Il nostro ordinamento non prevede il diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto a favore del coniuge legalmente separato e, tutto ciò, non solo rappresenta una discriminazione, ma è una grave lacuna del nostro sistema legislativo che viola i principi costituzionali.
Il coniuge, infatti, non viene tutelato sufficientemente e, sempre più frequentemente, capita di trovarsi dinanzi a situazioni in cui volontariamente il coniuge ottiene il TFR proprio in una fase immediatamente successiva alla separazione, a discapito del coniuge più debole.

A tal proposito giova far presente che in passato è stato proposto un disegno di legge finalizzato a equiparare le posizioni dei coniugi separati e divorziati.
La Senatrice Castellati, con il disegno di legge n. 154, propose appunto di garantire parità di trattamento tra coniuge separato e coniuge divorziato, collocando il sorgere del diritto all’indennità di fine rapporto al momento della sentenza di separazione personale o, in alternativa, al momento della sentenza di divorzio se non preceduto da separazione.
Attualmente, sulla base dell’articolo 12- bis della legge 1º dicembre 1970, n. 898, – e successive modificazioni, il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare di assegno ai sensi dell’articolo 5 della medesima legge, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza.
Tale percentuale è pari al 40 per cento dell’indennita totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro e coinciso con il matrimonio.


E' evidente, dunque, la discriminazione che avviene ogni volta che il TFR venga percepito dall’altro coniuge nell’arco di tempo che intercorre tra il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (che lo veda appunto titolare di un assegno di mantenimento) e quello della sentenza di divorzio.
Per far fronte a questa discriminazione e alla mancata attuazione dei disegni di legge presentati, si va sempre più consolidando l'orientamento secondo il quale il coniuge, seppur non beneficiario della quota pari al 40% del TFR, ha comunque diritto a un adeguamento dell'assegno in virtù delle variazioni reddituali sopraggiunte.

La Cassazione, con sentenza n. 1096/2005, ha stabilito appunto che se il TFR viene percepito in pendenza di giudizio di separazione, si apporta un miglioramento della condizione patrimoniale che inevitabilmente andrà a incidere solo sulla situazione economica del coniuge tenuto a corrispondere l'assegno di mantenimento e, di conseguenza, sussisterà una legittimazione a modificare le condizioni di separazione a causa di un incremento reddituale.
Come già ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 5553/2009, "la determinazione dell'assegno può solo incidere sulle condizioni economiche del coniuge obbligato e legittimare una modifica delle condizioni della separazione, ai sensi dell'art. 710 c.p.c. Ciò malgrado, secondo la tesi qui contestata, qualora sopravvenga il divorzio, sorgerebbe un obbligo, per chi ha ricevuto l'indennità, a prescindere dal momento in cui la stessa è maturata, di corrisponderne una quota all'ex coniuge, con la conseguenza, da un lato, che quest'ultimo verrebbe a beneficiare due volte della stessa (prima, con il godimento della stessa e con l'attribuzione di un più elevato assegno di mantenimento, e, poi, con la percezione della quota legalmente fissata) e, dall'altro, si imporrebbe un obbligo di accantonamento in funzione di un evento futuro ed incerto quale la pronuncia di divorzio, in contrasto con gli enunciati principi. Dimostrata la contrarietà della soluzione contrastata ai principi regolatori di altri istituti - senza escludere una sua non manifestamente infondata censura di costituzionalità in riferimento all'art. 3 cost. - si tratta di accertare se, sulla base della dizione letterale della norma, sia possibile fornire una interpretazione che salvi tali principi. Ritiene il Collegio che sia necessario prendere le mosse dalla natura costitutiva, pacificamente ammessa, della sentenza di divorzio, nonché dal principio enunciato dalla legge n. 74 del 1987, secondo cui, malgrado tale natura, il tribunale può disporre, a norma dell'art. 4, comma 10, legge n. 898 del 1970 (nuovo testo), che l'obbligo di corrispondere l'assegno produca effetti fin dal momento della domanda."

Da un'analisi della problematica emerge quindi che, se è pur vero che permane una discriminazione tra coniuge separato e divorziato, allo stesso modo l'ordinamento non esclude affatto la possibilità di tener conto dell'incremento patrimoniale per "nuovi fatti sopraggiunti" con conseguente rideterminazione dell'assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole.

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