REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI Giovanni B. - Presidente -
Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Consigliere -
Dott. SCARANO Luigi Alessandro - Consigliere -
Dott. CARLUCCIO Giuseppa - rel. Consigliere -
Dott. ROSSETTI Marco - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 419-2014 proposto da:
FALLIMENTO SER SOCIETA' EDILIZIA ROMANA SPA in persona del curatore fallimentare Avv. M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell'avvocato RONZANI PIERLUIGI, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
B.M., S.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DORA 2, presso lo studio dell'avvocato DELL'UNTO MAURIZIO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;
FALLIMENTO DIMA COSTRUZIONI SPA in persona del curatore Dott. R. F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO PAOLO RUBENS 31, presso lo studio dell'avvocato MASCOLO VINCENZO, che lo rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso
FALLIMENTO DIMAFIN SPA in persona del Curatore Dott. G. F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIETRO PAOLO RUBENS 31, presso lo studio dell'avvocato MASCOLO VINCENZO, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;
BANCO POPOLARE SOC. COOP. non in proprio ma in nome e per conto della RELEASE SPA in persona del Dott. M.L., nella qualità di procuratore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE A. DA BRESCIA 9-10, presso lo studio dell'avvocato FIORETTI ANDREA, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;
- controricorrenti -
e contro
G.L., O.N. NAZZARENO non in proprio ma nelle loro rispettive qualità di Tesoriere e di Segretario Generale nonchè legali rappresentanti pro tempore del PARTITO POPOLARE ITALIANO domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato ZACCHEO MASSIMO giusta procura speciale del Dott. Notaio GIANNOTTI MONICA in ROMA, il 22/12/2014, rep. n. 31375;

- resistente con procura speciale -
avverso la sentenza n. 4615/2013 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 06/09/2013, R.G.N. 5515/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/01/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;
udito l'Avvocato PIERLUIGI RONZANI; udito l'Avvocato MASCOLO VINCENZO;
udito l'Avvocato DELL'UNTO MAURIZIO;
udito l'Avvocato ZACCHEO MASSIMO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE TOMMASO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. La curatela fallimentare della Società Edilizia Romana Spa (SER) convenne in giudizio il Partito Popolare Italiano (PPI), B. M., S.S., la Dima costruzioni Spa (poi fallita), la Mercantile Leasing Spa (alla quale succedeva la Release Spa, quale avente causa), la Dimafin Spa (poi fallita).
Espose: che, con rogito del 16 luglio 1998, la SER aveva ceduto a titolo gratuito al PPI - utilizzando il D.Lgs. n. 460 del 1997, che prevedeva agevolazioni fiscali - un immobile di notevole pregio (c.d. Palazzo Sturzo) al fine di consentire al partito di pagare gli ingenti debiti; che il partito, con scrittura privata del luglio 2002, promise di vendere l'immobile a B.M. e S.S., anche per persona da nominare; che, dopo una serie di proroghe per la stipulazione del definitivo, in data 29 luglio 2005, fu stipulato il contratto definitivo tra il PPI e la Dima spa per il corrispettivo di Euro 34 mln; che, nella stessa data la Dima vendette l'immobile alla Mercantile leasing Spa per il prezzo di Euro 52 mln; che il bene fu da quest'ultima società ceduto in locazione finanziaria alla Dimafin Spa. La curatela fallimentare della SER richiamò l'azione di nullità già esperita dalla SER in bonis con atto di citazione del 14 ottobre 2002, il cui giudizio fu dichiarato estinto per mancata riassunzione della curatela, in esito all'interruzione disposta per l'intervenuto fallimento della SER; quindi, propose azione di nullità nei confronti dell'atto del luglio del 1998 di cessione dell'immobile a titolo gratuito e degli atti conseguenti; in subordine, propose azione revocatoria, assumendo che ai fini della decorrenza della prescrizione era rilevante la dichiarazione di fallimento della SER e che, per effetto del collegamento tra i negozi, il pregiudizio sì era radicato solo con l'ultimo atto del 29 luglio 2005. Il Tribunale di Roma rigettò entrambe le domande. La Corte di appello di Roma, ai fini che ancora interessano, confermò la sentenza di primo grado (sentenza del 6 settembre 2013, notificata l'8 novembre successivo).

2.Avverso la suddetta sentenza, il Fallimento della SER, in persona del curatore fallimentare, propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi e deposita memoria.

Resistono con distinti controricorsi il Fallimento della Dima costruzioni Spa, il Fallimento della Dimafin Spa; il Banco Popolare in nome e per conto della Release Spa; resistono con unico controricorso B. e S., questi ultimi depositano memoria e il difensore chiede che le spese siano distratte a suo favore.
Il PPI, ritualmente intimato, non svolge difese mediante controricorso.
In prossimità dell'udienza pubblica, il PPI ha depositato procura speciale per la sola partecipazione all'udienza.

Motivazione

1. Quanto all'azione di nullità avverso l'atto del 16 luglio 1998 con il quale la SER in bonis aveva ceduto a titolo gratuito al PPI l'immobile denominato "Palazzo Sturzo", con conseguente nullità degli atti successivi di trasferimento, la Corte di merito ha in primo luogo sintetizzato la tesi attorea nel senso della "nullità dell'atto deliberato dall'assemblea" per vizio della causa, stante la contrarietà alla "disciplina codicistica" delle società di capitali e allo statuto sociale, stante la rinuncia della società immobiliare di capitali a trarre dall'immobile di proprietà una qualsiasi utilità, essendo invece consentito alle società di capitali di adottare atti a titolo gratuito solo se coerenti con l'oggetto sociale e non di dismettere il patrimonio senza contropartita, non essendo nella disponibilità neppure dei soci distogliere il patrimonio dalla sua destinazione a garanzia dei creditori.
Poi, dopo aver rilevato il generico riferimento attoreo alla "disciplina codicistica" delle società di capitali, la Corte di merito ha messo in rilievo:
la non esistenza di una norma che preveda la nullità della donazione da parte di una società di capitali sul presupposto che questa persegua uno scopo di lucro, la quale sola comporterebbe la nullità di donazioni deliberate per puro mecenatismo e senza attinenza alle finalità statutarie;
che non è illecita la causa di un atto con cui la stessa società intenda sostenere un partito politico perchè, come sostenuto dal primo giudice, la capacità giuridica delle società di capitali è piena;
che, ai fini dell'invalidità dell'atto, non rileva l'aver il partito politico beneficiario fruito dei vantaggi previsti dal D.Lgs. n. 460 del 1997, non sussistendo in tale normativa alcuna limitazione alla possibilità di successivi trasferimenti da parte del beneficiario;
che l'illiceità della causa non può discendere dalla contrarietà dell'atto al principio inderogabile secondo cui la società di capitali risponde ai creditori con tutto il patrimonio, perchè tale profilo rileva ai fini dell'art. 2901 c.c. e comporta l'inefficacia dell'atto;
che, quanto alla delibera assembleare che ha varato "l'operazione", l'eventuale eccedenza rispetto all'oggetto sociale, ovvero il suo esercizio al di fuori dei poteri conferiti, non integra ipotesi di nullità dell'atto, ma, al più, inefficacia e inopponibilità nei rapporti con i terzi.

2. Con il primo motivo, sì impugna questa parte della sentenza e si deduce la violazione degli artt. 1418, 2247, 2249 e 2384 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Si premette che l'errore in diritto compiuto dalla Corte di merito consiste nell'aver ritenuto che il problema della configurabilità di una donazione da parte di una società si debba risolvere esclusivamente in termini di capacità generale del donante e non anche in termini di compatibilità con la causa del contratto di società.
Si sostiene che la mancanza totale di collegamento tra la donazione e l'oggetto sociale - avendo la donazione l'unico scopo esplicito di attribuire al PPI la liquidità per onorare i debiti - determina la nullità della donazione per vizio genetico della causa, stante il totale contrasto tra il negozio prescelto (la donazione) e lo schema causale societario, caratterizzato dal perseguimento dello scopo di lucro e della divisione degli utili; con violazione anche dell'art. 2249 c.c., perchè svuotando il contratto di società della causa lucrativa, si intacca la tipicità delle forme giuridiche societarie.
Si afferma di non mettere in dubbio l'astratta capacità di una società di capitali di fare donazioni e che non viene in questione l'eventuale travalicamento dei limiti dell'oggetto sociale da parte degli amministratori ai fini della loro responsabilità, ma che, nella specie, si sarebbe avuta la totale alterazione causale del negozio societario, essendo stata posta in essere la donazione per impoverire il donante e consentire al donatario di pagare i propri debiti, in totale assenza di collegamento strumentale con l'oggetto sociale. Pur ammettendo una astratta compatibilità tra le due cause (nel caso di utilità indiretta per la società), secondo il ricorrente ci sarebbe la necessità di spiegare come una società di capitali possa depauperare il proprio patrimonio con un atto di liberalità, con radicale alterazione del negozio societario.
In definitiva, secondo la prospettazione dei ricorrente, data la capacità generale della società, la compatibilità delle due cause contrapposte sarebbe possibile e impedirebbe la nullità della donazione per vizio genetico della causa solo in presenza anche di una utilità per la società donante, nella specie, espressamente mancante per via del dichiarato intento di consentire al PPI di pagare gli ingenti debiti.

2.1. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione della L. Fall., art. 66 e dell'art. 2901 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Nella parte esplicativa, si estrapola una argomentazione della Corte di merito, laddove, nel controbattere alla tesi dell'appellante, afferma che l'illiceità della causa non può discendere dalla contrarietà dell'atto al principio inderogabile secondo cui la società di capitali risponde ai creditori con tutto il patrimonio, perchè tale profilo rileva ai fini dell'art. 2901 c.c. e comporta l'inefficacia dell'atto, per sostenere che la Corte di merito avrebbe affermato che alla base della azione revocatoria vi sarebbe l'illiceità della causa.

3. I motivi vanno trattati congiuntamente per la loro stretta connessione.

3.1. Ai fini della opportuna delimitazione della questione di diritto posta all'attenzione della Corte, va preliminarmente precisato che il secondo motivo di censura non ha all'evidenza, per il modo in cui si articola nella parte esplicativa di cui si è dato conto, una sua autonoma configurazione.
3.2. Inoltre, nonostante l'esplicita invocazione della violazione dell'art. 2384 c.c. nella rubrica del primo motivo - più correttamente da intendersi riferita agli artt. 2384 e 2384 bis c.c., nella formulazione anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003 - lo stesso è estraneo alla questione posta con il ricorso e all'intero processo anche nel merito.
Infatti, anche a prescindere dalla espressa affermazione del ricorrente, secondo la quale non si tratta di stabilire i limiti dell'oggetto sociale per dedurre l'esistenza di una eventuale responsabilità degli amministratori (pag. 12), la domanda attorea, come svolta sin dal primo grado di giudizio, non ha mai invocato alcuna "divaricazione" tra società e amministratori, tra rappresentata e rappresentanti. E, non solo tra generali poteri di rappresentanza e corrispondenza dei singoli atti all'oggetto sociale e alle limitazioni di legge, ma anche tra singoli atti e limitazioni presenti nell'atto costitutivo o nello statuto (artt. 2384 e 2384 bis c.c.). Anzi, la nullità prospettata coinvolge, in una sovrapposizione di piani indistinti, sia la preventiva delibera dall'assemblea (che in un controricorso si riferisce come totalitaria) della società, la quale ha consentito la cessione affinchè il PPI potesse utilizzare l'immobile per pagare gli ingenti debiti, sia il rogito successivo, e nel ricorso per cassazione si concentra sull'atto notarile attuativo, senza mai prospettare un contrasto tra questo e quella. Manca, pertanto, la specifica deduzione di ogni profilo che concerna l'estraneità del rogito rispetto alla preventiva delibera e, quindi, di ogni profilo attinente alla opponibilità dei limiti violati rispetto ai terzi, ai quali, tuttavia, il ricorrente sembra riferirsi quando invoca la mancanza di buona fede - del donatario e per certi versi della società donante - e il conseguente danno della società e dei creditori di questa per via del depauperamento. Peraltro, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è esclusa, non solo la nullità, ma anche l'inefficacia o inopponibilità ai terzi da parte della società, nel caso di delibera di autorizzazione preventiva o di ratifica e di conforme condotta dell'amministratore, divenendo irrilevante l'inidoneità dell'atto rispetto al perseguimento dell'oggetto sociale (da ultimo Cass. n. 5522 del 2015).

3.3. Fulcro della censura prospettata alla Corte è la nullità "genetica" dell'atto di liberalità (che nel ricorso sembra investire solo il rogito, ma presuppone la conforme delibera assembleare, in mancanza di denunciate differenze tra l'uno e l'atra come detto) basata sull'incompatibilità tra la "causa" dell'atto di liberalità e la causa del contratto di società. La genesi della nullità del primo è, secondo il ricorrente, nella incompatibilità tra le due cause: quella del "negozio donativo", coincidente con lo spirito di liberalità, considerato causa della donazione per la sua funzione di giustificazione giuridica dell'attribuzione; quella del negozio societario, che consiste, ex art. 2247 c.c., nell'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili, e, quindi, nel c.d. scopo lucrativo, con incidenza sul principio della tipicità delle i forme giuridiche societarie (art. 2249 c.c.), quale limite all'esercizio I del potere di autonomia privata".
Il ricorrente ipotizza, quindi, un vizio della causa diverso dalla contrarietà a norme imperative, all'ordine pubblico, al buon costume (art. 1343 c.c.), ma derivante dalla incompatibilità tra le cause di due contratti.

Se si considera che la causa che induce più soggetti giuridici a crearne uno nuovo e distinto, con autonoma personalità giuridica, come nel caso della società di capitali, è la funzionalizzazione della capacità di agire, cioè della attitudine a compiere atti giuridici, allo svolgimento comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili, il ravvisare l'incompatibilità tra le due cause suddette non significa altro che ritenere la capacità giuridica e di agire del nuovo soggetto come limitata dallo scopo che con la stipulazione del contratto sociale i consorti hanno individuato.
Allora, al di là delle dichiarazioni di principio fatte dal ricorrente sul riconoscimento della piena capacità giuridica e di agire delle società di capitali, la tesi della incompatibilità delle cause non è altro che la riproposizione della tesi tradizionale, in anni lontani sostenuta dalla dottrina, che escludeva l'ammissibilità delle donazioni da parte di società, in considerazione della incompatibilità di tali atti sia con l'oggetto sociale (l'esercizio di attività economica ex art. 2247 c.c.) sia con lo scopo, di realizzare utili da dividere tra i soci, essendo incompatibili liberalità ed utilità, con conseguente limite alla capacità di agire nel senso della incapacità di donare. La società, quindi, non potrebbe compiere che atti rientranti nell'oggetto sociale e chi, sulla base del rapporto organico, ha stipulato l'atto non poteva esorbitare dalla capacità di agire del rappresentato, indipendentemente dal conferimento del potere con espresso atto societario. Ma, oggi, la tesi oramai nettamente prevalente nella cultura giuridica riconosce, invece, alle società, come a tutte le persone giuridiche, capacità generale, ossia la capacità di essere parte di qualsiasi atto o rapporto giuridico, anche non inerente l'oggetto sociale, tranne, ovviamente, quegli atti che presuppongono l'esistenza di una persona fisica. A sostegno, gli argomenti sono vari e convincenti: la considerazione che la capacità giuridica non ammetterebbe graduazioni, nel senso che o sussiste per intero o non sussiste; le difficoltà che sorgerebbero nel determinare i limiti della capacità funzionale, dato che anche atti apparentemente estranei allo scopo sociale potrebbero essere strumentalmente utili al raggiungimento dello stesso; la mancanza di qualsiasi espressa limitazione nelle norme che attribuiscono la capacità giuridica (nella specie art. 2331 c.c.); l'esistenza nella disciplina normativa dell'art. 2384 bis c.c., applicabile ratione temporis.

Quest'ultima disposizione, introdotta nel 1969, per tutelare la buone fede dei terzi in quei casi in cui può essere dubbio se un atto rientri o meno nell'oggetto sociale prevede che: "L'estraneità all'oggetto sociale degli atti compiuti dagli amministratori in nome della società non può essere opposta ai terzi in buona fede", con la conseguenza, che gli atti estranei all'oggetto sociale, se il terzo è in buona fede, sono quindi efficaci, salva la responsabilità verso la società degli amministratori che li hanno compiuti; con l'ulteriore conseguenza che, se sono efficaci, significa che la società ha la capacità di compierli.
Ne consegue, che l'oggetto sociale non costituisce, secondo una opinione oramai consolidata a partire dalle riflessioni degli studiosi di diritto commerciale, un limite alla capacità della società, ma piuttosto un limite al potere deliberativo e rappresentativo degli organi sociali.

In conclusione, le società non hanno una capacità speciale limitata al compimento di quegli atti strumentali rispetto all'oggetto sociale, ma una capacità generale, di essere parte di qualsiasi atto o rapporto giuridico, anche non rientrante nell'oggetto sociale, tranne quelli che presuppongono l'esistenza di una persona fisica e l'oggetto sociale non è altro che un limite ai poteri degli organi societari.

3.4. Peraltro, il suddetto principio che, in definitiva, il ricorrente vorrebbe mettere in discussione, è stato affermato dalla Corte di legittimità, sia pure con decisione molto risalente, secondo la quale, "Non avendo la legge stabilito delle specifiche limitazioni, le società hanno capacità giuridica e capacità di agire generale, talchè la determinazione dell'oggetto sociale nell'atto costitutivo non comporta alcuna limitazione alla capacità delle società stesse; queste, pertanto, rimangono capaci anche se trascendono e perfino se tradiscono il loro scopo" (Cass. n. 2224 del 1968).

Nè è stato smentito dalla giurisprudenza successiva che, nelle diversificate applicazioni, soprattutto in riferimento agli artt. 2384 e 2384 bis c.c., (Cass. n. 12325 del 1998; n. 2001 del 1996) ha dato per presupposto la generale capacità giuridica e di agire delle società, anche rispetto ad atti a titolo gratuito o con spirito di liberalità, salva la tutela dei terzi, e dei creditori, alle condizioni stabilite, e salva la responsabilità varia degli amministratori.
La censura, pertanto, deve essere respinta.

4.Con riferimento alla azione subordinata di revocatoria ordinaria, la Corte di merito, confermando la statuizione di primo grado, l'ha ritenuta prescritta.
La Corte ha escluso che possa farsi decorrere la prescrizione dall'ultimo atto di trasferimento del luglio 2005, sulla base di un collegamento prospettato tra i negozi, che sarebbero stati preordinati alla spoliazione della SER attraverso i passaggi di proprietà del bene. In particolare, ha rilevato che l'ampio arco di tempo - dal 1998 al 2005 - esclude la plausibilità di un obiettivo da realizzarsi dopo otto anni dalla sua ideazione.
Comunque, ha aggiunto la Corte di appello, a prescindere dal collegamento dei negozi, è pacifico e decisivo che con il primo atto di cessione dalla SER al PPI, nel 1998, si sia realizzato l'asserito depauperamento pregiudizievole del patrimonio societario in danno dei creditori, i quali avrebbero potuto promuovere l'azione revocatoria ordinaria, con conseguente decorrenza da quella data del termine di prescrizione ex art. 2935 e 2903 c.c..

4.1. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione della L. Fall., art. 66 e degli artt. 2901 e 2935 c.c., in riferimento all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Si censura il mancato riconoscimento del collegamento negoziale al fine di far decorrere la prescrizione dell'azione revocatoria dalla data del 29 luglio 2005, lamentando il sostanziale difetto di motivazione, per essersi limitata la Corte di merito a ritenere non plausibile un disegno preordinato al depauperamento realizzato nel corso di un lungo periodo di tempo, senza considerare che lo scopo del finanziamento del PPI si era realizzato solo con la cessione del bene dal PPI a terzi, avvenuto nel 2005.

4.2. Il motivo è inammissibile.
Da un lato, nella parte esplicativa resta priva di censura l'argomentazione centrale, spesa dalla Corte di merito, secondo la quale era irrilevante il prospettato collegamento negoziale con il fine depauperativo, atteso che il depauperamento preteso della SER si era realizzato già con l'atto del 1998.
Dall'altro, nonostante l'invocazione della violazione di legge, il motivo - nella parte esplicativa - si sostanzia nella prospettazione generica di vizi motivazionali attinenti a valutazioni della Corte di merito in ordine all'esclusione del collegamento negoziale prospettato dall'attore sulla base della finalizzazione al depauperamento. Una censura motivazionale che non può avere ingresso in sede di giudizio di legittimità; tanto più dopo la riforma dell'art. 360 c.p.c., n. 5, applicabile ratione temporis in riferimento a sentenza del 6 settembre 2013. Infatti, secondo l'interpretazione restrittiva della novella fornita dalle Sezioni Unite, "La riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza de semplice difetto di "sufficienza" della motivazione".
(Sez. Un. n. 8053 del 2014, costantemente applicato dalla giurisprudenza successiva)

5. In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate, sulla base dei parametri vigenti, a favore di ciascuno dei controricorrenti che si sono difesi con autonomo controricorso. Nella liquidazione delle spese a favore del PPI rileva, ai fini della minor importo, l'essersi esso difeso solo mediante partecipazione alla udienza pubblica.
Rispetto a B. e S., che si sono difesi con unico controricorso, le spese sono liquidate a favore dell'Avv. Maurizio Dell'Unto, dichiaratosi antistatario.

PQM

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 28.000,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, in favore del Fallimento della Dima costruzioni Spa; del Fallimento della Dimafin Spa; del Banco Popolare in nome e per conto della Release Spa; dell'Avv. Maurizio Dell'Unto, dichiaratosi antistatario; che liquida in Euro 14.000,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge, in favore del Partito Popolare Italiano.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 7 gennaio 2015.
Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2015


 

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