REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MASSERA Maurizio - Presidente -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. FRASCA Raffaele - rel. Consigliere -
Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere -
Dott. RUBINO Lina - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 13018-2010 proposto da:
MENATWORK ITALIA SRL , in persona dell'Amministratore Unico, legale rappresentante pro tempore Sig. D.R.C., elettivamente domiciliata in ROMA, C/O NEGRETTI V. OPPIDO MAMERTINA 4, presso lo studio dell'avvocato MARINO GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta delega in atti; - ricorrente -
contro
L.M. ______, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PREMUDA 18, presso lo studio dell'avvocato RICCI EMILIO NICOLA, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti; - controricorrente -
avverso la sentenza n. 11011/2009 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 19/05/2009, R.G.N. 5192/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni che ha concluso per il rigetto del ricorso previa integrazione della motivazione della sentenza impugnata e compensazione delle spese.

Svolgimento del processo

p. 1. La s.r.l. Menatwork Italia ha proposto ricorso straordinario per cassazione contro L.M. avverso la sentenza del 19 maggio 2009, con la quale il Tribunale di Roma, in funzione di Giudice dell'Esecuzione, ha provveduto sull'opposizione all'esecuzione ed agli atti esecutivi proposta dall'intimato avverso la procedura esecutiva immobiliare r.g.e. n. 157 del 2007, promossa nei suoi confronti con pignoramento del 25 gennaio 2007 da essa ricorrente in forza di titolo esecutivo rappresentato da una sentenza di rigetto di un'opposizione a un decreto ingiuntivo del 25 gennaio 2003, pronunciata il 28 marzo 2006 dal Tribunale di Velletri nei confronti della società consortile Nuovo Hall a r.l., della quale il L. era stato amministratore e poi era divenuto liquidatore, essendo essa stata cancellata dal Registro delle Imprese il 30 giugno 2004, a chiusura della liquidazione, l'albo.
p.2. L'opposizione era stata proposta dal L. con la deduzione che la notificazione del titolo esecutivo e del precetto erano nulle o inesistenti, perchè effettuate presso la sede della società, anzichè presso il domicilio del liquidatore, come imponeva il disposto dell'art. 2495 c.c., comma 2, ultima parte, nonchè con quella che comunque il titolo esecutivo non poteva operare nei confronti del L. per la sola ragione che egli era il liquidatore della società.
p.3. Al ricorso ha resistito con controricorso l'intimato.
p.4. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivazione

p.1. Va premesso che - avendo pacificamente la sentenza impugnata pronunciato sia su un'opposizione agli atti esecutivi, sia su un'opposizione all'esecuzione, prima del 4 luglio 2009 - data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009 e della modifica da essa apportata all'art. 616 c.p.c. - e nella vigenza del testo dell'art. 616 c.p.c. come modificato dalla L. n. 52 del 2006, art. 14 che aveva sancito l'inimpugnabilità della sentenza di definizione dell'opposizione all'esecuzione e, quindi, l'aveva resa soggetta al ricorso ex art. IlI, settimo comma, della Costituzione, non diversamente dalla sentenza decisoria sull'opposizione agli atti - il regime di impugnazione della sentenza del Tribunale di Roma era unitario e si individuava, come correttamente è stato individuato, nel ricorso ai sensi della detta norma costituzionale.
p.2. I motivi di ricorso concernono la decisione impugnata riguardo alla sua statuizione sull'una e sull'altra opposizione.
p.3. Tanto premesso, si rileva che il Tribunale di Roma, di fronte all'investitura sia di un'opposizione diretta a contestare l'esistenza del diritto di procedere all'esecuzione, sia di un'opposizione diretta a contestare il quomodo del suo esercizio, nello stabilire l'ordine di esame delle due opposizione avrebbe dovuto senza dubbio privilegiare l'esame della prima, cioè dell'opposizione all'esecuzione, perchè, l'eventuale riconoscimento della sua fondatezza e, quindi, della inesistenza dell'an della pretesa esecutiva avrebbe determinato la carenza dell'interesse alla decisione sul se il diritto di procedere all'esecuzione fosse stato correttamente esercitato e, dunque, riguardo all'opposizione agli atti.
Ne segue che il Tribunale avrebbe dovuto scrutinare prima l'opposizione all'esecuzione e, poi, quella agli atti e, una volta riconosciuta fondata la prima, avrebbe dovuto decidere con una dichiarazione della cessazione della materia del contendere (Cass. n. 4492 del 2003), se del caso provvedendo all'esame del merito solo ai fini della soccombenza virtuale sull'opposizione agli atti e fermo restando che il risultato della valutazione avrebbe dovuto poi essere apprezzato ai fini dell'unitaria statuizione sulle spese dell'intero giudizio, risultante dal cumulo fra le due opposizioni.
Il principio di diritto che avrebbe dovuto ispirare il modus procedendi del Tribunale è il seguente: il giudice dell'esecuzione, allorquando gli siano state proposte cumulativamente un'opposizione all'esecuzione ed un'opposizione agli atti esecutivi, deve decidere prima l'opposizione all'esecuzione, in quanto la sua decisione incide sulla persistenza dell'interesse ad agire riguardo all'opposizione agli atti, giacchè l'eventuale suo accoglimento determina la conseguenza della cessazione della materia del contendere sul quomodo dell'esecuzione, cioè sull'oggetto dell'opposizione agli atti, il merito della quale diventa in tal caso esaminabile solo ai fini della valutazione virtuale della soccombenza con riferimento ad essa e salvo il rifluire di tale valutazione nell'ambito di quella sulla soccombenza riferita al cumulo delle due opposizioni.

p.4. Ora, nessuna delle parti ha impugnato il modus procedendi del Tribunale, ma, poichè l'impugnazione in questa sede di legittimità (che ha potuto mantenere il cumulo) ha riguardato entrambe le opposizioni ed i cinque motivi di ricorso riguardano il primo l'opposizione agli atti, mentre gli altri - compreso il secondo, come si vedrà - sono riferibili all'opposizione all'esecuzione, il problema di stabilire l'ordine di esame dei profili inerenti le due distinte opposizioni si ripropone ora per questa Corte.
Il principio di diritto innanzi enunciato impone di trattare, dunque, prima il secondo, il terzo il quarto ed il quinto motivo, in quanto afferenti alla opposizione all'esecuzione.

p.5. Il secondo motivo denuncia letteralmente "opposizione agli atti esecutivi e opposizione all'esecuzione. Confusione di istituti distinti: prevalenza".
p.5.1. Il motivo è inammissibile.
Esso è concluso dal seguente quesito di diritto: Dica la Corte che la sentenza oggetto di gravame realizzi una confusione fra accertamento del diritto di credito sostanziale (art. 615 c.p.c.) e accertamento di vizi del titolo esecutivo ex art. 617 c.p.c., con conseguente riflesso della pretesa invalidità rilevata in rapporto al opposizioni ex art. 617 c.p.c. sugli effetti del giudicato - costituente titolo azionato esecutivamente - direttamente sul diritto sostanziale già accertato in sentenza azionata.
p.5.2. Il quesito sembrerebbe evocare, peraltro in modo astratto, che la sentenza impugnata avrebbe fatto confusione fra i profili delle due opposizioni ed avrebbe fatto rifluire l'esito dell'accertamento su quella agli atti sull'accertamento relativo all'opposizione all'esecuzione.
Il quesito così prospettato, ammesso che possa intendersi nel senso che il Tribunale, una volta compiuto l'accertamento sull'opposizione agli atti avrebbe deciso il rigetto dell'opposizione all'esecuzione basandosi su quanto posto a base dell'altro accertamento, prospetta un interrogativo sulla legittimità di tale preteso modo di procedere che risulta del tutto generico ed astratto, in quanto non enuncia sommariamente come in concreto la sentenza impugnata sarebbe incorsa in siffatto modi di procedere. Omette, cioè di indicare, pur in modo riassuntivo come l'errore addebitato alla sentenza impugnato sarebbe stato commesso in relazione all'atteggiarsi delle deduzioni poste a base delle due opposizioni e, quindi, della vicenda giudicata, e, soprattutto, alla motivazione della sentenza.
Il quesito risulta così privo del requisito della conclusività e come tale inidoneo ad assolvere al requisito dell'art. 366-bis c.p.c..
p.5.3. L'art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse concludere il motivo, imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva concludere l'illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva (come si risolve: Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi ed il cui principio di diritto resta indifferente alle numerose modifiche legislative in anni successivi apportate alla disciplina del ricorso per cassazione) in una critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è stata decisa sul punto oggetto dell'impugnazione e che appunto dev'essere criticato dal motivo, appare evidente che il quesito, per "concludere" effettivamente l'illustrazione del motivo e, quindi, per essere idoneo allo scopo, doveva necessariamente contenere un riferimento riassuntivo al motivo e, quindi, al suo oggetto, cioè al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse evidenziato - ancorchè succintamente - perchè l'interrogativo giuridico astratto era giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonchè n. 6420 del 2008).
D'altro canto, se si fosse avallata l'idea che un quesito potesse non essere articolato in modo "conclusivo" nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata la conseguenza che al ricorrente in cassazione sarebbe bastato, per ottemperare al requisito dell'art. 366-bis prospettare alla fine dell'illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito, salvo poi doversi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell'illustrazione se il quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione dell'art. 366- bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della previsione del quesito, che era rappresentato dall'assicurazione alla Corte di cassazione della possibilità di un'immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica sì dell'art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3, e 4 ma in rapporto con la vicenda oggetto del giudizio di merito per come sedimentatasi nella decisione impugnata.
E ciò quale logica conseguenza della finalizzazione del ricorso per cassazione alla tutela, oltre che del jus constitutionis, anche dei jus litigatoris.
p.5.4. E' da avvertire che l'utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per valutare se la formulazione del quesito fosse idonea all'assolvimento della sua funzione appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e, quindi, alla regola dell'art. 156 c.p.c., comma 2, per cui all'assolvimento del requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse, eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da tanto l'esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati.
Esigenza, del resto, che non si concretava in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto forma dai caratteri indefiniti e, quindi, in una incidenza sull'effettività del mezzo di impugnazione costituito dal ricorso alla Corte (anche nei termini del ed principio di effettività, di cui all'art. 6 della CEDU, che in non diversa guisa è amminicolo del diritto di azione e di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 e specificato dall'art. 111 Cost.), atteso che all'effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui necessita il ricorrente in Cassazione non poteva essere d'ostacolo l'onere di formulare quesiti asseritamente conclusivi nei detti sensi. Il che evidenzia che non risultava fondata la pur apprezzabile e suggestiva critica dottrinale alla prescrizione del quesito a pena di inammissibilità come requisito di contenuto-forma, prospettata in ragione dei suoi caratteri non definiti ed affidati alla stessa Corte di cassazione, sì da porre il ricorrente in una condizione di incertezza nella formulazione del ricorso sanzionatale in modo irrimediabile. In effetti, sempre considerando la spettanza della redazione del ricorso per cassazione ad una difesa tecnica particolarmente qualificata, una volta tenuto conto che ogni prescrizione normativa si presta a dover essere interpretata per coglierne il significato, l'esegesi del quesito sopra ricordata (tante volte ormai ripetuta) risultava nient'altro che una "normale" applicazione dell'attività interpretativa di una prescrizione giuridica. Ne deriva che la sua esistenza non può essere apprezzata come in contraddizione con l'esigenza di effettività del rimedio giurisdizionale impugnatorio, ove riconosciuto da un ordinamento nazionale, tante volte sottolineata dalla Corte EDU, una volta coniugata con la particolare natura del ricorso per cassazione secondo il nostro ordinamento nazionale, che certamente implica un certo grado di sofisticazione tecnica, se non altro quello ex necesse a qualsiasi impugnazione a motivi limitati.
p.5.5. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui all'art. 156 c.p.c., comma 3 posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto escludere che il giudice possa apprezzare l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all'atto: il che escludeva che il quesito potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che l'inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell'atto complesso rappresentante il ricorso, ivi compresa l'illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n. 16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all'art. 366 c.p.c., n. 6; più di recente, Cass. n. 7455 del 2013, sempre a proposito di questo requisito).
p.5.6. E', altresì, da avvertire, che l'intervenuta abrogazione dell'art. 366-bis c.p.c. non può determinare - in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell'abrogazione per i ricorsi proposti antecedentemente e non ancora decisi - l'adozione di un criterio interpretativo della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche con numerosi arresti delle Sezioni Unite.
L'adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c. dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell'art. 12 preleggi, comma 1, posto che si tratterebbe di criterio contrario all'intenzione del legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o comunque non assegna effetti retroattivi all'abrogazione, manifesta non solo una voluntas nel senso di preservare l'efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente all'abrogazione e di assicurarne l'efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede l'ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l'esegesi della norma abrogata continui a dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l'interprete e, quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell'art. 65 dell'Ordinamento Giudiziario, debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorchè, in ipotesi, l'eco dei lavori preparatori della legge abrogativa riveli che l'abrogazione possa essere stata motivata anche e proprio dall'esegesi che dia norma sia stata data. Invero, anche l'adozione di un criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell'abrogazione impone di considerare che l'esclusione dell'abrogazione in via retroattiva ed anzi la previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris significhino voluntas di permanenza dell'esegesi affermatasi, perchè il contrario interesse non è stato ritenuto degno di tutela.
p.5.7. Peraltro, se si procedesse alla lettura della illustrazione del motivo, si dovrebbe rilevare che essa non si articola affatto nella prospettazione degli argomenti che dovrebbero enunciare il preteso errore denunciato (in astratto) dal quesito, ma si concreta in argomentazioni, peraltro anch'esse del tutto generiche, financo di scarsa comprensibilità e comunque prive di qualsiasi individuazione della parte della motivazione ed anche del modo di procedere della sentenza impugnata che si intende censurare, posto che detta motivazione e detto modo di procedere nemmeno vengono identificate.
Sicchè, non solo non si rinviene alcuna corrispondenza con l'inammissibile quesito astratto prospettato ma, a monte, con la stessa individuazione della censura che si intende muovere alla sentenza, onde anche in un giudizio di cassazione che non fosse retto dal regime dei quesiti, si sarebbe in presenza di un non-motivo, perchè non sarebbe dato comprendere la critica mossa alla sentenza impugnata.

p.6. Con il terzo motivo si denuncia, letteralmente, che "la confusione fra istituti di opposizione, l'uno all'esecuzione, l'altro agli atti esecutivi, determina un accertamento sintetico, che impedisce il ricorso all'appello costituzionalmente garantito e l'ingiustificata privazione di un grado di giudizio".
p.6.1. L'illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto:
dica la Corte se, nel caso di specie, per effetto del mancato accertamento incidentale della tipologia della responsabilità ascrivibile al liquidatore, si pervenga a privare la parte soccombente del diritto di appello, a cagione della interferenza e interconnessione di istituti con caratteristiche, funzioni e finalità differenti.
Anche in tal caso il quesito è del tutto astratto e generico e, dunque, privo di conclusività.
Il motivo è, pertanto, inammissibile.
p.6.2. Se si procedesse alla sua lettura, peraltro, risulterebbe privo di fondamento, perchè prospetta che l'essersi il Tribunale erroneamente - a dire della ricorrente - ritenuto investito anche di un'opposizione all'esecuzione, avrebbe determinato per la ricorrente la perdita di un grado di giudizio, cioè dell'appello e, comunque, nell'ottica del rimedio del ricorso straordinario per cassazione, della possibilità di far valere il vizio ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5.
L'infondatezza deriverebbe per la duplice constatazione, da un lato che, come s'è detto sopra, al momento della stessa introduzione del giudizio con l'opposizione vigeva già il regime dell'art. 616 introdotto dalla L. n. 52 del 2006 e, dunque, la sentenza resa sull'opposizione all'esecuzione era solo impugnabile con il rimedio del ricorso straordinario, e, dall'altro lato, era vigente con riferimento al ricorso che si esamina l'art. 360 c.p.c., comma 3 introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, che ammette la deducibilità del vizio ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5 in ambito di ricorso straordinario per cassazione (in termini Cass. n. 20078 del 2011; n. 16528 del 2012), onde l'essere stata l'opposizione decisa dal Tribunale anche per il profilo inerente l'art. 615 c.p.c. non si è potuta risolvere in alcun modo nella privazione del rimedio dell'art. 360 c.p.c., n. 5.

p.6.3. Con il quarto motivo si denuncia "violazione dell'art. 2495 c.c., in rapporto al previgente art. 2456, con riferimento ai principi generali di cui all'art. 11 preleggi: la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo e all'art. 25 Cost.".
Vi si prospetta la tesi che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto regolata la posizione del L., come liquidatore della New All dalla norma dell'art. 2495 c.c., anzichè da quella dell'art. 2456 c.c..
L'errore sarebbe stato commesso, perchè il Tribunale avrebbe erroneamente dato rilievo, per giustificare l'applicazione dell'art. 2495 come sostituito dal D.Lgs. n. 6 del 2003, al fatto che il titolo esecutivo sarebbe stato rappresentato dalla sentenza di rigetto dell'opposizione, mentre, essendo esso, in realtà, rappresentato dal decreto ingiuntivo ed essendo quest'ultimo stato emesso il 25 gennaio 2003, il titolo risultava formato prima dell'entrata in vigore di quel testo dello stesso art. 2495, onde la posizione del L. sarebbe stata regolata dall'art. 2456 c.c., cioè dalla norma che disciplinava la posizione dei liquidatori nel regime anteriore alle modifiche di cui al detto D.Lgs..
p.6.4. Il motivo è privo di fondamento.
Lo è innanzitutto perchè non si comprende quale ipotetico vantaggio potrebbe derivare alla ricorrente dalla riconduzione della posizione del L. all'ambito dell'art. 2456 c.c. vecchio testo, posto che non è spiegato come e perchè il titolo esecutivo, pur rappresentato dal decreto ingiuntivo, formatosi nei confronti della società, avrebbe potuto farsi valere come titolo esecutivo nei confronti del L. o in relazione alla sua eventuale posizione di socio o, gradatamente, in relazione alla sua posizione di liquidatore: è sufficiente osservare che l'art. 2456 c.c. (nel testo ante riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003), allorquando disponeva che dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi, non consentiva certamente al creditore della società di far valere direttamente il titolo esecutivo ottenuto contro la società nei confronti del liquidatore, ma lo onerava di formarsene uno nei suoi riguardi, tanto più essendo la responsabilità del medesimo derivante solo da sua colpa. La norma, infatti, non prevedeva affatto l'estensione dell'efficacia del titolo esecutivo de quo, ma si limitava a prevedere una fattispecie sostanziale in forza della quale i crediti contro la società, una volta avvenuta la cancellazione diventavano esercitabili dapprima contro i soci entro certi limiti e, quindi, contro i liquidatori in presenza di una loro colpa per il mancato pagamento e, quindi, sulla base di un ulteriore fatto costitutivo. La norma in tal modo aveva solo l'effetto di rendere esercitabile un diritto contro la società nei confronti del liquidatore e, tra l'altro non in via automatica, bensì ricorrendo altri fatti costitutivi riferibili allo stesso liquidatore. Ne derivava che, quando il credito verso la società fosse stato già accertato giudizialmente rispetto alla società anche con un giudicato, esso, se era di per sè opponibile ai soci ed ai liquidatori quanto al detto accertamento, non escludeva la necessità per il creditore - espressa dal "far valere" - di agire in giudizio contro gli uni e, gradatamente, gli altri per l'accertamento rispettivamente del fatto costitutivo della consecuzione di somme in sede di bilancio finale (oltre che della loro qualità di soci) e del fatto costitutivo della loro colpa per il mancato pagamento (oltre che della loro qualità di liquidatori), onde a maggior ragione nessuna estensione dell'efficacia esecutiva del titolo esecutivo contro la società si poteva configurare.
Il motivo è comunque anche privo di fondamento nel suo presupposto, cioè là dove vorrebbe ancorare la formazione del titolo esecutivo fatto valere con l'esecuzione e, quindi, la rilevanza di essa ai fini della contestazione svolta dal L. con l'opposizione all'esecuzione, alla pronuncia del decreto ingiuntivo e non già alla formazione della cosa giudicata sul rigetto dell'opposizione, in modo da collocare il "far valere" il relativo giudicato sotto la vigenza non dell'art. 2495, bensì dell'art. 2456 c.c..
Invero, allorquando l'opposizione a decreto ingiuntivo viene rigettata con una pronuncia di merito, cioè che svolge l'accertamento sul modo di essere della situazione creditoria dedotta con il ricorso monitorio, all'esito della quale l'opposizione viene respinta e detta situazione viene riconosciuta esistente, il giudicato individua esistente detta situazione (anche quanto abbia ritenuto, in ipotesi, che essa non vi era al momento della pronuncia del decreto, il che potrà incidere eventualmente sulle spese della fase monitoria) nel momento in cui sopravviene, con la conseguenza che tutti i fatti rilevanti in relazione alla situazione stessa risulteranno coperti dal giudicato (salva la questione del se restino deducibili con l'opposizione all'esecuzione, eventuali fatti sopravvenuti dopo la rimessione in decisione della controversia poi passata in giudicato, perchè la parte non li ha potuti dedurre e perchè non aveva interesse a farli valere con l'impugnazione).
Ne segue che la situazione azionata con siffatto titolo (salvo quanto appena indicato) certamente risulta accertata al momento della sentenza di rigetto e non a quello della pronuncia del decreto.
Ma, indipendentemente da ciò, poichè l'art. 2495 c.c. nuovo testo assume come oggetto di disciplina "il poter far valere crediti verso la società" dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, contro i soci e, gradatamente, contro i liquidatori, la mera applicazione della norma transitoria del D.Lgs. n. 6 del 2003, art. 10 che rendeva applicabile la norma dal 1 gennaio 2004, comporta che essa e non l'art. 2456 c.c. fosse idonea a regolare l'agire verso i soci ed i liquidatori dopo detta data e ciò anche a prescindere dalla verificazione prima di essa oppure dopo di essa della cancellazione della società.
Ciò si osserva anche a prescindere dalla circostanza che la norma dell'art. 2495 ripropone la disciplina dell'art. 2456, essendo l'unico elemento innovativo quello sulla proclamazione espressa della estinzione della società, irrilevante ai fini della posizione di responsabilità di soci e liquidatori, disciplinata appunto in modo identico.
Nella specie, peraltro, la cancellazione della società si dice avvenuta l'8 ottobre 2004 e, dunque, dopo l'entrata in vigore dell'art. 2495 nuovo testo.
Norma per la quale, per le stesse ragioni di quelle espresse a proposto dell'art. 2456 deve affermarsi il principio di diritto identico a quello per essa affermato, con l'aggiunta del rilievo che l'esegesi già prospettabile per la norma vecchia è ora nella nuova rafforzata dalla introduzione nell'attuale suo comma 2 del secondo inciso che dispone che la domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società: è, infatti, palese che, se il legislatore del 2003 ha espressamente disciplinato il luogo di notificazione della domanda no ha fatto altro che confermare che per far valere la responsabilità di soci e liquidatori è necessario svolgere una domanda, il che palesa che il titolo esecutivo contro la società no è azionabile contro detti soggetti.
Si deve allora esprimere il seguente principio unitario: Tanto secondo il regime dell'art. 2456 c.c. (nel testo ante riforma di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003), quanto secondo il regime della norma di contenuto identico sul punto dell'art. 2495 c.c., il disposto per cui dopo la cancellazione della società i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi, si doveva e si deve ora rispettivamente interpretare nel senso che non consentiva e non consente al creditore della società di far valere direttamente il titolo esecutivo ottenuto contro la società nei confronti del liquidatore, ma lo onerava di formarsene uno nei suoi riguardi, tanto più essendo la responsabilità del medesimo derivante solo da sua colpa. La norma, infatti, non prevedeva affatto l'estensione dell'efficacia del titolo esecutivo de quo, ma si limitava a prevedere una fattispecie sostanziale in forza della quale i crediti contro la società, una volta avvenuta la cancellazione diventavano esercitabili dapprima contro i soci entro certi limiti e, quindi, contro i liquidatori in presenza di una loro colpa per il mancato pagamento e, quindi, sulla base di un ulteriore fatto costitutivo. La norma in tal modo aveva solo l'effetto di rendere esercitabile un diritto contro la società nei confronti del liquidatore e, tra l'altro non in via automatica, bensì ricorrendo altri fatti costitutivi riferibili allo stesso liquidatore. Ne derivava che, quando il credito verso la società fosse stato già accertato giudizialmente rispetto alla società anche con un giudicato, esso, se era di per sè opponibile ai soci ed ai liquidatori quanto al detto accertamento, non escludeva la necessità per il creditore - espressa dal "far valere" - di agire in giudizio contro gli uni e, gradatamente, gli altri per l'accertamento rispettivamente del fatto costitutivo della consecuzione di somme in sede di bilancio finale (oltre che della loro qualità di soci) e del fatto costitutivo della loro colpa per il mancato pagamento (oltre che della loro qualità di liquidatori), onde a maggior ragione nessuna estensione dell'efficacia esecutiva del titolo esecutivo contro la società si poteva configurare.

p.7. Con il quinto motivo si denuncia letteralmente "inammissibilità dell'accertamento della responsabilità extracontrattuale del "liquidatore", ex art. 2495 c.c. in relazione all'accertamento contenuto nella sentenza del tribunale ordinario di Velletri - sezione distaccata di Albano Laziale - n. 119/06 del 7.11.05/28.3.2006. Inammissibilità costituente prova di quanto dedotto ed eccepito nel primo motivo. Violazione del principio generale "tempus regit actum".

p.7.1. Il motivo è inammissibile
La sua illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto:
dica la Corte se sia stato violato, o meno, il generale principio di diritto, secondo cui tempus regit actum.
E' palese l'assoluta genericità del riportato quesito.
p.7.2. Il motivo sarebbe stato, peraltro, privo di fondamento al lume di quanto osservato riguardo al motivo precedente, atteso che nella sua illustrazione si torna a prospettare la tesi che l'art. 2495 c.c. non sarebbe stato applicabile perchè l'accertamento del credito verso la società sarebbe stato effettuato all'epoca della pronuncia del decreto ingiuntivo e, quindi, anteriormente all'entrata in vigore del nuovo art. 2495 c.c., onde il Tribunale avrebbe errato nel prospettarsi la questione interpretativa di detta norma in ordine alla insussistenza della qualità di titolo esecutivo nei confronti del L. della sentenza di rigetto dell'opposizione al decreto.
p.8. Il consolidamento della sentenza impugnata riguardo alla statuizione di accoglimento dell'opposizione all'esecuzione a questo punto, in base al principio affermato nel paragrafo 3. comporterebbe l'inammissibilità del primo motivo riguardante la statuizione di accoglimento dell'opposizione agli atti. L'inammissibilità conseguirebbe alla constatazione della sopravvenuta carenza di interesse all'esame del motivo.
La Corte ritiene, peraltro, opportuno esaminare la questione posta dal motivo nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3.
p.8.1. Il motivo fa valere "violazione di norme di diritto" con riferimento all'esegesi fornita dal Tribunale riguardo al disposto del secondo inciso del nuovo art. 2495 c.c., comma 2 là dove, dopo aver ribadito il precetto sopra ricordato in ordine alla possibilità di far valere contro soci e liquidatori i crediti verso la società dopo la sua cancellazione, dispone che ®la domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l'ultima sede della società.
Vi si prospetta che erroneamente il Tribunale avrebbe accolto l'opposizione agli atti in ordine alla irritualità della notificazione del titolo esecutivo (ipoteticamente, a questo punto) rappresentato dalla sentenza di rigetto dell'opposizione al decreto ingiuntivo pronunciata contro la società e del relativo precetto presso la sede della società, reputando che, in quanto essa era stata eseguita oltre l'anno dalla cancellazione della società (ed a quel che sembra sostenere la ricorrente era stata seguita dal perfezionamento per la compiuta giacenza, mentre la sentenza impugnata afferma che venne opposto rifiuto alla ricezione), doveva reputarsi inesistente e non nulla, con la conseguenza che nemmeno poteva reputarsi sanata dalla proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi da parte del L..
La valutazione del Tribunale in ordine alla inesistenza risulta pienamente giustificata, sia pure per una ragione che si colloca a monte della ragione da esso individuata nella circostanza che era avvenuta oltre l'ano dalla cancellazione della società.
Invero, la norma del secondo inciso dell'art. 2495 c.c., nel prevedere che le domande contro i liquidatori (o i soci) prevista dal primo inciso possa notificarsi presso la sede della società si riferisce alle domande e, data la sua eccezionalità, non si presta ad essere intesa come legittimante, sia pure entro l'anno e, quindi, a maggior ragione oltre l'anno, che a tali soggetti possa notificarsi presso quella sede il titolo esecutivo ed il precetto, in deroga alla norma ordinaria dell'art. 479 c.p.c., comma 2, (e ciò tanto nell'attuale testo, quanto in quello anteriore alla modifica di cui al D.L. n. 273 del 2005, convertito, con modificazioni, nella L. n. 51 del 2006, che era applicabile nel caso di specie), ove il creditore abbia ottenuto il titolo esecutivo contro di essi entro l'anno dalla cancellazione e voglia iniziare sulla base di esso l'azione esecutiva.
La difformità dal modello legale di cui a detta norma, riguardava, dunque, l'utilizzo di una forma di notificazione che non è consentita in ogni caso con riferimento alla notificazione del titolo esecutivo formatosi contro il socio o il liquidatore entro l'anno dalla cancellazione della società. Si tratta di una difformità che è di tale rilievo e che segna uno scostamento dal modello legale dell'art. 479 c.p.c., comma 2, da dare luogo alla conseguenza del doversi considerare inesistente.
Per questa ragione nemmeno poteva predicarsi che la proposizione dell'opposizione avrebbe potuto sanare il vizio della notificazione del titolo esecutivo e del precetto (in termini Cass. (ord.) n. 23894 del 2012), non senza considerare ulteriormente che l'opposizione venne proposta avverso il pignoramento ben oltre il termine entro il quale avrebbe potuto proporsi un'opposizione tempestiva ai sensi dell'art. 617 c.p.c. (essendo avvenuta la notificazione inesistente il 13 novembre 2006 ed essendo state proposte le due opposizioni il 14 febbraio 2007 contro il pignoramento del 25 gennaio precedente.
Il principio di diritto che avrebbe dovuto applicare il Tribunale è il seguente: La norma dell'art. 2495 c.c., comma 2, secondo inciso là dove ammette che entro l'anno dalla cancellazione le "domande" proponibili contro i soci o i liquidatori, previste dal primo inciso di detto comma, possano notificarsi presso la sede sociale della società cancellata dal registro delle imprese dev'essere interpretata restrittivamente e, conseguentemente, non può riguardare la notifica del titolo esecutivo e del precetto che il creditore, in ipotesi, ottenga entro l'anno contro detti soggetti, che resta regolata dal secondo comma dell'art. 479 c.p.c. Ove detta notificazione sia effettuata deve considerarsi inesistente.
p.9. Il ricorso è conclusivamente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro tremiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile il 12 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2014


 

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