REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE ROBERTO Giovanni - Presidente -
Dott. MARASCA Gennaro - rel. Consigliere -
Dott. ROMIS Vincenzo - Consigliere -
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere -
Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere -
Dott. PAOLONI Giacomo - Consigliere -
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere -
Dott. CASSANO Margherita - Consigliere -
Dott. MARINI Luigi - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. Curatela Fallimento Uniland s.p.a.;
2. Curatela Fallimento Housebuilding s.p.a.;
avverso l'ordinanza del 18/02/2014 del Tribunale di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal componente Gennaro Marasca;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
uditi per le ricorrenti gli avvocati Giorgi Costantino e Carlo Enrico Paliero, che hanno concluso chiedendo l'annullamento dell'ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo

1. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna, con ordinanza del 4 maggio 2012, disponeva in danno, fra gli altri, di Uniland s.p.a. e Housebuliding s.p.a. il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, di ingenti somme di danaro ai sensi degli artt. 19 e 53 del decreto legislativo n. 231 del 2001; per Uniland veniva ipotizzato (capo di imputazione F-bis) l'illecito di cui all'art. 25 ter, lett. l), del predetto decreto, ovvero la violazione dell'art. 2632 c.c., - formazione fittizia di capitali - mentre per Housebuilding era contestata la violazione della lett. r), dello stesso decreto (capo di imputazione R), ovvero l'aggiotaggio. I reati-presupposto sarebbero stati commessi dagli organi apicali delle due società.
Il Tribunale del riesame di Bologna, con ordinanze del 29 giugno 2012, annullava i decreti di sequestro preventivo per la ritenuta causa di esonero da responsabilità prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 2, ovvero per non avere le due società ricavato alcun profitto dalle operazioni incriminate poste in essere ad esclusivo vantaggio degli indagati, vertici apicali delle stesse.
Tali decisioni, su ricorso del Pubblico Ministero, venivano annullate dalla Corte di cassazione, Sesta Sezione penale, con sentenze del 22 maggio 2013, per erronea applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, citato art. 5, comma 2, essendo stato ritenuto ravvisabile nella vicenda, insieme all'interesse delle persone fisiche indagate al conseguimento di benefici personali, un concorrente vantaggio dell'ente determinato dall'incremento artificioso del capitale, e per non aver considerato la c.d. confisca in funzione di riequilibrio di cui all'art. 6, comma 5, del Decreto n. 231 del 2001, consentita anche in caso di esclusione di responsabilità amministrativa dell'ente.

Sennonchè, pochi giorni prima - 16 aprile 2013 - della decisione della Cassazione la Uniland e la Housebuilding erano ammesse al concordato preventivo; ciò induceva il Pubblico Ministero a modificare, nel corso dell'udienza preliminare del giorno 1 giugno 2013, le imputazioni nei confronti degli indagati, ai quali veniva contestata la violazione della L. Fall., art. 236, comma 2, n. 1, e art. 223, comma 2, sul presupposto che la commissione dei reati societari contestati - violazione degli artt. 2621, 2622 e 2632 c.c. - aveva concorso a cagionare il dissesto, ed a lasciare invariati i capi di incolpazione - F-bis e R - nei confronti delle due società.

2. Il 22 luglio 2013 il Tribunale del riesame di Bologna, quale giudice di rinvio, ripristinava il sequestro preventivo in danno delle due società ritenendo irrilevante l'ammissione delle stesse al concordato preventivo ed il conseguente mutamento delle imputazioni a carico degli organi apicali delle stesse. In particolare il Tribunale rilevava che il capo F-bis era rimasto immutato e che, pertanto, la responsabilità dell'ente - Uniland - era riconducibile sempre all'art. 2632 c.c., in applicazione del principio di autonomia della responsabilità dell'ente di cui al più volte richiamato D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8.

3. In data 1 agosto 2013 le due società venivano dichiarate fallite dal Tribunale di Bologna ed il Pubblico Ministero, all'udienza del 28 gennaio 2014, precisava di nuovo le imputazioni a carico degli indagati organi apicali delle società, ai quali veniva contestata la violazione della L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1.
Le ordinanze di ripristino del sequestro preventivo emesse dal Tribunale del riesame il 22 luglio 2013 venivano impugnate, con ricorso per cassazione, dalle curatele delle due società fallite, le quali presentavano anche una istanza al G.i.p. del Tribunale di Bologna di revoca del sequestro.
La Seconda Sezione penale della Corte di cassazione, con sentenze del 15 aprile 2014, rigettava i ricorsi, ritenendo infondati i motivi concernenti la pretesa insussistenza del profitto confiscabile.
La sentenza Uniland non affrontava i problemi posti dai fatti sopravvenuti, ed in particolare le conseguenze della dichiarazione di fallimento e del conseguente mutamento delle imputazioni agli indagati organi apicali delle due società, la caducazione del titolo di reato legittimante la responsabilità dell'ente, nonchè la tutela effettiva dei terzi creditori di buona fede, sostenendo che gli stessi erano stati tardivamente dedotti e si sarebbero dovuti far valere mediante apposita istanza di revoca.
La sentenza Housebuilding sembrava, invece, rinviare la decisione sui diritti dei terzi in buona fede al momento della disposizione della confisca, visto che proprio alla decisione di confisca il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, ricollega la clausola di salvezza dei diritti acquisiti dai terzi, in modo da poter tenere conto anche degli esiti della procedura concorsuale.

4. Intanto prima di queste due ultime decisioni della Corte di cassazione, il G.i.p. del Tribunale di Bologna, con provvedimento del 20 dicembre 2013, accoglieva l'istanza di revoca del sequestro proposta dalle curatele perchè gli effetti del sequestro erano garantiti dalla procedura fallimentare; il G.i.p., inoltre, demandava agli organi del fallimento l'accertamento della possibile mancanza di buona fede dei creditori insinuati.
Il G.i.p., richiamando alcuni principi dettati in tema di rapporti tra sequestri/confisca e procedure concorsuali dalla sentenza Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, rilevava che nel caso di specie il sequestro non era finalizzato ad impedire la circolazione di un bene intrinsecamente illecito, cosicchè non poteva escludersi che l'intervento della procedura fallimentare potesse costituire un fatto sopravvenuto determinante il venir meno delle condizioni di applicabilità della misura; d'altra parte si poteva anche ritenere che il risultato del sequestro - spossessamento del reo del profitto dell'illecito -potesse essere raggiunto con uno strumento diverso quale l'apertura della procedura fallimentare.
Infine il Tribunale di Bologna, quale giudice di appello del provvedimento di revoca del sequestro del G.i.p., accoglieva, con l'ordinanza del 18 febbraio 2014, l'impugnazione del Pubblico Ministero e disponeva il ripristino della misura cautelare reale.
Il Tribunale, in particolare, rilevava la inidoneità della procedura fallimentare ad assorbire la funzione della misura cautelare reale e poneva in evidenza la sub-valenza delle ragioni dei terzi creditori rispetto alle esigenze di tutela della collettività; ricordava, infine, il Tribunale, la natura obbligatoria dei sequestri, e della conseguente confisca, di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19. Non discuteva, invece, il Tribunale le questioni relative alla caducazione dei reati legittimanti il sequestro a seguito della modifica delle imputazioni perchè non devolute al G.i.p. con la istanza di revoca.

5. Avverso quest'ultima ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione le curatele delle società Uniland e Housebuilding, tramite gli avvocati Carlo Enrico Paliero e Giuseppe Costantino, ed hanno dedotto la violazione di legge - violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), - sotto vari profili che di seguito verranno sommariamente illustrati.
Ulteriori argomenti a sostegno dei motivi dedotti sono contenuti nella memoria difensiva depositata il 24 luglio 2014.

5.1. Con il primo motivo di ricorso è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 2, 5, 19 e 53, nonchè art. 25 Cost., e art. 321 c.p.p., commi 1 e 2, perchè erroneamente era stata ritenuta la responsabilità dell'ente in difetto di un reato presupposto - essendo stato il capo F modificato a seguito della dichiarazione di fallimento delle società - e per essere stato applicato il sequestro ad una fattispecie che non lo consente - bancarotta societaria -. Si rilevava, inoltre, che la pretesa intempestività della denuncia di tale vizio era insussistente perchè la modifica della imputazione di cui al capo F, da violazione dell'art. 2632 c.c., a bancarotta di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, era intervenuta all'udienza del 28 gennaio 2014, ovvero dopo la presentazione dell'istanza di revoca, e che, comunque, la verifica del sopravvenuto venir meno di una condizione genetica di legittimità della misura era doverosa per il giudice della impugnazione.
E' doveroso ricordare che mentre il capo F, contestato agli organi apicali della società, era stato modificato nel senso innanzi indicato, il capo F-bis, contestato alla Uniland e che rimanda al capo F, non era stato modificato, cosicchè in tale ultimo capo di imputazione non vi è più alcun riferimento ad un reato societario, essendo stato quest'ultimo assorbito nel reato fallimentare; ed appare anche opportuno ricordare che mentre i reati societari rientrano nell'elenco dei reati-presupposto che consentono di verificare e ritenere la responsabilità dell'ente, i reati fallimentari non sono compresi nel predetto elenco di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter.
Infine le ricorrenti rilevavano l'erroneo richiamo al principio di autonomia delle sanzioni dell'ente di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8; bisogna, però, rilevare che il richiamo a tale principio non è contenuto nella ordinanza impugnata, ma in altro precedente provvedimento - ordinanza del Tribunale del riesame del 22 luglio 2013 -, costituente oggetto di diverso procedimento incidentale.

5.2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 22, 34, 35 e 50, nonchè artt. 273 e 321 c.p.p., per essere stato adottato il sequestro sul presupposto di illeciti amministrativi collegati a ipotesi di reato prescritte.
La mancanza delle condizioni di applicabilità delle misure imporrebbe, ai sensi dell'art. 45, del decreto citato, dettato, per precisione, per le misure interdittive, ma ritenuto applicabile dai ricorrenti anche a quelle ablatorie, la revoca del sequestro.
La prescrizione riguarderebbe alcune operazioni di formazione fittizia di capitale ed alcune manovre di aggiotaggio, con conseguente riduzione del quantum sequestrabile.

5.3. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187, e successive modifiche (T.U.I.F.) e art. 2641 c.c., che subordinano l'adozione della confisca per equivalente alla individuazione di un profitto confiscabile.

5.4. Con il quarto motivo di ricorso, infine, le ricorrenti hanno dedotto la violazione del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, per l'omesso giudizio di bilanciamento fra le ragioni del fallimento, e segnatamente quelle dei creditori di buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato.
Secondo le società ricorrenti, una volta dichiarato il fallimento, la pretesa ablatoria dello Stato non entrerebbe più in conflitto con l'autore del reato, ma con la garanzia patrimoniale dei creditori e con l'interesse pubblico all'esercizio dell'impresa.
Il problema, che deve essere risolto con un bilanciamento tra le divergenti esigenze dinanzi indicate, consiste nella esigenza che non si arrechi un pregiudizio ai creditori in buona fede e di evitare che, mediante le procedure concorsuali e liquidative, l'autore del reato o l'ente rientrino in possesso del profitto illecito.
Secondo le ricorrenti le fonti normative che impongono il predetto bilanciamento andrebbero ricercate nella clausola di salvaguardia dell'art. 19 - "salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede" - del D.Lgs. n. 231 del 2001, nel coordinamento delle norme del citato decreto con la L. Fall., artt. 51 e 168, disposizioni che non consentono azioni cautelari ed esecutive dei singoli in pendenza della procedura fallimentare, e nella più recente legislazione antimafia, secondo la quale è prevalente l'aggiudicazione del bene nell'ambito della esecuzione singolare sulla misura di prevenzione.
Siffatta interpretazione troverebbe conferma nella sentenza delle Sezioni Unite Focarelli del 2004, citata, che ha sancito la prevalenza della confisca soltanto quando si tratti di cose intrinsecamente pericolose.
La confisca, anche per equivalente, D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, pur essendo obbligatoria, non ha per oggetto cose intrinsecamente pericolose, dal momento che la sua funzione è quella di uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo, che finirebbe in caso contrario per conseguire un profitto geneticamente illecito (così Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Italimpianti).
Ne consegue che alla confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, non dovrebbe essere applicato il principio dettato dalla richiamata sentenza Focarelli, in tema di sequestro funzionale alla confisca obbligatoria della res intrinsecamente pericolosa, ma quello dettato per l'ipotesi di sequestro funzionale alla confisca facoltativa, "secondo il quale è consentito il sequestro preventivo alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza dell'impresa dichiarata fallita, a condizione che il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare" (così la sentenza Focarelli cit.).

6. Su richiesta delle curatele ricorrenti, che hanno denunciato contrasti della giurisprudenza di legittimità in ordine ai problemi posti con l'ultimo motivo di ricorso, il Primo Presidente, con decreto in data 6 maggio 2014, ha fissato l'odierna udienza dinanzi alle Sezioni Unite per la discussione della causa.
Si è ritenuto riscontrabile un contrasto di giurisprudenza in ordine alla necessità di procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni della curatela fallimentare, e segnatamente dei creditori in buona fede, e la pretesa punitiva dello Stato prima di disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, con specifico riferimento alla ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, con riguardo ai beni acquisiti o acquisibili alla massa attiva di un fallimento 7. Il Procuratore generale di udienza, nel concludere per il rigetto dei ricorsi, ha sostenuto che per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale deve limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale.

Le difese delle società ricorrenti, sottolineata la legittimazione delle curatele ad impugnare il provvedimento di sequestro D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, comma 2, hanno, nel ritenuto necessario rapporto di comparazione tra la pretesa punitiva dello Stato ed i diritti dei terzi garantiti dalla procedura fallimentare, sostenuto la prevalenza delle ragioni del fallimento ed hanno insistito per l'annullamento dei provvedimenti di ripristino del sequestro del tribunale del riesame di Bologna.

Motivazione

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni Unite può essere così riassunta: "Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 19, comma 2, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest'ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (c.d. codice antimafia)".

Va peraltro subito avvertito che interferiscono con tale tematica i problemi, della legittimazione e dell'interesse concreto del curatore fallimentare a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19; i quali sono da risolvere precisando quale sia il rapporto, alla luce della legislazione vigente in materia, tra la procedura fallimentare ed i provvedimenti di sequestro e confisca adottati ai sensi del citato art. 19.

2. Prima di affrontare detti problemi, è tuttavia opportuno prendere le mosse, per la sua diretta riferibilità alla natura degli addebiti su cui si fonda il provvedimento impugnato, dalla questione posta con il primo motivo, che, pur essendo fondata, non può condurre, per le ragioni che in seguito saranno esposte, all'accoglimento dei ricorsi.
Tale questione attiene alla dedotta mancanza di un reato presupposto, a seguito della modifica del capo F della rubrica, riferito alla posizione della Uniland, da reato societario a bancarotta impropria societaria determinata dalla apertura prima della procedura di concordato preventivo e poi dalla declaratoria di fallimento della predetta società, necessario per disporre il sequestro.
Il problema non riguarda la Housebuilding, perchè il capo R contestato alla società è rimasto invariato, come pure il capo Q - aggiotaggio societario - che costituisce il delitto presupposto.
Quanto alla Uniland, il capo F contestato agli indagati veniva modificato dal P.M. dopo la dichiarazione di fallimento della società in bancarotta societaria e, tra le altre violazioni si specificava che la condotta era diretta anche a commettere il reato sub N, ovvero la manipolazione del mercato, reato quest'ultimo, però, mai specificamente contestato alla Uniland, perchè il capo F- bis attribuito alla società contestava il reato di cui all'art. 2632 c.c. - formazione fittizia di capitale - e conteneva un generico richiamo al capo F. In ogni caso e senza alcuna pretesa di completezza, che non sarebbe nemmeno opportuna, tenuto conto del tenore della decisione, sembra il caso di porre in evidenza che la giurisprudenza, con il consenso unanime della Dottrina, ha individuato, nell'interpretare il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 2, - secondo il quale "l'ente non può essere ritenuto responsabile per un fatto costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto" - oltre alle norme che contengono l'elenco dei reati presupposto che legittimano l'affermazione di responsabilità degli enti, la necessità di un doppio livello di legalità.
E' necessario, cioè, che il fatto commesso dagli organi apicali dell'ente sia previsto da una legge entrata in vigore prima della commissione dello stesso e che tale reato sia previsto nel tassativo elenco dei reati presupposto, dai quali soltanto può derivare la responsabilità amministrativa dell'ente, previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001.

Questa interpretazione appare corretta perchè dal complesso delle norme del D.Lgs. n. 231 del 2001, emerge che il sistema italiano, a differenza di altri ordinamenti giuridici, non prevede una estensione della responsabilità da reato alle persone giuridiche di carattere generale, coincidente cioè con l'intero ambito delle incriminazioni vigenti per le persone fisiche, ma limita detta responsabilità soltanto alle fattispecie penali tassativamente indicate nel decreto stesso.
Una tale impostazione è stata seguita dalla Terza Sezione penale (sent. n. 41329 del 07/10/2008, Galipò, Rv. 241528) in tema di reati ambientali prima che ad alcuni di essi venisse collegato l'illecito amministrativo dell'ente con il D.Lgs. 7 luglio 2011, n. 121, ed è stata confermata dalle Sezioni Unite (sent. n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, Rv 258646) in tema di reati tributari non previsti nei tassativi elenchi del più volte citato decreto 231 del 2001 (vedi anche per una particolare applicazione del principio indicato Sez. 6, n. 3635 del 20/12/2013, Riva Fi.Re s.p.a., Rv. 257789).
Con più specifico riferimento alla vicenda Uniland, di particolare interesse è una decisione della Suprema Corte (Sez. 2, n. 41488 del 29/09/2009, Rimoldi) che ha escluso che in caso di ritenuto reato complesso si potesse scomporre tale reato al fine di fare derivare, da una parte artificialmente separata della condotta posta in essere ed isolatamente riguardata, quelle conseguenze sanzionatorie che solo da essa, e non invece da quella globalmente considerata dalla legge, conseguirebbero.
Una siffatta operazione - nel caso considerato si versava in ipotesi di truffa aggravata in danno dello Stato e frode fiscale e si era ritenuta la prevalenza per specialità di tale ultimo reato non previsto nel catalogo dei reati presupposto - si tradurrebbe, invero, nella applicazione di una misura sanzionatoria per una ipotesi criminosa che non la contempla, con conseguente violazione del principio di stretta legalità, che contraddistingue anche l'ordinamento della responsabilità degli enti.
Quella esaminata dalla Seconda Sezione è certamente una ipotesi analoga a quella in discussione perchè il delitto di bancarotta impropria societaria assorbe il reato societario - nel caso di specie manipolazione del mercato, peraltro mai contestato all'ente, al quale, invece, era stato contestato il reato di formazione fittizia di capitale - ed assume una connotazione del tutto propria e particolare, essendo necessario che quella condotta abbia cagionato o aggravato il dissesto della società dichiarata fallita.

Peculiarità a cui non sfugge, come è stato efficacemente sottolineato (vedi Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, Baraldi, Rv. 252804) nemmeno l'elemento psicologico perchè in tema di bancarotta societaria, il dolo presuppone una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico.
Le specificità e peculiarità del delitto di bancarotta societaria, che assorbono completamente il reato societario, non consentono l'ardita operazione di scomposizione della condotta di bancarotta contestata per far derivare dal reato societario, compreso nel catalogo dei reati presupposto a differenza della bancarotta societaria, la responsabilità amministrativa della società.
Nè a risultati diversi si potrebbe pervenire facendo riferimento al principio di autonomia della responsabilità degli enti sancito dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 8, principio non affermato nel provvedimento impugnato, ma nell'ordinanza del 20 luglio 2013 del Tribunale di Bologna, pure pronunciata nei confronti della Uniland, ma costituente oggetto di diverso procedimento incidentale.
Il citato articolo 8, in effetti, non consente la divaricazione tra il delitto contestato alla persona fisica e quello chiamato a fungere da presupposto della responsabilità amministrativa dell'ente.
Tale norma, infatti, si limita soltanto a prevedere l'insensibilità del processo contra societatem alla mancata identificazione o alla non imputabilità della persona fisica e all'estinzione del reato- presupposto per causa diversa dall'amnistia.
Insomma l'importante è che un reato di quelli compreso nel catalogo dei reati presupposto sia stato accertato e sia riferibile ad uno dei soggetti indicati dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, anche se poi manchi o sia insufficiente la prova della responsabilità individuale di uno di tali soggetti.
Il riferimento al principio di autonomia della responsabilità degli enti è, quindi, destituito di fondamento.


3. Venendo ora al denunciato contrasto in ordine al rapporto tra i provvedimenti di sequestro e confisca del profitto del reato e procedura fallimentare quando i provvedimenti di sequestro/confisca riguardino beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, deve rilevarsi che, come messo in evidenza dai ricorrenti, esso appare effettivamente apprezzabile sulla base del panorama giurisprudenziale.

3.1. La sentenza Focarelli delle Sezioni Unite, n. 29951 del 24/05/2004, esaminando il caso di un sequestro preventivo disposto in funzione della confisca facoltativa prevista dall'art. 240 c.p., comma 1, sul profitto di delitti tributari e truffe ai danni dello Stato commessi in forma organizzata, affrontò la questione così enunciata, oggetto di un contrasto di giurisprudenza: "se sia consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell'indagato e di pertinenza di impresa dichiarata fallita".

Le Sezioni Unite risolsero il contrasto escludendo, pur in mancanza di una previsione legislativa, la radicale insensibilità del sequestro alla procedura concorsuale, affidando al potere discrezionale del giudice la conciliazione dei contrapposti interessi, ovvero di quelli propri della tutela penale (impedire che i proventi di illecito potessero giovare all'indagato) e di quelli tipici della procedura concorsuale (tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare).
Quindi, secondo la sentenza Focarelli, il sequestro penale non sarebbe precluso a condizione che il giudice dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori.
A fondamento della decisione la sentenza poneva alcune condivisibili considerazioni sul rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti dalla procedura concorsuale, come è lecito desumere anche dalla Relazione ministeriale alla legge fallimentare, e sul ruolo del curatore fallimentare, quale emerge dalle fonti del suo potere, dalle finalità istituzionalmente collegate al suo agire e dai controlli che presidiano la sua attività gestoria, che non deve essere considerato, quindi, come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei creditori, ma piuttosto come organo che svolge una funzione pubblica nell'ambito della amministrazione della giustizia, incardinato nell'ufficio fallimentare a fianco del tribunale e del giudice delegato.
Inoltre la sentenza Focarelli rilevava che non è possibile, in linea astratta, escludere che lo spossessamento determinato dalla procedura concorsuale assorba la funzione del sequestro preventivo penale, che è quella di evitare che il reo resti in possesso delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il profitto, contemperandola con la garanzia dei creditori sul patrimonio dell'imprenditore fallito.
Istanza quest'ultima alla quale non può essere indifferente l'ordinamento penale (come rilevato non solo dalla citata sentenza, ma anche da autorevoli precedenti, quali Sez. U, n. 9 del 18/05/1994, Comit Leasing s.p.a. in proc. Longarini e Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti) quando la presunzione di pericolosità sottesa alla misura di sicurezza inerisca non alla cosa illecita in sè ma alla relazione che la lega al soggetto che ha commesso il reato.

Nell'esaminare, poi, le diverse ipotesi di sequestro e confisca, la sentenza Focarelli escludeva che in ipotesi di confisca obbligatoria vi fossero margini di discrezionalità per il giudice, e chiariva che le finalità del fallimento non sono in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro prevalendo la esigenza preventiva "di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato; sicchè le ragioni di tutela dei terzi creditori sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della collettività".

3.2. Ma le conclusioni della sentenza Focarelli, che, come si è già notato, si era occupata di una ipotesi di confisca facoltativa e, comunque, non attinente alla confisca prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, lungi dal risolvere il contrasto giurisprudenziale, hanno posto i presupposti per altro ed ancor più delicato contrasto.
Ed, infatti, la conclusione, che, comunque, costituiva un obiter rispetto al thema decidendum, in ordine alla insensibilità della confisca obbligatoria agli interessi dei creditori e, quindi, alla procedura concorsuale sembrava essere attenuata dal riferimento, in un successivo passaggio della motivazione, alla necessità "di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente pericoloso".
Ora è noto che dal legislatore sono previste ipotesi di confisca obbligatoria - uno dei casi è proprio quello della confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, come meglio si dirà - che non hanno per oggetto cose intrinsecamente pericolose, ovvero gli oggetti di cui all'art. 240 c.p., comma 2, n. 2.
Si è verificata, pertanto, una divaricazione tra chi ha ritenuto che le Sezioni Unite avessero inteso legare il principio della insensibilità assoluta al fallimento alla configurazione legislativa, facoltativa o obbligatoria, della confisca, o avessero, invece, tenuto conto della natura, intrinsecamente pericolosa o meno, del bene che ne forma oggetto.

3.3. Senza alcuna pretesa di completezza, anche perchè, come si vedrà, la soluzione del problema avverrà per ragioni diverse da quelle che hanno originato il contrasto di giurisprudenza, appare opportuno dare conto della giurisprudenza formatasi sul punto.
Stando a un indirizzo, che ben può ritenersi prevalente, ciò che conta al fine di stabilire la insensibilità o meno al fallimento della confisca è la natura della res.
Secondo la sentenza Sorrentino (Sez. 3, n. 20443 del 02/02/2007, Rv 236846) pronunciata in tema di sequestro finalizzato alla confisca D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12 sexies, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, la funzione della confisca obbligatoria prevista dalla norma citata è simile a quella della confisca facoltativa di cui all'art. 240 c.p., comma 1, perchè si vuole impedire che il reo possa commettere ulteriori reati; quindi non trattandosi di res pericolose in sè bisogna tenere conto della procedura concorsuale di analogo rilievo pubblicistico; naturalmente vi è la necessità che il curatore fallimentare agisca con particolare rigore, essendo poi il giudice a compiere le necessarie valutazioni in ordine alla effettiva compatibilità tra le esigenze della prevenzione penale ed il concreto svolgimento della procedura concorsuale.

La sentenza Arconte (Sez. 1, n. 20216 del 01/03/2013, Arconte, Rv 256256), sempre in materia di confisca ex art. 12 sexies, segue l'indirizzo della Sorrentino, precisando che il giudice, nel compiere le sue valutazioni, deve acquisire la ragionevole certezza che attraverso la procedura concorsuale i cespiti non rientreranno nella diretta o indiretta disponibilità del condannato.
Prescindendo dalle particolarità del caso trattato e dal riferimento alla disciplina delle fasi di gestione e liquidazione del patrimonio aziendale confiscabile e confiscato contenuta nel ed codice antimafia, la sentenza Lu.fra trasporti s.r.l. (Sez. 6, n. 49821 del 17/10/2013, Rv 258579) pronunciata in tema di prevenzione antimafia si muove nel solco della sentenza Sorrentino.

La sentenza Grassi, pronunciata in tema di sequestro e confisca per equivalente ex artt. 322 ter e 640 quater c.p., (Sez. 2, n. 31990 del 14/06/2006, Rv 235129), dopo avere confermato il principio dettato dalla sentenza Focarelli che in caso di confisca obbligatoria il sequestro di cose pericolose è insensibile al fallimento, ha precisato che il profitto diretto del reato è insensibile al fallimento trattandosi di beni oggettivamente pericolosi data la loro pertinenza al reato, mentre la confisca per equivalente va trattata come la Focarelli tratta la confisca facoltativa trattandosi di una misura sanzionatoria consistente in un prelievo pubblico a compensazione di un profitto illecito.
Di grande rilievo è poi l'affermazione della sentenza Grassi secondo cui la pretesa dello Stato deve trovare tutela nell'ambito della procedura fallimentare per il rilievo pubblicistico degli interessi perseguiti da tale procedura.
Si tratta certamente di pronunce di interesse, ma che riguardano materie affini e non direttamente i provvedimenti di sequestro e confisca adottabili ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19.

3.4. Due sentenze della Quinta Sezione penale, invece, si occupano specificamente del sequestro per equivalente disciplinato dal citato art. 19.
La prima (Sez. 5, n. 33425 del 08/07/2008, Fazzalari, Rv 240559) segue l'indirizzo della Focarelli precisando che i beni oggetto di confisca per equivalente non sono intrinsecamente pericolosi e che spetta, quindi, al giudice dare conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle che implicano la tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare.
La sentenza Fazzalari afferma, inoltre, che la confisca per equivalente prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, diversamente da quella del profitto diretto di cui al primo comma sarebbe prevista come facoltativa in virtù del termine "può" contenuto nella disposizione.
Quest'ultima costituisce affermazione isolata e non condivisibile perchè, a tacere di altri pur importanti argomenti, di cui poi si dirà, il dato lessicale "può" valorizzato dalla sentenza segnala non la facoltatività o discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta e alla necessità di individuare altri beni appartenenti all'ente responsabile.

Di grande interesse è la seconda sentenza della Quinta Sezione (n. 48804 del 09/10/2013, Cur. Fall. Infrastrutture e servizi, Rv 2577553) che trova le ragioni del necessario bilanciamento delle esigenze di tutela penale e quelle dei creditori nel dettato del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, che fa salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede; ebbene - ha affermato tale sentenza - terzo in buona fede rispetto alle vicende personali del fallito è certamente il curatore, come pure i creditori insinuati.
L'interesse della sentenza è costituto dal corretto tentativo di trovare la soluzione del problema nella disposizione normativa specifica che disciplina l'istituto della confisca in danno degli enti, mentre non appare condivisibile, come meglio si dirà, la drastica affermazione che il curatore ed i creditori insinuati siano i terzi in buona fede indicati dalla norma per il semplice fatto che essi non sono certamente titolari di "diritti acquisiti sui beni".

3.5. A tale prevalente indirizzo se ne è contrapposto altro che, nel disciplinare i rapporti tra sequestro/confisca e fallimento ha, invece, dato rilievo alla natura della confisca.
Su questa linea si sono espresse essenzialmente tre pronunce
: le prime due (Sez. 6, n. 31890 del 04/03/2008, Bruno, Rv 241013; e Sez. 1, n. 16783 del 07/04/2010, Profilo, Rv 246994), in materia di prevenzione antimafia, affermano che la res confiscabile è per presunzione assoluta pericolosa perchè frutto di attività illecita, cosicchè, trattandosi di confisca obbligatoria, se ne deve affermare la insensibilità al fallimento in attuazione del principio dettato dalla più volte citata sentenza Focarelli; la seconda sentenza, poi, dopo aver negato al curatore fallimentare dell'impresa alla quale appartengono i beni confiscabili il diritto di intervenire nel procedimento di prevenzione patrimoniale, ha riconosciuto allo stesso la possibilità di proporre incidente di esecuzione avverso il provvedimento di sequestro.

La terza decisione ascrivibile a tale minoritario indirizzo è stata, invece, pronunciata proprio in tema di sequestro disposto ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001 (Sez. 6, n. 19051 del 10/01/2013, Curatela fall. Soc. Tecno Hospital s.r.l., Rv 255255).
Tale decisione, dopo avere riconosciuto alla confisca del profitto nei confronti dell'ente la natura di sanzione principale ed autonoma anche quando si tratti di confisca per equivalente di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ed averne, conseguentemente, affermato la obbligatorietà, trattandosi di profitto ottenuto illecitamente in quanto derivante da reato, ha dichiarato, in ossequio all'obiter della sentenza Focarelli, la assoluta insensibilità del sequestro finalizzato a confisca obbligatoria alla procedura fallimentare.

4. Per risolvere i problemi derivanti dal rapporto tra il sequestro/confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, e la procedura fallimentare è necessaria una impostazione diversa da quella seguita dalla sentenza Focarelli, che fondava le sue conclusioni sul presupposto, non condivisibile, della mancanza di disposizioni legislative in materia e sulla necessità, comunque, di contemperare le differenti e, per molti aspetti ritenute contrastanti, esigenze della tutela penale e dei legittimi diritti dei creditori.
Ed infatti non può parlarsi di assenza di disciplina, perchè, quantomeno per le ipotesi di sequestro/confisca in danno degli enti, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, se approfonditamente analizzato, nella sua lettera e nella sua logica, consente sia una ricostruzione precisa dell'istituto del sequestro/confisca, sia una armonica soluzione del rapporto tra tale istituto e la eventuale procedura fallimentare a carico dell'ente.

Conviene, per esigenze di chiarezza e più rapida intelligenza dei problemi, riportare il testo del citato art. 19: "1. Nei confronti dell'ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato. Sono fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede. - 2. Quando non è possibile eseguire la confisca a norma del comma 1, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato".

4.1. Dalla lettura del testo emergono immediatamente con tutta evidenza la natura della confisca, così come configurata dal citato art. 19, e la stretta connessione funzionale tra la misura cautelare reale del sequestro e la confisca.
Il sequestro, previsto dall'art. 53, in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, è disciplinato, infatti, in prospettiva della futura confisca, anche per equivalente, del prezzo e del profitto del reato.
Si tratta di un connessione funzionale tra la misura cautelare reale e la confisca simile a quella disciplinata dall'art. 321 c.p.p., comma 2 bis, e, quindi, il regime del sequestro - obbligatorio o facoltativo - segue quello della confisca; è necessario, pertanto, esaminare brevemente tale ultimo istituto.
La confisca disciplinata dal decreto legislativo n. 231 del 2001 è una vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma, come è stato chiarito dalla giurisprudenza (ex multis Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Impregilo-Fisia Impianti; Sez. 2, n. 9829 del 16/02/2006, Miritello, Rv 233373; Sez. 6, n. 34505 del 31/05/2012, Codelfa) e dalla prevalente dottrina, quando venga disposta in danno di un ente ritenuto responsabile di un illecito amministrativo dipendente da reato; del resto è lo stesso D.Lgs. n. 231 del 2001, che all'art. 9, comma 1, lett. c), attribuisce natura sanzionatoria alla confisca.
Il più volte citato decreto, invero, dando attuazione alla Convenzione OCSE 17/12/1997 che all'art. 2, obbligava gli Stati aderenti ad assumere "le misure necessarie a stabilire la responsabilità delle persone morali" ha introdotto nel nostro ordinamento uno specifico e, per molti aspetti, innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi superando il tradizionale principio societas delinquere et puniri non potest; ne è derivata la individuazione di originali sanzioni interdittive, pecuniarie ed ablatorie, che fossero in stretto rapporto funzionale con la responsabilità accertata.
Restando nei limiti di ciò che è strettamente necessario alla presente decisione, bisogna ricordare che il sistema sanzionatorio previsto per gli enti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, fuoriesce dagli schemi tradizionali incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie e mira a stabilire uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare.
Rapporto quest'ultimo ravvisabile, quindi, non solo per la confisca del prezzo e del profitto del reato, ma anche per quella di valore prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, perchè, come efficacemente è stato rilevato (Sez. U, Impregilo - Fisia Italimpianti, già citata), "la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato - presupposto, i cui effetti - appunto economici - sono comunque andati a vantaggio dell'ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire un profitto geneticamente illecito".

La qualificazione della confisca come sanzione principale è certamente innovativa, dal momento che nel nostro sistema ordinamentale era stata, e lo è tuttora, variamente qualificata.
Se il codice Zanardelli, infatti, la elencava tra gli "effetti penali della condanna", il codice Rocco la cataloga, con la previsione dell'art. 240 c.p., tra le misure di sicurezza patrimoniali, e la fonda, come precisato dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 1 del 22/01/1983, Costa) sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati.
Successivamente sono state introdotte nell'ordinamento ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato; e sempre con l'obiettivo di impedire che l'autore del reato potesse godere del profitto dello stesso il legislatore ha, poi, previsto numerose ipotesi di confisca per equivalente nei casi in cui non fosse possibile aggredire il profitto diretto del reato. La natura sostanzialmente sanzionatoria della confisca per equivalente risulta, quindi, evidente.
Va comunque detto che nello stesso testo legislativo sulla responsabilità degli enti la confisca assume funzioni diverse e, quindi, deve essere in diverso modo qualificata: se quella indicata dall'art. 9, comma 1 del citato decreto in relazione all'art. 19, si atteggia non solo per la espressione letterale usata dal legislatore, ma anche per la già descritta funzione sanzionatoria e specialpreventiva che alla stessa è demandata, come vera e propria sanzione amministrativa conseguente ad un reato, a quella prevista dall'art. 6, comma 5, del decreto in esame applicabile in ipotesi di assenza di responsabilità dell'ente, ad esempio, non può essere riconosciuta una funzione sanzionatoria proprio per la mancanza di responsabilità dell'ente.

4.2. L'applicazione della sanzione della confisca del prezzo o del profitto del reato prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, commi 1 e 2, non è lasciata alla discrezionalità del giudice, ma è obbligatoria.
E', infatti, la legge che esplicitamente prevede che nei confronti dell'ente "è sempre disposta... la confisca del prezzo o del profitto del reato"; l'espressione letterale adoperata dal legislatore non si presta ad alcun equivoco: una volta accertato il reato presupposto e stabilita la responsabilità dell'ente, il giudice deve confiscare il prezzo e/o il profitto del reato.
D'altronde una tale soluzione discende dai principi generali, nel senso che una volta accertata la responsabilità di una persona per il reato contestatogli il giudice non può, nel nostro sistema penale - e la responsabilità degli enti è in buona sostanza modellata su quella penale - omettere di applicare la sanzione prevista dal codice o dalle leggi speciali, essendo la sua discrezionalità limitata alla sola misura della sanzione da infliggere al colpevole.
Del resto non conviene insistere sul punto perchè dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere l'obbligatorietà della sanzione della confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, quando sia stata accertata la responsabilità dell'ente.

4.3. Qualche incertezza si è avuta soltanto per la ipotesi prevista dal più volte citato art. 19, comma 2, ovvero per la confisca di valore equivalente al prezzo o al profitto quando non sia possibile eseguire la confisca del profitto immediato.
La disposizione, che riproduce analoghe forme di confisca per valore introdotte nel nostro sistema per i reati contro la pubblica amministrazione - art. 322 ter c.p., - e per i delitti di truffa in danno dello Stato o di altri enti pubblici - art. 644 quater c.p. - (Sez. 6, n. 19051 del 10/01/2013, Curatela fall. Soc. Tecno Hospital, Rv 255255 ha sottolineato la perfetta omogeneità funzionale tra la confisca per equivalente contra societatem e quelle previste dal codice penale dagli artt. 322 ter, 640 quater e 644 c.p.), prevede senz'altro una ipotesi di confisca obbligatoria, come chiarito dalla giurisprudenza maggioritaria di legittimità e dalla unanime dottrina, fatta salva una opinione contraria.

L'equivoco è stato introdotto, come si è già notato, da una sentenza (Sez. 5, n. 33425 del 08/07/2008, Fazzalari), che per giustificare, o meglio nel tentativo di rinvenire un fondamento normativo alla ritenuta necessità di un raffronto tra le esigenze sanzionatorie e quelle dei creditori in ipotesi che i beni da sottoporre a sequestro facessero parte della massa attiva di una procedura concorsuale, ha ritenuto che il termine "può", utilizzato dal legislatore all'art. 19, comma 2, Decreto n. 231 del 2001, stesse ad indicare la facoltatività della confisca di valore da tale norma prevista.
L'interpretazione della sentenza Fazzalari non appare corretta perchè, sotto il profilo lessicale il termine "può", come è già stato posto in evidenza, segnala, non la facoltatività o la discrezionalità, ma il carattere eventuale della confisca per equivalente in relazione alla non scontata sussistenza dei due presupposti attinenti alla impossibilità di procedere alla confisca diretta del profitto ed alla necessità di individuare altri beni appartenenti all'ente responsabile.
Inoltre, sotto un profilo sistematico, proprio la confisca di valore ha chiari connotati sanzionatori, cosicchè sarebbe davvero singolare che alla affermazione di responsabilità dell'ente non seguisse, come doveroso, la prevista sanzione; la finalità del legislatore è, invero, quella di ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato, finalità che verrebbe frustrata dall'interpretazione in discussione, risultando favoriti gli enti più capaci di alienare e/o dissimulare i beni, e comunque, ì proventi illecitamente acquisiti.

Per concludere sul punto si deve, pertanto, ritenere che sia la confisca prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 1, sia quella di valore prevista dal comma 2, dello stesso articolo siano vere e proprie sanzioni principali ed obbligatorie (vedi sul punto, tra le tante, Sez. 6, n. 14973 del 18/03/2009, Azzano, Rv 243507; Sez. 2, n. 28683 del 09/07/2010, Battaglia, Rv 247670; Sez. U, Impregìlo-Fisia Impianti del 2008, citata; Sez. 6, Curatela fall. Soc. Tecno Hospital del 2013, citata).

4.4. In virtù del già sottolineato stretto rapporto di connessione funzionale tra il sequestro preventivo e la confisca previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2001, similmente a quanto previsto dall'art. 321 c.p.p., comma 2 bis, il sequestro ha lo stesso regime di obbligatorietà della confisca.

5. Proseguendo nell'analisi del testo dell'art. 19, del decreto più volte citato, si rileva che la confisca del prezzo o del profitto del reato viene disposta dal giudice con la sentenza di condanna. Sarà, quindi, il giudice della cognizione penale che disporrà la confisca con la sentenza di condanna e, di regola, il giudice per le indagini preliminari che disporrà il sequestro preventivo delle cose confiscabili.
Il legislatore pone, però, dei limiti importanti alla confisca, ancorchè obbligatoria, e, conseguentemente, anche al sequestro, perchè intende far salvi i diritti del danneggiato dal reato ed i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
La clausola di salvaguardia non è ripetuta nel D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, comma 2, ma è fuori contestazione che essa si riferisca anche al sequestro di valore perchè con il secondo comma si estende soltanto la possibilità di confisca di danaro e beni di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato, fermi restando, quindi, i limiti fissati dal comma 1 dello stesso articolo.
Tralasciando la ovvia disposizione della restituzione della parte dei beni confiscabili che va disposta in favore del danneggiato dal reato presupposto, di interesse per la soluzione del problema proposto è la disposizione che fa salvi "i diritti acquisiti dai terzi in buona fede".
La logica evidente del legislatore è che gli enti resisi responsabili di illeciti amministrativi derivanti da reato debbano essere perseguiti e puniti con la confisca degli illeciti proventi al fine di ristabilire il turbato equilibrio economico, ma che ciò non possa e non debba avvenire in pregiudizio di terzi che siano titolari di diritti acquisiti in buona fede sui beni oggetto di sequestro e confisca.

Si tratta, pertanto, di diritti acquisiti dai terzi sui beni provento dell'illecito - "la confisca del prezzo o del profitto del reato" -, non estendendosi la confisca al patrimonio dell'impresa alla stregua di una pena patrimoniale; l'espressione letterale usata dal legislatore e la logica del sistema, che vuole salvaguardare, dal sequestro prima e dalla confisca poi, provvedimenti che intendono ristabilire l'ordine economico turbato dalla illecita attività dell'ente, soltanto i diritti dei terzi gravanti sui beni oggetto dell'apprensione da parte dello Stato, rendono certi che salvaguardato è il diritto di proprietà del terzo acquisito in buona fede, oltre agli altri diritti reali insistenti sui predetti beni, mobili o immobili che siano. Del resto la norma non parla di salvaguardia dei diritti di credito eventualmente vantati da terzi proprio perchè si intendono salvaguardare soltanto i beni, che seppure siano provento di illecito, appartengano - "cose appartenenti", secondo l'espressione usata dall'art. 240 c.p., comma 3, - a terzi estranei al reato, o meglio all'illecito commesso dall'ente.

E' il giudice penale che, nel disporre il sequestro o la confisca, dovrà valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede; e in caso di esito positivo di tale verifica il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non sarà sottoposto nè a sequestro nè a confisca. Si approfondirà in seguito il concetto di buona fede, essendo per il momento sufficiente avere stabilito che spetta al giudice penale della cognizione la valutazione sulla titolarità o meno del diritto del terzo, oltre che in ordine alle modalità della acquisizione del diritto, essendo fatti salvi esclusivamente i diritti acquisiti in buona fede.

Siffatta conclusione trova fondamento nella lettera della legge, che non demanda a nessun altro giudice la valutazione del buon diritto del terzo, oltre che nella logica, perchè non può essere che il giudice che deve, per disposizione di legge, disporre la confisca, e/o il sequestro, che dovrà indicare i beni sui quali dovrà essere apposto il vincolo; nel compiere tale operazione il giudice dovrà escludere dalla sottoposizione a sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede.
Non vi è alcuna ragione, nè normativa, nè logica per ritenere che la valutazione del buon diritto del terzo spetti ad altro giudice che non sia quello al quale è demandato il compito di giudicare l'ente ed eventualmente, in caso di affermazione della responsabilità, infliggergli la sanzione prevista dalla legge.

5.1. Può accadere, però, che il terzo, che pure sia titolare di un diritto, non abbia modo, per varie ragioni - anche semplicemente per non essere al corrente del procedimento in corso in danno dell'ente - di far valere la propria pretesa dinanzi al giudice della cognizione.
In tal caso il terzo dovrà rivolgere istanza al giudice dell'esecuzione penale, che ha una competenza generale, come meglio si preciserà in seguito, sulla esecuzione dei provvedimenti definitivi adottati dal giudice della cognizione penale, ed in particolare sulla validità del titolo che legittima l'esecuzione.
Non vi può essere dubbio che il sequestro o la confisca disposti su beni appartenenti al terzo, che li abbia acquisiti in buona fede, non possono produrre effetti ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, che salvaguarda i diritti dei terzi; quindi il titolo non potrà essere ritenuto valido e sarà il giudice dell'esecuzione competente a provvedere.

5.2. Può, altresì, accadere che nel corso del procedimento teso ad accertare la responsabilità dell'ente, quest'ultimo venga dichiarato fallito o ammesso ad altra procedura concorsuale; ed è ciò che è esattamente accaduto nel caso in discussione, perchè nel corso del procedimento sia la Uniland sia la Housebuilding sono state prima ammesse al concordato preventivo e poi dichiarate fallite.
Deve escludersi che il fallimento della società determini l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001, come, invece, era stato sostenuto da una parte della giurisprudenza di merito (Trib. Roma, 07/02/2012, Ariolli); la giurisprudenza di legittimità (vedi tra le altre Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, dep. 2013, Franza, Rv. 254326, Sez. 5, n. 47171 del 02/10/2009, Vanuzzo, n. m.; e, principalmente, Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, Magiste International s.a., Rv. 253482, che ha criticato la contraria giurisprudenza di merito con molteplici e convincenti argomenti) ha, infatti, rilevato che il fallimento non è normativamente previsto quale causa estintiva dell'illecito dell'ente e non è possibile assimilare il fallimento della società alla morte del reo perchè una società in stato di dissesto, per la quale si apra la procedura fallimentare, non può dirsi estinta, tanto è vero che il curatore ha esclusivamente poteri di gestione del patrimonio al fine di evitare il depauperamento dello stesso e garantire la par condicio creditorum mentre la proprietà del patrimonio compete ancora alla società.
A prescindere da questo problema, sul quale non conviene insistere perchè la impostazione della sentenza Magiste International è condivisa anche dalla dottrina e non presenta contrasti nella giurisprudenza di legittimità, e a prescindere anche dai problemi creati dalla necessità di aver dovuto precisare i capi di imputazione contestati ai vertici apicali delle due società, accusati di essere responsabili del reato o dei reati presupposto, in conseguenza dell'ammissione prima al concordato preventivo e poi della dichiarazione di fallimento - modifica delle imputazioni dalla contestazione di reato societario a bancarotta societaria -, sui quali già si è detto in precedenza, ciò che rileva è che nel caso di specie i beni appartenenti alle due società sono stati acquisiti alla massa attiva fallimentare.
Su detti beni già gravava, come si è già ampiamente esposto, il vincolo imposto dal sequestro, anche per equivalente, adottato dal competente giudice per l'udienza preliminare ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, artt. 19 e 53.

Da questa situazione è sorto il problema del rapporto tra i due vincoli e di quale dei due dovesse prevalere sul presupposto, implicito e non dimostrato, che non fosse consentito apporre due vincoli diversi sugli stessi beni.

5.3. Tale erroneo presupposto, però, non trova alcuna giustificazione: non vi è, infatti, alcuna norma che vieti l'apposizione di più vincoli sugli stessi beni e la logica del sistema, al contrario, consente e prevede l'apposizione di più vincoli.
La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che è ben possibile disporre il sequestro su beni sui quali sia già stato apposto tale vincolo in altro procedimento penale e con riferimento più specifico alla ipotesi di beni facenti parte della massa del fallimento ha stabilito che il sequestro preventivo nel corso di un procedimento per bancarotta fraudolenta per distrazione dei beni del fallito è legittimo quando il pericolo derivante dalla libera disponibilità delle cose sottratte o delle risorse economiche frutto della loro alienazione presenti i requisiti della concretezza ed attualità, nel senso che in seguito alla consumazione del reato possano prodursi conseguenze ulteriori (Sez. 5, n. 8468 del 24/01/2005, Rv. 231176; Sez. 5, n. 42235 del 30/09/2010, Rv. 248888; si veda anche Sez. 3, n. 20443 del 02/02/2007, Rv. 236846, in tema di sequestro preventivo D.L. 8 giugno 1992, n. 306, ex art. 12 sexies, convertito con modifiche dalla L. 7 agosto 1992, n. 356, su beni facenti parte della massa attiva di un fallimento).

6. Ritornando al problema che ci occupa, bisogna osservare che le finalità dei due vincoli - quello imposto dall'apertura della procedura fallimentare e quello derivante dal sequestro e/o dalla confisca - sono, invero, del tutto differenti e tra loro non confliggenti.

6.1. Il sequestro dei beni D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, mira a preservare i beni che si presume siano stati acquisiti illecitamente dall'ente e che possano, in caso di riconosciuta responsabilità dello stesso, essere oggetto di confisca, da sparizioni ed occultamenti; come è stato efficacemente rilevato da parte della dottrina il sequestro in discussione presenta analogie con il sequestro conservativo penale perchè posto a tutela dei beni sui quali possa essere esercitata la pretesa dello Stato in caso di condanna dell'ente.
Se questa è la finalità dell'istituto è del tutto ovvio che in nessun caso lo Stato può rinunciare alla apposizione del vincolo, neppure in caso di apertura di una procedura concorsuale.

6.2. Il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura di una procedura concorsuale ha una indubbia rilevanza pubblica, come del resto è lecito desumere dalla relazione ministeriale alla legge fallimentare, perchè mira a spossessare il fallito o la società fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, ad evitare ulteriori depauperamenti del patrimonio stesso, a garantire la par condicio creditorum.
Si tratta di finalità di indubbio rilievo pubblicistico che meritano considerazione e tutela.
Del resto il curatore, come messo in evidenza dalla giurisprudenza civilistica oltre che da quella penale (vedi Sez. U, Focarelli del 2004, citata), non può essere considerato come un soggetto privato che agisca in rappresentanza o sostituzione del fallito e/o dei singoli creditori o del comitato dei creditori, ma deve essere visto come organo che svolge una funzione pubblica ed affianca il tribunale ed il giudice delegato per il perseguimento degli interessi dinanzi indicati.
Si tratta, quindi, di procedure essenziali, con indubbi profili di interesse pubblico, per il raggiungimento dei fini innanzi precisati; di conseguenza anche il vincolo apposto sui beni del fallito in occasione dell'apertura di una procedura concorsuale è indispensabile e non può essere eluso.

6.3. Orbene i due vincoli possono coesistere e, se correttamente interpretato il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, l'uno non ostacola l'altro, anzi, sotto certi profili, si può dire che il sequestro prima e la confisca poi tutelano in misura rafforzata gli interessi del ceto creditorio.
E' proprio l'art. 19, infatti, che legittima una tale soluzione quando, nel disporre che in caso di confisca debbano essere salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede, non pone alcun limite temporale alla prova della acquisizione del diritto, nel senso che non è vero che la titolarità del diritto al terzo debba essere riconosciuta prima che venga disposta la confisca; può benissimo accadere, infatti, che al terzo venga riconosciuta l'acquisizione in buona fede del diritto dopo che sia stata disposta la confisca (si veda ad esempio la situazione del terzo che, per ragioni varie, non abbia fatto valere il proprio diritto nell'ambito del procedimento di cognizione e prima che venisse disposta la confisca dei beni dell'ente trattata nei paragrafi precedenti); anche in siffatta situazione deve essere salvaguardato il diritto del terzo.
Tale ultima ipotesi è proprio quella che si verifica in caso di apertura della procedura fallimentare, venendo il diritto del terzo riconosciuto soltanto alla chiusura della procedura fallimentare, come meglio si dirà.
Quella proposta è l'unica interpretazione possibile della norma perchè quella contraria sarebbe affetta da incostituzionalità perchè la salvaguardia dei diritti del terzo sarebbe ancorata ad un dato incerto e casuale, ovvero al momento della chiusura della procedura concorsuale; i terzi in buona fede sarebbero soddisfatti se essa avvenga prima della condanna dell'ente, con la conseguente ed inevitabile confisca dei beni non di pertinenza dei terzi, perchè in tal caso il giudice della cognizione ha il dovere di salvaguardare i loro diritti, che sarebbero, invece, ingiustificatamente sacrificati se il riconoscimento del diritto a conclusione della procedura fallimentare si verificasse in un momento successivo alla condanna dell'ente.

E', infatti, evidente che coloro che si insinuano nel fallimento vantando un diritto di credito non possono essere ritenuti per tale solo fatto titolari di un diritto reale sul bene ai sensi e per gli effetti previsti dall'art. 19 del decreto sulla responsabilità degli enti, perchè sarà proprio con la procedura fallimentare che, sulla scorta delle scritture contabili e degli altri elementi conoscitivi propri della procedura, si stabilirà se il credito vantato possa o meno essere ammesso al passivo fallimentare.
Il curatore nel contempo individuerà tutti i beni che debbono formare la massa attiva del fallimento, arricchendola degli eventuali esiti favorevoli di azioni revocatorie, e soltanto alla fine della procedura si potrà, previa vendita dei beni ed autorizzazione da parte del giudice delegato del piano di riparto, procedere alla assegnazione dei beni ai creditori.
E' soltanto in questo momento che i creditori potranno essere ritenuti titolari di un diritto sui beni che potranno far valere nelle sedi adeguate.

6.4. Una tale ricostruzione degli istituti del sequestro/confisca di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, e della procedura fallimentare, e della ritenuta compatibilità della apposizione dei due vincoli sugli stessi beni, trova conforto anche nella disposizione dell'art. 27, comma 2, del citato decreto, secondo la quale "i crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell'ente relativi a reati hanno privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti da reato. A tale fine la sanzione pecuniaria si intende equiparata alla pena pecuniaria".
Ciò significa che se venga disposta la confisca dei beni in pendenza di una procedura fallimentare sugli stessi, lo Stato potrà insinuarsi nel fallimento per far valere il proprio diritto, che sarà soddisfatto dopo che siano stati salvaguardati i diritti dei terzi acquisiti in buona fede.
Come ha spiegato la giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 44824 del 2012, Magiste International s.a., cit.), la disposizione dell'art. 27 citato, infatti, "non può non riferirsi anche all'azione endo-fallimentare, che costituisce la forma prevalente di fruizione dell'azione esecutiva indirizzata agli imprenditori collettivi".
Nemmeno è di ostacolo a tale impostazione la disposizione prevista dal D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53, comma 1 bis, secondo la quale in caso di sequestro (ex art. 19, del decreto citato) di società, aziende e beni il custode amministratore giudiziario ne consente l'utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali; si tratta di una norma che persegue finalità simili a quelle di cui all'art. 15 del medesimo decreto in ipotesi di applicazione di misure interdittive e mira a mantenere e preservare il valore dell'azienda.
Ebbene, quando la società venga dichiarata fallita e gli organi societari vengano sostituiti nella gestione patrimoniale dal curatore fallimentare, è a quest'ultimo che il custode giudiziario consentirà l'utilizzo e la gestione dei beni aziendali; il curatore, che tra i suoi compiti ha anche quello di preservare il patrimonio societario, gestirà lo stesso secondo le norme previste dalla legge fallimentare.

6.5. La sede adeguata ove far valere i diritti del terzo non potrà essere, nella ipotesi dinanzi indicata, che quella dell'incidente di esecuzione.
Infatti, come si è già notato, il legislatore ha demandato al giudice penale che deve disporre il sequestro dei beni D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, e/o la confisca degli stessi l'onere di salvaguardare i diritti dei terzi acquisiti in buona fede; quindi è il competente giudice della cognizione penale che prima di disporre il sequestro e/o la confisca dovrà valutare se la titolarità del bene sia stata acquisita dal terzo in buona fede.
Quando, però, sia stata pronunciata sentenza definitiva di condanna dell'ente e sia stata disposta la confisca dei beni appartenenti allo stesso, il giudice competente a decidere sulla istanza del terzo non potrà che essere il giudice dell'esecuzione penale, che, ai sensi dell'art. 665 c.p.p. e ss., è chiamato a risolvere, su istanza delle parti interessate, tutte le questioni che attengono alla esecuzione dei provvedimenti giudiziari definitivi.
Del resto a tale conclusione è già pervenuta la giurisprudenza di legittimità, che, dopo avere rilevato in linea generale che la verifica dei diritti dei terzi in buona fede spetta al giudice penale, come si desume con chiarezza del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, (Sez. 2, n. 25201 del 12/03/2013, dep. 2014, Fall. Housebuilding), ha precisato che le sue ragioni il terzo può farle valere in sede di esecuzione (Sez. 2, n. 10471 del 12/02/2014, Italfondiario s.p.a.) in base alle disposizioni di cui agli artt. 674 e 667 c.p.p..

Si può certamente concordare con tale indirizzo perchè, a prescindere dal non convincente richiamo all'art. 674 c.p.p., che si riferisce alle ipotesi di revoca della sospensione condizionale della pena, nonchè dell'indulto, dell'amnistia e della grazia condizionati, esso si fonda sul principio generale che l'esecuzione della pena è possibile, come si è già accennato, in caso di validità del titolo esecutivo; cosicchè, se viene riconosciuto il diritto del terzo su un bene che deve essere salvaguardato a norma di legge, il titolo che legittima la confisca in relazione a quel bene non avrà più validità e dovrà essere revocato.

Su tale indirizzo in realtà non vi sono contrasti nella giurisprudenza di legittimità, perchè le sentenze richiamate, oltre a molte altre, che esplicitamente riconoscono soltanto al terzo, nei confronti del quale la sentenza irrevocabile non fa stato, la possibilità di far valere davanti al giudice dell'esecuzione i diritti vantati su un bene confiscato con sentenza irrevocabile (ex multis Sez. 1, n. 3311 del 11/11/2011, dep. 2012, Lonati, Rv. 251845; Sez. 1, n. 27201 del 30/05/2013, Cali, Rv. 257599; Sez. 3, n. 23926 del 27/05/2010, Baraldi, Rv. 247797) si muovono nel solco segnato da due decisioni delle Sezioni Unite (n. 9 del 18/05/1994, Comit Leasing in proc. Longarini e n. 9 del 28/04/1999, Bacherotti).

7. La questione del giudice competente a verificare la titolarità del diritto del terzo e l'acquisizione dello stesso in buona fede merita però un ulteriore approfondimento perchè la difesa delle due ricorrenti, come risulta dai motivi di ricorso prima riportati, ha sostenuto che l'accertamento dei diritto del terzo compete al giudice fallimentare, in applicazione analogica di quanto previsto in materia di prevenzione antimafia, e che la buona fede deve essere presunta ai sensi dell'art. 1147 c.c., comma 3.
La tesi delle società ricorrenti non è condivisibile, oltre che per tutte le ragioni già indicate, anche per la seguente considerazione.
L'applicazione della disciplina dettata in tema di misure di prevenzione, la quale, secondo le ricorrenti, prevede che il profitto del reato è comunque destinato alla soddisfazione dei creditori e che alla verifica dei crediti provvede in ogni caso il giudice delegato al fallimento, in materia di confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, in pendenza di procedura fallimentare sollecitata dalle ricorrenti non è possibile per assenza dei presupposti che legittimano il ricorso alla interpretazione analogica.
Ciò sia perchè si tratta di istituti differenti nelle finalità e nelle modalità applicative, dovendosi, peraltro, ravvisare un carattere di specialità della disciplina del procedimento di prevenzione (vedi Sez. 2, n. 10471 del 12/02/2014, Italfondiario s.p.a., Rv 259348), sia perchè, come si è dimostrato nei paragrafi precedenti, non è ravvisabile una vera e propria lacuna normativa colmabile attraverso l'interpretazione analogica in materia di sequestro/confisca D.Lgs. n. 231 del 2001, ex art. 19, e rapporti di tale istituto con la procedura fallimentare.

Siffatta considerazione consente di non approfondire la normativa del c.d. codice antimafia sul punto.
Sarà, pertanto, il giudice penale in sede di cognizione e/o di esecuzione che dovrà verificare, oltre la titolarità del diritto, anche l'acquisizione in buona fede dello stesso.

8. Secondo le ricorrenti, in applicazione dell'art. 1147 c.c., comma 3, "la buona fede è presunta e basta che vi sia stata al momento dell'acquisto" perchè la regola giurisprudenziale che fa carico al creditore di dimostrare la sua buona fede troverebbe giustificazione nel solo contesto delle misure antimafia, ove è ragionevole chiedere a chi abbia relazioni economiche con il mafioso di conoscerne la natura.

Anche tale tesi non è fondata.
In effetti sul punto non vi sono contrasti nella giurisprudenza di legittimità, che ha seguito gli insegnamenti della citata sentenza Sez. U, n. 9 del 1999, Bacherotti, indirizzo al quale questa Corte intende dare continuità.
E' necessario, invero, prendere le mosse dal concetto di terzo, i cui diritti vengono salvaguardati dal legislatore prevalendo anche sulla sanzione della confisca.
Terzo è la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità (Sez. 2, n. 11173 del 14/10/1992, Tassinari, Rv 193422; Sez. 3, n. 3390 del 19/01/1979, Ravazzani, Rv 141690, secondo le quali non può considerarsi estraneo al reato il soggetto che da esso abbia ricavato vantaggi e utilità); soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l'insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca.
Del resto una tale impostazione è confortata anche dalla Corte costituzionale che, nel dichiarare la incostituzionalità delle disposizioni che regolano la confisca di opere di interesse artistico o storico esportate abusivamente (L. 1 giugno 1939, n. 1089, art. 66, e L. 25 settembre 1940, art. 116, comma 1, trasfuso nel D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 301, comma 1) ha escluso la compatibilità con l'art. 27 Cost., comma 1, di norme che prevedono la confisca anche quando le cose risultino di proprietà di chi non sia autore del reato "o non ne abbia tratto in alcun modo profitto" (sent. n. 2 del 1987).
La sentenza Bacherotti ha poi precisato che al requisito oggettivo integrato dalla non derivazione di un vantaggio dall'altrui attività criminosa, deve aggiungersi la connotazione soggettiva della buona fede del terzo, intesa come "non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato"; soluzione anche questa confortata dalla Corte costituzionale (Corte cost., n. 229 del 1974; n. 259 del 1976; n. 2 del 1987) che aveva dichiarato l'incostituzionalità delle norme che prevedevano il sacrificio del diritto dei terzi sulle cose utilizzate da altri per il contrabbando, ancorchè ai primi non fosse imputabile un difetto di vigilanza (vedi anche Corte cost., n. 1 del 1997).
Si tratta di considerazioni del tutto ragionevoli che meritano di essere condivise e che costituiscono ulteriore argomento a favore della competenza in materia del giudice penale, dal momento che deve essere accertata la "estraneità" del terzo al reato nel senso dinanzi precisato.

Da quanto detto risulta che il concetto di buona fede per il diritto penale è diverso da quello di buona fede civilistica a norma dell'art. 1147 c.c., dal momento che anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare.
Infine appare opportuno ricordare che la correttezza di tale indirizzo giurisprudenziale è stata riconosciuta dal legislatore, che lo ha, per così dire, normativizzato, perchè nel prevedere la confisca obbligatoria in materia di contraffazione di marchi e segni distintivi all'art. 474 bis c.p., introdotto dalla L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 15, comma 1, lett. c), ha escluso la confisca delle cose appartenenti a terzi "quando questi dimostrino di non aver potuto prevedere l'illecito impiego, anche occasionale, delle cose o la loro illecita provenienza e di non essere incorsi in un difetto di vigilanza".
Quanto all'onere della prova della buona fede, sempre la sentenza Bacherotti, facendo riferimento alla c.d. teoria del fatto costitutivo, ha stabilito che ai terzi fa carico l'onere della prova sia relativamente alla titolarità del jus in re aliena, sia relativamente alla mancanza di collegamento del proprio diritto con l'altrui condotta delittuosa o, nell'ipotesi in cui un simile nesso sia invece configurabile, all'affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che renda scusabile l'ignoranza o il difetto di diligenza.

Un tale indirizzo, che ha trovato conferma nella giurisprudenza di legittimità successiva (ex multis, Sez. 1, n. 34019 del 13/06/2001, Carla, Rv 219753; Sez. 1 n. 68 17/10/2013, dep. 2014, Falcone, Rv 258394; Sez. 1, n. 45473 del 25/10/2005, Libursky, Rv 233358), richiede, però, alcune precisazioni.
Se, come sembra, la sentenza Bacherotti ha voluto stabilire una vera e propria inversione dell'onere della prova, ponendola del tutto a carico del terzo estraneo, l'indirizzo non appare corretto perchè nel processo penale è demandato al giudice l'accertamento dei fatti.
Nel caso in discussione il giudice disporrà il sequestro ed ordinerà la confisca sui beni provento dell'illecito appartenenti alla società, ma non potrà apporre il vincolo su beni acquisiti dai terzi in buona fede; pertanto dovrà necessariamente accertare quale sia la titolarità dei beni e quali le modalità di acquisizione da parte dei terzi.
L'inversione dell'onere della prova nella materia in discussione non trova fondamento in norme giuridiche; ciò che, invece, sembra del tutto ragionevole pretendere è un onere di allegazione a carico del terzo che voglia far valere un diritto acquisito sul bene in ordine agli elementi che concorrono ad integrare le condizioni di appartenenza del bene e di estraneità al reato dalle quali dipende l'operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere di confisca esercitato dallo Stato, così come avviene in situazioni simili, come ad esempio in materia di misure di prevenzione.
Una siffatta rigorosa impostazione trova giustificazione nel fatto che la confisca dei beni di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, è disposta perchè viene accertato, a seguito di un processo penale, che i beni oggetto del provvedimento costituiscono profitto di un illecito amministrativo derivante da reato, cosicchè per vincere una tale situazione è l'interessato, che si proclama estraneo al reato, che deve, soddisfacendo l'onere di allegazione, fare emergere la regolarità del suo titolo di acquisto e la buona fede che soggettivamente lo caratterizzava.

9. Dalle considerazioni svolte, ed in particolare dalla ricostruzione dell'istituto così come disciplinato dal più volte citato D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19, emerge con chiarezza, la mancanza di legittimazione ad agire del curatore fallimentare.
Infatti si è messo in evidenza che il creditore che non abbia ancora ottenuto l'assegnazione del bene a conclusione della procedura concorsuale non può assolutamente essere considerato "terzo titolare di un diritto acquisito in buona fede" perchè prima di tale momento il creditore vanta una semplice pretesa, ma non certo la titolarità di un diritto reale su un bene.
Allo stesso modo il curatore fallimentare, che è certamente terzo rispetto al procedimento sequestro/confisca dei beni già appartenuti alla fallita società, non può agire in rappresentanza dei creditori, come, invece, parte della giurisprudenza ha frettolosamente stabilito (Sez. 5, Infrastrutture e servizi del 2013, citata), per opporsi al sequestro ed alla confisca, come si è illustrato.

Il curatore, infatti, come messo in evidenza da numerose decisioni ed in particolare dalla più volte citata sentenza Focarelli, è un soggetto gravato da un munus pubblico, di carattere prevalentemente gestionale, che affianca il giudice delegato al fallimento ed il tribunale per consentire il perseguimento degli obiettivi, già indicati, propri della procedura fallimentare.
Insomma il curatore non è titolare di alcun diritto sui beni, avendo esclusivamente compiti gestionali e mirati al soddisfacimento dei creditori (così Sez. 5, n. 1926 del 30/03/2000, Vasaturo, Rv. 216540), e non può agire in rappresentanza dei creditori, che a loro volta, prima della conclusione della procedura, non sono titolari di alcun diritto sui beni e sono, quindi, privi di qualsiasi titolo restitutorio sui beni sottoposti a sequestro.
Del resto, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 53, comma 1, rimanda agli articoli del codice di procedura penale sui mezzi di impugnazione contro ì sequestri e, quindi, ai soggetti legittimati, tra i quali, per le ragioni dette, non può comprendersi il curatore fallimentare, che - è bene ribadirlo - non può vantare alcun diritto sui beni, anche perchè il fallimento priva il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti alla data della dichiarazione di fallimento, trasferendo l'una e l'altra alla curatela, ma non della proprietà sugli stessi.
Infine è assai dubbio anche che il curatore fallimentare possa avere un interesse concreto giuridicamente tutelabile ad opporsi ai provvedimenti di sequestro e confisca, perchè la massa fallimentare, la cui integrità il curatore è tenuto a garantire, non subisce alcun pregiudizio da tali provvedimenti, in quanto lo Stato, come si è posto in evidenza, potrà far valere il suo diritto sui beni sottoposti a vincolo fallimentare, salvaguardando i diritti riconosciuti ai creditori, soltanto a conclusione della procedura.

10. Da tutte le precedenti considerazioni segue l'enunciazione dei seguenti principi di diritto:

"il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 19".

"La verifica delle ragioni dei terzi al fine di accertarne la buona fede spetta al giudice penale e non al giudice fallimentare".


11. Le conclusioni raggiunte impongono, pertanto, la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi e la condanna delle ricorrenti, singolarmente, al pagamento delle spese processuali.
Si omette la condanna delle ricorrenti al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, tenuto conto della particolarità delle questioni e della peculiare novità della decisione.

PQM

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2015


 

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