La Corte Costituzionale, con sentenza n.241 pubblicata in data 20.11.2017, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 152, ultimo periodo, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, come modificato dall’art. 38, comma 1, lettera b), n. 2, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 15 luglio 2011, n. 111.

La disposizione sanzionava, nei giudizi per prestazioni previdenziali, con l’inammissibilità del ricorso, l’omessa indicazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, il cui importo deve essere specificato nelle conclusioni dell’atto introduttivo.

Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge che introdusse la norma, si chiariva che tale l’obbligo di dichiarazione del valore della prestazione aveva lo scopo di commisurare a tale valore il limite massimo alla liquidazione delle spese processuali (già introdotto dalla legge n. 69 del 2009), intendendosi così "«scoraggiare fenomeni elusivi consistenti nella prassi di non quantificare il petitum, limitandosi a richiedere un accertamento generico ovvero indicando valori generici o richieste non sufficientemente quantificate» ed evidentemente pretestuose."

La Corte di Appello di Torino, sezione Lavoro, ha promosso il giudizio di legittimità costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, comma 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (CEDU), "poiché la sanzione dell’inammissibilità del ricorso costituirebbe una reazione sproporzionata ed irragionevole, rispetto all’obiettivo avuto di mira dal legislatore, di evitare, nei giudizi per prestazioni previdenziali, le liquidazioni di spese processuali esorbitanti rispetto al valore della controversia."

La Corte Costituzionale ritiene fondata l'eccezione d'incostituzionalità.
Partendo dalla lettura dell’ultima parte dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., oggetto di censura, congiuntamente alla previsione del capoverso immediatamente precedente, introdotto dall’art. 52 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), che stabilisce che il giudice, nei giudizi per prestazioni previdenziali, non può liquidare spese, competenze ed onorari superiori al valore della prestazione dedotta in giudizio, la Corte ritiene che quest'ultima previsione è di per sé sola già idonea a perseguire pienamente lo scopo perseguito dal Legislatore di evitare liti bagatellari.

"In particolare" - afferma la Corte - "essa è chiamata ad operare nel momento della liquidazione delle spese, normalmente coincidente con la fine del giudizio, quando il giudice conosce il valore della prestazione. Pertanto egli non avrà bisogno della quantificazione contenuta nell’atto introduttivo, ma sarà sottoposto al vincolo derivante dal limite legale imposto alla liquidazione."

Pertanto, le conseguenze sfavorevoli derivanti dalla norma censurata non sono adeguatamente bilanciate dall’interesse ad evitare l’abuso del processo che è già efficacemente realizzato dalla disciplina introdotta dalla novella di cui all’art. 52 della legge n. 69 del 2009.

Ritenuta pertanto l’eccessiva gravità della sanzione e delle sue conseguenze, rispetto al fine perseguito, la Corte dichiara la manifesta irragionevolezza dell’art. 152 disp. att. cod. proc. civ., ultimo periodo, il quale prevede che «A tale fine la parte ricorrente, a pena di inammissibilità di ricorso, formula apposita dichiarazione del valore della prestazione dedotta in giudizio, quantificandone l’importo nelle conclusioni dell’atto introduttivo».

Avv. Gennaro Esposito
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