senza che sia necessario che le misure siano adottate tutte o anche più di una.
Ne consegue che l'eventuale mancata previsione di una o più di tali misure non determina l'illegittimità della normativa interna, purché sia prevista anche solo una delle misure indicate dal legislatore comunitario.
Quanto, invece, al motivo di censura relativo al superamento del limite dei trentasei mesi previsto dall'art. 5 comma 4 bis del D. Lgs. 368/01, prendendo atto dell'orientamento espresso dalla CGUE nella sentenza Mascolo, del 26.11.2014, e mutando il proprio precedente orientamento (fondato sui principi espressi da Cass. n. 10127/2012 e da Cass. n. 392/2012), ne ritiene il giudice la fondatezza alla luce delle seguenti considerazioni.
Ed invero, l'art. 36 comma 2 D. Lgs. 165/01 stabilisce che i contratti collettivi nazionali provvedono a disciplinare la materia dei contratti di lavoro a tempo determinato in applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368.
Ciò non significa che tutte le norme previste da tale decreto legislativo siano concretamente applicabili nel caso di specie, dovendo verificarsi se vi siano deroghe in base allo stesso decreto legislativo, ovvero in base ad altri atti normativi (quale lo stesso art. 36, al comma 5); la presenza di elementi di specialità legati alle peculiarità di uno specifico settore, tuttavia, non comporta che tale settore sia interamente sottratto alla normativa in materia di contratti a termine.
Con specifico riferimento al pubblico impiego contrattualizzato, la giurisprudenza nazionale è univoca nel senso che i contratti di lavoro a termine stipulati dalla P.A. sono disciplinati sia dal D. Lgs. 368/01, sia dall'art. 36 D. Lgs. 165/01; il primo decreto legislativo, successivo al secondo, non ne ha abrogato le parti contrastanti e, anzi, in caso di contrasto tra le norme citate, prevalgono le previsioni contenute nel D. Lgs. 165/01 in base al principio di specialità (la legge speciale non può essere sostituita da una legge generale
successiva).
Anche con riferimento al diritto comunitario, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è ormai univoca nel senso che anche i contratti di lavoro stipulati con le amministrazioni ed altri enti del settore pubblico rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva n. 70/1999 e, quindi, del D. Lgs. 368/2001 che ha attuato tale direttiva nel diritto nazionale. Ne deriva che anche tali contratti sono soggetti all'art. 5 comma 4 bis D. Lgs. 368/01, che prevede un limite finale complessivo di 36 mesi comprensivi di proroghe e
rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro.
Tale norma vale in generale per tutti i contratti a termine e non trova deroghe, espresse o implicite, nel testo unico sul pubblico impiego. Ciò trova ulteriore conferma nell'art. 36 comma 5 bis del D. Lgs. 165/01, che prevede l'applicabilità - sia pure a determinate condizioni - dell'art. 5 commi 4 quater, 4 quinquies e 4 sexies del D. Lgs. 368/01. Non sussistono concrete ragioni per ritenere il settore scolastico sottratto all'applicazione della suddetta norma, senza che in senso contrario rilevi l'art. 10 comma 4 bis del D. Lgs. 368/01, in base al quale: "Stante quanto stabilito dalle disposizioni di cui all'articolo 40, comma 1, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, e successive modificazioni, all'articolo 4, comma 14-bis, della legge 3 maggio 1999, n. 124, e all'articolo 6, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sono altresi' esclusi dall'applicazione del presente decreto i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze del personale docente ed ATA, considerata la necessita' di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed anche determinato".
Infatti, in primo luogo, il comma è stato aggiunto dall'art. 9, comma 18, del D.L. 13/5/2011, n. 70 e pertanto ha effetto solo per il futuro e non si applica retroattivamente, non risultando pertanto applicabile ratione temporis se non ad alcuni dei contratti stipulati nel caso di specie. In secondo luogo, per come formulata, sorgerebbero seri dubbi di conformità della norma in questione alla direttiva n. 70/1999/CE, e in particolare rispetto alla clausola 5) (intitolata "Misure per la prevenzione degli abusi), la quale prevede espressamente che: "Per prevenire gli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti".
Ove svincolata dall'ambito di applicazione del D. Lgs. 368/01, la materia delle supplenze, per come congegnata, sarebbe priva anche solo di una delle misure previste dalla citata clausola, alle lettere a), b) e c), e sarebbe quindi illegittima per quanto innanzi esposto.
Certamente la tipicità del settore scolastico - ed in particolare "la necessità di garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo anche in caso di assenza temporanea del personale docente ed ATA" - giustifica deroghe al regime generale, ed in particolare giustifica il conferimento delle supplenze annuali in assenza di "ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti" e di un numero massimo di rinnovi dei contratti o rapporti; ciò non implica, tuttavia, che il settore scolastico sia del tutto svincolato dall'ambito di applicazione della direttiva atteso che, in mancanza delle misure di cui alle lettere a) e c) della clausola 5, è necessario che venga adottata quantomeno quella di cui alla lettera b). Al riguardo, si è già evidenziato che il meccanismo è strutturato in materia tale da favorire la ripetizione anno per anno di assunzioni - interruzioni - rinnovi, senza che sia previsto un numero massimo di rinnovi o una durata massima complessiva.
Tenuto conto dei recenti arresti della CGUE e, nello specifico, dei principi affermati dalla sentenza Mascolo del 26.11.2014, deve reputarsi che il meccanismo non sia, di per sé, illegittimo, ma lo diventerebbe se fosse interpretato nel senso di consentire il rinnovo di contratti a termine nel settore scolastico senza alcun limiti temporale, praticamente all'infinito: di qui la necessità di un limite temporale finale e, in assenza di un limite previsto dalla normativa di settore, deve ritenersi applicabile quello generale di trentasei mesi.
D'altra parte, la formulazione dell'art. 10 comma 4 bis induce a ritenere che tale norma non comporti affatto gli effetti dalla stessa dichiarati; infatti, dopo aver esordito con l'esclusione dell'applicazione del presente decreto ai contratti con i supplenti, il comma si conclude prevedendo espressamente che: "In ogni caso non si applica l'articolo 5, comma 4-bis, del presente decreto".
Ciò non determina l'inapplicabilità del limite massimo di 36 mesi (in assenza del quale la normativa sarebbe illegittima per contrasto con la clausola 5 della direttiva), ma unicamente che - in caso di superamento del limite - non si applichi la conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista dalla norma; d'altra parte, ove interpretata in tal senso, la disposizione diventerebbe superflua, in quanto ciò è già previsto dall'art. 36 comma 5 del D. Lgs. 165/01, che - in materia di pubblico impiego - prevede il divieto di tutela in forma specifica, intesa come conversione in rapporto a tempo indeterminato.

Coerente con tale impostazione, non solo la giurisprudenza nazionale, ma anche quella comunitaria, che ha registrato il recentissimo intervento della sentenza Mascolo (Corte di Giustizia dell'UE del 26.11.2014). Quanto alla prima, la Corte di cassazione (Cassazione civile sez. lav. 392/2012; 15 giugno 2010 n. 14350)
ha più volte affermato:
- che in materia di pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'art. 36 del d.lg. n. 165 del 2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla Corte cost. (sent. n. 98 del 2003) e non è stato modificato dal d.lg. 6 settembre 2001 n. 368, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato.
- che, in caso di violazione di norme poste a tutela del diritti del lavoratore, in capo a quest'ultimo, precluso il diritto alla trasformazione del rapporto, residua soltanto la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti; ciò perché il meccanismo della conversione contrasterebbe con il principio costituzionale per il quale l'instaurazione del rapporto di impiego con le pubbliche amministrazioni deve avvenire mediante concorso, principio posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione di cui al primo comma dell'art. 97 Cost., ripetutamente ribadito dalla Corte Costituzionale.
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea, dal canto suo, si è ripetutamente pronunziata sulla compatibilità della normativa nazionale con i principi della direttiva, da ultimo con la menzionata sentenza 26 novembre 2014, ai punti 77-80, affermando che la clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale, come quella dell'art. 36 d. lgs. n. 165 del 2001, la quale, nell'ipotesi di abuso derivante dal ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione da un datore di lavoro del settore pubblico, vieta che questi ultimi siano convertiti in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, quando, tuttavia, l'ordinamento giuridico interno dello Stato preveda, nel settore interessato, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione. La Corte di Giustizia europea ritiene dunque che l'esclusione della conversione del contratto a termine illegittimo nel settore pubblico sia compatibile anche con le previsioni della direttiva n. 70 del 1999, purché si possa applicare "una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell'Unione" ( così anche la sentenza Mascolo al punto 79).
Come è stato precisato ai punti 77 e 78 della sentenza medesima, le misure alternative devono " rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell'accordo quadro" e "non devono essere però meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione (principio di effettività)".
Orbene, il medesimo art. 36 del d.lvo 165/2001 prevede che "Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative" e, non essendovi una previsione di sanzione diversa per il settore scolastico, non possono esservi dubbi sulla sua applicabilità al medesimo.
Nel dare attuazione a tale norma è necessario, da un lato, rispettare le regole dell'ordinamento interno in materia di risarcimento del danno e, dall'altro, il citato principio di effettività.

A tale ultimo riguardo la sentenza del 12 dicembre 2013 causa C-50/13 (Papalia), relativa proprio a questioni concernenti l'art. 36 d. l. vo. 165/2001, ha chiarito che "l'accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell'ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all'obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento
dell'Unione."

Spetta dunque al giudice del rinvio accertare se le condizioni di applicazione nonché l'attuazione effettiva delle pertinenti disposizioni del diritto interno configurino uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare il ricorso abusivo da parte della p.a. a contratti o a rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione.
Già nella sentenza del 4 luglio 2006, relativa al caso Adeneler + 17 concernente il diritto greco, la Corte di Giustizia aveva chiarito che non esiste un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi, precisando che quando il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche per l'ipotesi in cui siano accertati abusi, il legislatore nazionale deve adottare misure adeguate al riguardo, che debbono avere il carattere della proporzionalità e della effettività, sì da dissuadere dalla violazione (principio di effettività) .
La normative di attuazione devono, inoltre, rispettare il principio della equivalenza ovvero non essere meno favorevoli di quelle che disciplinano nel diritto interno situazioni analoghe.
Analoghi i principi affermati dalla Corte di Giustizia con le sentenze del 7 settembre 2006, casi Vassallo / Marrosu e Sardino, in riferimento alla nostra legislazione, nonché con la sentenza 23 aprile 2009, Angelidaki e altri e con le ordinanze Vassilakis e altri 24 aprile 2009, Koukou e 23 novembre 2009, Lagoudakis.
La Corte di Giustizia ha dunque sempre espressamente affermato che la previsione da parte del legislatore nazionale, per il settore pubblico, della esclusione della conversione dei contratti a termine, diversamente dal settore privato, non è contraria alla direttiva europea, a condizione delrispetto dei principi di equivalenza e di effettività della tutela, che deve essere verificato dal giudice nazionale.

Conclusivamente:
1) L'ultimo comma dell'art. 36 del d. l. vo 165/2001 esclude che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, possa comunque comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni.
2) Nel settore scolastico la regola in questione è ribadita dal comma 14 bis dell'art. 4 l. 124/1999 (aggiunto dall'articolo 1, comma 1 del D.L. 25 settembre 2009, n. 134 conv. dalla l. 167/2009) il quale stabilisce che "I contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze previste dai commi 1, 2 e 3, in quanto necessari per garantire la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo, possono trasformarsi in rapporti di lavoro a tempo indeterminato solo nel caso di immissione in ruolo, ai sensi delle disposizioni vigenti e sulla base delle graduatorie previste dalla presente legge e dall'articolo 1, coma 605, lettera c), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni ".
3) La Corte Costituzionale nella sua sentenza n. 89/2003 ha ritenuto legittima la differenziazione di tutela tra dipendente pubblico e privato a fronte di un contratto a termine illegittimo alla luce del principio dell'accesso mediante concorso, enunciato dall'art. 97, terzo comma, della Costituzione, principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni - in quanto posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione - ed invece del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato.
4) La Corte di Giustizia europea ritiene una tale esclusione della conversione nel settore pubblico del contratto a termine illegittimo compatibile anche con le previsioni della direttiva n. 70 del 1999, purché si possa applicare "una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell'Unione" ( così, tra le molte, anche la sentenza Mascolo al punto 79).
Non può pertanto procedersi alla conversione del contratto a tempo determinato in un rapporto di lavoro indeterminato, come invece richiesto da parte ricorrente.


2. Le conseguenze sanzionatorie del ricorso abusivo ad una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Dalle considerazioni svolte non può, tuttavia, trarsi la conseguenza che l'abusivo ricorso al contratto a termine non debba essere sanzionato.
Ed infatti, a parziale modifica del precedente orientamento espresso nella materia che occupa, tenuto conto dei recenti arresti della giurisprudenza sovranazionale (sentenza Mascolo del 26.11.2014) e nazionale (nello specifico Cass. 30.12.2014 nr. 24781), giova osservare come la CGUE nella sentenza Mascolo (e, prima ancora, nell'ordinanza Papalia, Co. Gius. 12.12.2013) abbia preso atto dell'esclusione, nell'ordinamento italiano, per i lavoratori pubblici del settore della scuola, tanto di qualsivoglia diritto al risarcimento del danno, quanto della possibilità di trasformazione del rapporto - a fronte di abusi quali quelli considerati - in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato: l'unica possibilità di arrivare ad una stabilizzazione, per un lavoratore che abbia effettuato supplenze nella scuola pubblica - ed in assenza di concorsi - risiede dunque nella possibile immissione in ruolo
per effetto del progressivo avanzamento in graduatoria, possibilità peraltro del tutto aleatoria e tale da non poter essere considerata una sanzione a carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo (v. i §§ 115-117 della sentenza): da qui il giudizio di non conformità, anche sotto tale profilo, della normativa italiana sottoposta al vaglio della Corte nella sentenza del novembre 2014, non essendo rinvenibile nella stessa alcuna misura capace di prevenire e sanzionare in modo efficace gli abusi relativi alla successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Pertanto, prendendo atto dell'orientamento espresso dalla CGUE nella sentenza del 26.11.2014, sia pure come alternativa "debole" alla stabilizzazione in ruolo, tenuto altresì conto del "combinato disposto" dell'ordinanza Papalia e della sentenza Mascolo, nel caso di successione di contratti a termine nel settore pubblico per un periodo superiore a 36 mesi, configurandosi un abuso in assenza di termini certi per l'indizione di concorsi, ai lavoratori pubblici che siano 'vittime' di un patologico abuso nel tempo del contratto a termine deve riconoscersi un adeguato risarcimento del danno.
2.1. Il danno comunitario.
Ciò chiarito, deve preliminarmente convenirsi sul rilievo che in linea generale nel nostro ordinamento la misura del risarcimento del danno è intesa come misura di riparazione di una perdita effettiva e non come pena privata ovvero misura sanzionatoria della violazione di legge.
Tuttavia, il regime della prova del danno non deve essere tanto rigoroso da rendere eccessivamente difficile - se non praticamente impossibile - la tutela del diritto (principio di effettività della tutela).
Orbene, sostenere che l'abuso del contratto a termine nel pubblico impiego non reca in sé danno al lavoratore - in quanto il dipendente, non essendo assunto per concorso, non avrebbe mai potuto avere alternativamente accesso all'impiego "di ruolo" - rischia di rendere eccessivamente difficile la dimostrazione del danno, in contrasto con il principio di effettività.
Ragionare in tal senso consentirebbe, per paradosso, di ritenere addirittura vantaggioso per il lavoratore l'utilizzo abusivo del contratto a termine, quale unica possibile forma di impiego non - concorsuale. Verrebbe conseguentemente meno anche la effettività della sanzione e la sua dissuasività.

La Corte di legittimità non ha ancora assunto una posizione consolidata sulla questione della sanzione che dovrebbe conseguire alla illegittima apposizione del termine ed in particolare sulla natura della responsabilità, sugli oneri allegatori e probatori del lavoratore, sui criteri per la quantificazione del danno.


Sul punto vi sono stati interventi contraddittori.
Nella sentenza del 13 gennaio 2012 n. 392, ad esempio, la Corte non dubita dell'astratta configurabilità del danno, ma sul fronte della prova in concreto del danno-conseguenza esclude la possibilità di configurare un danno in re ipsa.

In Cass. 23.12.2014 nr. 27363 si afferma: "deve rilevarsi che seppure la disciplina comunitaria impedisca di
rendere eccessivamente difficoltoso al lavoratore illegittimamente assunto a termine da una pubblica amministrazione il diritto ad ottenere il risarcimento dei danni, nella fattispecie difetta, assorbentemente, la prova, anche presuntiva, del danno in tesi subito, dovendosi chiarire che anche in caso di illegittima assunzione a termine da parte di una pubblica amministrazione, il danno non può comunque ritenersi in re ipsa, ma provato, secondo i principi sull'onere probatorio e dunque anche per presunzioni gravi, precise e concordanti..".
Di segno contrario appaiono invece altre sentenze.
Nell'arresto del 21 agosto 2013 n. 19371 la Suprema Corte ribadisce il divieto di conversione ma accoglie il motivo di impugnazione sul mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, liquidando d'ufficio l'indennità forfettizzata ex art. 32, quinto comma, l. n. 183 del 2010, di cui sottolinea la natura di "penale ex lege" a carico del datore di lavoro.
Nella sentenza del 2 dicembre 2013 n. 26951 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità di una pronuncia che aveva riconosciuto un risarcimento del danno in misura di dieci mensilità di retribuzione, in conseguenza della illegittima apposizione del termine ad un rapporto di pubblico impiego, pur senza esprimersi in ordine alla natura di tale risarcimento ed alle problematiche probatorie ad esso connesse; ritenendo corretto" il principio secondo cui il lavoratore che sia stato assunto illegittimamente, ha diritto ad essere risarcito per effetto della violazione delle norme imperative in materia" pare avallare tuttavia la tesi che sia sufficiente la violazione per dar luogo al risarcimento.
Da ultimo, nella sentenza del 30.12.2014 nr. 27481 si afferma:
"fermo restando che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, salva l'applicazione di ogni responsabilità e sanzione — l'art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui prevede "il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative", deve essere interpretato nel senso che la nozione di danno applicabile nella specie deve essere quella di "danno comunitario".
In altri termini, si deve trattare di un risarcimento conforme ai canoni di adeguatezza,effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro — che può provare l'esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall'interessato che possono essere escluse — mentre l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze "falsamente indicate come straordinarie e temporanee" essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)" (in tal senso anche la recentissima Cassazione civile, sez. lavoro, 23.01.2015 n° 1260). La sentenza in commento ribalta la precedente impostazione, facendo leva sulla più volte citata ordinanza "Papalia" della Corte di Giustizia Europea del 12

dicembre 2013 (causa C-50/13), con la quale è stato affermato che gli Stati membri non possono subordinare il risarcimento del danno del lavoratore a termine nel settore pubblico alla fornitura di una prova eccessivamente difficile e puntualizza che deve trattarsi "di un risarcimento conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro - che può provare l'esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall'interessato che possono essere escluse - mentre l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze "falsamente indicate come straordinarie e temporanee". Pertanto, "salva restando la possibilità per il lavoratore di fare ampio uso della prova presuntiva, è sufficiente che il ricorrente fornisca elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell'esistenza di una situazione di abusivo ricorso ai contratti a termine in suo danno, spettando alla amministrazione convenuta l'onere di provare l'insussistenza dell'abuso". La Corte sottolinea altresì che il ristoro del danno "deve essere completo - sia per quanto riguarda il danno da perdita di lavoro inteso in senso ampio sia per quel che concerne gli aspetti retributivi" e "proporzionato alla singola fattispecie". A tal fine, "si dovrà, tra l'altro, tenere conto del numero dei contratti a termine, dell'intervallo di tempo intercorrente tra l'uno e l'altro contratto, della durata dei singoli contratti e della complessiva durata del periodo in cui è stata la reiezione. Ma si dovrà anche considerare il principio di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto (…) quale espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost.".
2.2. La quantificazione del danno.
Procedendo ad esaminare la fattispecie sottoposta al vaglio, deve constatarsi che parte attrice ha posto a fondamento della propria domanda la violazione dell'art. 5 comma 4 bis D. L. vo 368/01, allegando altresì i fatti integranti tale fattispecie (successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti che abbiano complessivamente superato i 36 mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, con violazione del disposto normativo perfezionato con la stipulazione del primo contratto successivo all'entrata in vigore alla l. 247/07 che abbia superato tale limite).
Orbene, reputa il giudicante che la successione di contratti emergente dalla documentazione prodotta consenta di ritenere integrata la previsione normativa sopra indicata.
Si tratta infatti di molteplici contratti di cui alcuni di durata temporanea (si vedano i contratti stipulati nell'a. s. 2007/2008, nell'a. s. 2008/2009 e nell'a. s. 2009/2010, di durata inferiore o superiore al mese e fino a circa tre mesi) e altri aventi durata fino al 31 agosto (si veda il contratto stipulato nell' a. s. 2006/2007, della durata di circa nove mesi) e, dunque, fino al termine dell'anno scolastico; altri ancora sono contratti stipulati, rispettivamente, fino alla nomina dell'avente diritto e fino al termine delle attività didattiche (e, precisamente, quelli stipulati dal 7.10.2013 al 12.12.2014, dal 13.10.2014 al 19.12.2014 e dal 19.12.2014 al 30.6.2015, documentati dalla produzione acquisita alla udienza odierna).

I contratti, complessivamente considerati, coprono un periodo complessivo superiore al limite massimo di "trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l'altro".


Né osta in tal senso il fatto che una parte di tali contratti sia anteriore all'entrata in vigore del comma 4 bis dell'art. 5 D. L. vo 368/2001 (1 gennaio 2008).
Il regime transitorio previsto dall'art. 1 comma 43 l. 24 dicembre 2007 n. 247 stabilisce infatti che "In fase di prima applicazione delle disposizioni di cui ai commi da 40 a 42: a) i contratti a termine in corso alla data di entrata in vigore della presente legge continuano fino al termine previsto dal contratto, anche in deroga alle disposizioni di cui al comma 4-bis dell'articolo 5 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dal presente articolo; b) il periodo di lavoro già effettuato alla data di entrata in vigore della presente legge si computa, insieme ai periodi successivi di attività ai fini della determinazione del periodo massimo di cui al citato comma 4-bis, decorsi quindici mesi dalla medesima data."
Tale previsione non può che essere intesa nel senso che "Nel caso di stipulazione reiterata di contratti a termine, il rapporto si converte a tempo indeterminato se, per effetto della stipulazione di un contratto a termine in data successiva al 31 marzo 2009, il periodo complessivamente lavorato, anche per effetto di contratti a termine stipulati precedentemente, supera il limite massimo di trentasei mesi"(così, Tribunale Milano, sentenza 12.5.2010 F. c. Alitalia ).


Ciò chiarito, per assicurare che il risarcimento del danno assuma i connotati di misura effettiva, adeguata e dissuasiva nei sensi indicati dalla CGUE, reputa il giudicante che al lavoratore che sia stato illegittimamente assunto a termine e non possa neppure giudizialmente ottenere la conversione del contratto in contratto a tempo determinato debba riconoscersi un risarcimento che integri, per un verso, adeguato ristoro del danno consistente nella impossibilità di fruire di una occupazione stabile alle dipendenze della pubblica amministrazione (possibilità invece attribuita ai dipendenti di aziende private assunti a termine illegittimamente) e, per altro verso, una valida misura dissuasiva contro l'abusivo ricorso alle assunzioni a termine.
In ordine alla natura di tale ristoro giova richiamare la già menzionata S.C. (Cass. 30.12.2014 nr. 27481) la quale, sostenendo che "…In altri termini, si deve trattare di un risarcimento conforme ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione da parte della PA di contratti a termine, configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro — che può provare l'esistenza di eventuali ripercussioni negative evitabili dall'interessato che possono essere escluse — mentre l'interessato deve limitarsi a provare l'illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze "falsamente indicate come straordinarie e temporanee" essendo esonerato dalla costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde perceptum)" pare pronunziarsi esplicitamente nel senso che il danno derivante dalla violazione della norma comunitaria ha carattere sanzionatorio e non carattere ripristinatorio, differenziandosi per questo aspetto dalla nozione di risarcimento intesa come riparazione per equivalente di un danno effettivo, da allegare e provare in concreto.
A tale orientamento questo giudice presta adesione, sul rilievo della necessità, in conformità alla normativa europea, di sanzionare l'eventuale accertato utilizzo abusivo di una successione di contratti a termine, ripetutamente affermata dalla Corte di Giustizia.


Per la quantificazione del danno, seppure con riferimento a fattispecie diversa dal precariato scolastico, i giudici di legittimità hanno suggerito (cfr. cit. Cass. nr. 27481/2014), in via tendenziale, l'applicazione dei criteri previsti dall'art. 8 della legge n. 604/1966. Va esclusa invece l'applicazione dei meccanismi forfettari previsti dall'art. 32 della legge n. 183/2010 (c.d. collegato lavoro) e dall'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, in quanto, secondo la Suprema Corte, riguardanti situazioni differenti da quella in esame. E, tuttavia, tale orientamento desta qualche perplessità.
Ed infatti, a parte la scelta del regime forfettario più penalizzante tra quelli citati, l'applicazione dei criteri predetti rischia di negare al lavoratore la possibilità di ottenere un risarcimento "completo" e "proporzionato alla fattispecie", con una evidente disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati. Infatti, a fronte della medesima condotta illegittima, ai secondi spetterebbe, oltre all'indennità forfettaria, anche la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, mentre ai primi verrebbe riconosciuta la sola indennità. Non senza dimenticare che il campo di applicazione dell'art. 8 L. 604/66 è riservato:
- a datori di lavoro di piccole dimensioni, nell'impiego privato
- ovvero a datori di lavoro altrimenti esclusi dall'applicazione dell'art 18 L. 300/70. Difetta, pertanto, il requisito della equivalenza delle situazioni.
Appare pertanto più consono ai criteri dettati dal giudice sovranazionale in tema di effettività e dissuasività del ristoro, optare per una differente forma di risarcimento.
Nell'impiego privato l'art. 32 co. 5 della L 183/2010 prevede, nei casi di accertata illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, tanto la prosecuzione/ trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato quanto il risarcimento del danno subito dal lavoratore, stabilendo che "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilita' dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604".
Una sanzione equivalente nel rapporto di lavoro pubblico deve dunque tenere conto:
- da un parte della componente relativa alla "conversione del contratto" - dall'altra della componente della indennità omnicomprensiva.


1) Sotto il primo profilo il mezzo più appropriato, stante il divieto di conversione di cui all'art. 36 D. l. vo 365/2001, va rinvenuto all'interno dell'art. 18 L. 300/1970 (invece che nel richiamato art. 8 L.604/66), in quanto norma:
- relativa a datori di lavoro che, in relazione al requisito dimensionale, possono essere comparabili ad una pubblica amministrazione;
- applicabile alle pubbliche amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti (art. 51 cpv. d. lgs 165/2001).
Ai sensi dell'art. 18 (commi tre e quattro del testo introdotto dalla legge 92/2012), la indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro è pari a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Il ricorso all'art. 18 si giustifica nei soli limiti della quantificazione ex lege del valore forfettizzato del diritto alla stabilità dell'impiego/prosecuzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato presso un datore di lavoro pubblico.


2) Quanto al profilo indennitario, non si ravvisano invece ostacoli alla quantificazione del risarcimento negli stessi termini indicati nell'art. 32 co. 5 legge 183/2010. Ed anzi, va sottolineato che anche tale norma prevede un meccanismo forfettizzato di liquidazione che presume una misura minima del danno e fissa parametri di quantificazione (quelli dell'art. 8 L. 604/66) che prescindono dalla perdita patrimoniale concreta del lavoratore, in quanto hanno riguardo a dati oggettivi (le dimensioni dell'impresa e la anzianità di servizio del lavoratore) o - quando si riferiscono a dati soggettivi (comportamento e condizioni delle parti) - pongono sullo stesso piano le diverse posizioni del datore di lavoro e del lavoratore - danneggiato.
Sicché il danno comunitario ai sensi dell'art. 36 D. l. vo 165/2001 può essere individuato sommando alle 15 mensilità sostitutive della reintegra - di cui all'art. 18 L. 300/70 - la indennità di cui all'art. 32 L. 183/2010.


Poste tali premesse, nella specie, stante la durata del periodo di servizio prestato, superiore ai trentasei mesi per come non specificamente contestato e pari a circa quattro anni, appare congruo liquidare la indennità nella misura di 3 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

Non possono invece riconoscersi ulteriori forme di risarcimento (differenziale sulle retribuzioni, danno non patrimoniale, scatti di anzianità ecc.).
Premesso infatti, con specifico riferimento agli scatti di anzianità che larga parte della giurisprudenza (Cass. Sez. Lav. 8060/2011; Cass. Sez. Lav. 10127/2012; da ultima la recentissima Corte Appello Roma 6.3.2015) ha escluso la fondatezza del relativo diritto per il personale supplente, va comunque rimarcato che il danno di cui all'art. 32 co. 5 L. 183/2010 è una indennità ONNICOMPRENSIVA, il che equivale a dire che il legislatore ha predeterminato ex lege una indennità forfettaria integralmente riparatoria del danno, da un lato presumendo in via assoluta il suo verificarsi - e così esonerando il lavoratore dal relativo onere della prova- dall' altro, tuttavia, impedendo di provare danni eccedenti la misura massima forfettariamente fissata.

Tale meccanismo di riparazione, ritenuto conforme a costituzione, deve essere applicato anche al lavoratore pubblico, in ragione della necessità della equivalenza delle tutele.
Quanto agli accessori, non trova applicazione la disciplina di cui all'articolo 22, comma 36, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 relativa "agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale" dei pubblici dipendenti laddove la attuale condanna ha carattere risarcitorio.
Deve piuttosto considerarsi che i meccanismi forfettari di liquidazione adottati prevedono una quantificazione del danno già attualizzata alla data della sentenza.
Per il periodo successivo alla sentenza sono dovuti gli interessi legali, secondo la disciplina comune delle obbligazioni di valuta.
Le spese di giudizio si compensano per la novità e complessità delle questioni trattate e per il notorio contrasto di orientamento esistente nell'ambito della giurisprudenza.

PQM

Il Tribunale, definitivamente pronunziando sul ricorso proposto con atto depositato il 14.5.2013, respinta ogni diversa istanza, deduzione, eccezione, così provvede:

1. Accoglie la domanda e per l'effetto condanna il Ministero della Istruzione al risarcimento del danno in favore di parte ricorrente nella misura complessiva di 18 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi legali dalla data della presente pronunzia al saldo.
2. Rigetta per il resto il ricorso
3. Spese compensate.
Brindisi, 7.7.2015
Il Giudice del Lavoro
Dott. Maria Cristina Mattei


 

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