REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI IASI Camilla - Presidente -
Dott. GRECO Antonio - Consigliere -
Dott. CIGNA Mario - Consigliere -
Dott. FERRO Massimo - rel. Consigliere -
Dott. FEDERICO Guido - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t, rappr. e dif. dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, elett. dom. nei relativi uffici, in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
- ricorrente -
contro
API s.p.a., in persona del l.r.p.t, rappr. e dif. dall'avv. TINELLI GIUSEPPE e dall'avv. Giovanni Girelli, elett. dom. presso lo studio degli stessi in Roma, via Quattro Fontane n. 15, come da procura a margine dell'atto;
- controricorrente e ricorrente in via incidentale -
per la cassazione della sentenza Comm. Tribut. Reg. di Roma 5.9.2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 27 marzo 2014 dal Consigliere relatore Dott. Massimo Ferro;
uditi l'avvocato Bruno Dettori per l'Avvocatura dello Stato e l'avvocato Giuseppe Tinelli per la controricorrente;
udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso incidentale e l'accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale.

Motivazione

IL PROCESSO.
Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Roma 5.9.2006 che, in conferma della sentenza C.T.P. di Roma n. 85/54/2003, ebbe a rigettare l'appello dell'Ufficio, così ribadendo l'illegittimità dell'avviso di accertamento ai fini IRPEG ed ILOR condotto per l'anno 1994 ed implicante un maggior reddito, a quei fini, di L. 31.844 e rispettivamente L. 23.308 milioni circa, con conseguente maggior debito d'imposta di L. 7.206 e 3.242 milioni circa, oltre a sanzioni irrogate per L. 10.649 milioni circa, nonchè dell'avviso di rettifica parziale IVA, in relazione al 1996, disconosciuta per L. 3.825 milioni circa e sanzionata per L. 7.654 milioni circa.
Ritenne la C.T.R. la non fondatezza del complessivo recupero a tassazione, imputato dall'Ufficio quanto al 1994 e relativo al costo di lavorazione incluso nelle rimanenze finali, asseritamente esposte per importi inferiori rispetto al computo D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 59; il secondo rilievo non condiviso concerneva la deduzione di quota parte del compenso erogato a favore della API Raffineria Ancona s.p.a., ritenuta non inerente; il terzo recupero aveva ad oggetto l'indebita deduzione di quote di ammortamento per L. 933 milioni circa, negandosi che il terreno su cui insistevano le stazioni di servizio fosse parte strutturale dell'impresa.
Per la C.T.R., tutti i rilievi dell'appellante avevano rinvenuto adeguata disamina, operando il rinvio a precedenti di merito quale richiamo alla condivisione del relativo fondamento, il recupero a tassazione del valore delle rimanenze finali non poteva basarsi su una portata, invero non cogente, di principi contabili elaborati dal Consiglio nazionale dei Dottori commercialisti e da quello dei ragionieri, la valutazione delle rimanenze era stata effettuata nel rispetto dell'art. 76 TUIR apprezzando i componenti di costo imputabili direttamente al processo produttivo e le disposizioni dell'accordo contrattuale stipulato con la società di raffinazione, secondo un criterio costante ed omogeneo, nessun componente di costo era risultato estraneo al processo produttivo in difetto dei presupposti del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, nè erano ingiustificate le spiegazioni sull'intensità d'uso degli impianti ed il conseguente più corto ciclo d'ammortamento. La legittimità delle detrazioni IVA, per parte sua, derivava dalla riconosciuta inerenza dei costi dei servizi acquisiti.

Quanto poi alle quote d'ammortamento relative alle stazioni di servizio, si trattava di concetto da intendere in senso unitario, non potendosi scindere i componenti immobiliari, cioè fabbricati e terreni, dai macchinali di pompaggio finale, trattandosi di immobili altrimenti privi di autonomia funzionale. L'unico coefficiente di ammortamento valeva pertanto anche per serbatoi e condutture, oltre che erogatori di riserva.
Il ricorso è affidato a sette motivi, cui resiste con controricorso la società contribuente, che si è costituita altresì con ricorso incidentale, su due motivi ed ha poi depositato memoria con documenti.

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE.
Con il primo motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, contestando che la C.T.R. abbia considerato come correttamente deducibili costi per L. 19.963 milioni circa definiti tra PAPI s.p.a. e la sua controllata (integrale), la società di raffineria, e in realtà superiori a quelli di mercato.

Con il secondo motivo, come vizio di motivazione, viene denunciata l'insufficiente giustificazione connessa alla supposta mancata prova di comportamento finalizzato all'elusione o evasione fiscale.

Con il terzo motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 5, nonchè dei principi in materia di abuso del diritto, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, contestando che la C.T.R. abbia disconosciuto che, almeno in tema di detrazione IVA, andava applicato il citato divieto, trattandosi di operazione volta solo a conseguire un risparmio d'imposta e non giustificata da valide ragioni economiche.

Con il quarto motivo, si deduce violazione e falsa applicazione del D.M. 31 dicembre 1988, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, censurandosi la pronuncia ove essa ha invece ammesso un identico coefficiente di ammortamento (del 12.5%) sia per le stazioni di servizio sia per le costruzioni ivi insistenti, beni invece da assoggettare alla minore aliquota del 5.5.%, propria dei fabbricati industriali.

Con il quinto motivo, il ricorrente ha dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione ancora del D.M. 31 dicembre 1988, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, censurandosi la pronuncia ove essa ha riconosciuto tra i beni ammortizzabili i terreni su cui insistono gli impianti di erogazione ed i fabbricati asserviti, nulla disponendo al riguardo il cit. D.M., trattandosi invero di beni non soggetti a deperimento e consumo.

Con il sesto motivo, si deduce di nuovo vizio di violazione e falsa applicazione del D.M. 31 dicembre 1988, e del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, censurandosi la pronuncia ove essa ha riconosciuto tra i beni ammortizzabili anche gli erogatori, tenuti in realtà in deposito e benchè non impiegati nei propri impianti di distribuzione di carburante.

Con il settimo motivo, viene avanzato il vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria circa fatto controverso e decisivo, ex art. 360 c.p.c. n. 5, poichè, ancora a proposito dell'ammessa ammortizzabilità del costo degli erogatori tenuti a disposizione, la C.T.R. non ha adeguatamente motivato circa la finalizzazione di tali scorte a situazioni di emergenza, non avvedendosi che si trattava di semplici pezzi di ricambio.

Con il primo motivo del ricorso incidentale, viene fatta valere la violazione ovvero falsa applicazione dell'art. 2909 c.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, avendo omesso la C.T.R. di rilevare il giudicato interno formatosi sulla questione dell'integrale deducibilità del corrispettivo di raffinazione, stante la mancata contestazione, da parte dell'ufficio, della ragione adottata dalla C.T.P. in punto di preclusione del sindacato erariale sull'atto.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale, viene fatta valere ancora la violazione dell'art. 2909 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, avendo omesso la C.T.R. di rilevare il giudicato esterno, spiegato da decisioni della C.T.R. Roma passate in giudicato, afferenti alla medesima questione relativa ad altre annualità oggetto di rettifica IVA.

1. I primi due motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono fondati. La deducibilità di costi per complessivi 18.963 milioni Lit circa, pagati dalla società contribuente alla propria (interamente) partecipata, ha rinvenuto una giustificazione, nella pronuncia oggetto di censura, essenzialmente fondata sul rilievo decisivo della coerenza esterna delle relative pattuizioni, trattandosi dunque di un'assunzione di prezzo conforme all'accordo fra le due parti e, per altro verso, frutto di un criterio già usato negli esercizi precedenti, circostanze tali da porre al riparo l'operazione da una sovraqualificazione in termini di intenti di evasione o elusione impositiva.
Ritiene il Collegio che la decisione abbia contravvenuto, in più punti, a principi consolidati posti da tempo a regolazione dello scrutinio, a fini fiscali, dei costi sostenuti dall'imprenditore e da riferire all'attività o ai beni da cui, ai sensi dell'art. 75, comma 5, TUIR ratione temporis vigente, derivano ricavi o altri proventi che concorrano a formare il reddito, condizione imprescindibile della deducibilità stessa.
In tema, questa S.C. ha statuito che, per la determinazione del reddito d'impresa, ai fini dell'apprezzamento a scopi fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente portata generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto natura e rilevanza contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, comma 3, cit: il pretto o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servici della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente, conseguendone che il Fisco non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato (sin da Cass. 10802/2002).
Più recentemente, è stato fissato il criterio per cui, in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economiche apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass. 1372/2011, 21390/2012). Il predetto divieto si traduce poi nel citato principio generale antielusivo, che trova fondamento nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, secondo il quale l'Amministrazione finanziaria disconosce e dichiara non opponibili le operazioni e gli atti, privi di valide ragioni economiche, diretti solo a conseguire vantaggi fiscali, in relazione ai quali gli organi accertatoli emettono avviso di accertamento, applicano ed iscrivono a ruolo le sanzioni di cui al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2, comminate dalla legge per il solo fatto di avere il contribuente indicato in dichiarazione un reddito imponibile inferiore a quello accertato, rendendo così evidente come il legislatore non ritenga gli atti elusivi quale criterio scriminante per l'applicazione delle sanzioni, che, al contrario, sono irrogate quale naturale conseguenza dell'esito dell'accertamento volto a contrastare il fenomeno dell'abuso del diritto (Cass. 25537/2011, 21782/2011, 11236/2011).

2. Una lunga evoluzione ha infine permesso di adeguare anche alle operazioni nel mercato interno, cioè fra soggetti regolati dal medesimo ordinamento, la questione del transfer pricing, essendosi stabilito che nella valutazione a fini fiscali delle manovre sul trasferimento dei prezzi tra società facenti parte di uno stesso gruppo ed aventi tutte sede in Italia, va applicato il principio, avente valore generale e dunque non circoscritto ai soli rapporti internazionali di controllo, stabilito dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, che - si è ripetuto - non ha mera portata contabile ed impone il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi presi in considerazione dal contribuente, trattandosi invero di clausola antielusiva, costituente esplicazione del generale divieto di abuso del diritto in materia tributaria, essendo precluso al contribuente conseguire vantaggi fiscali - come lo spostamento dell'imponibile presso le imprese associate - mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici (Cass. 17955/2013).
Aggiunge il Collegio che il diritto dell'UE non contiene un principio a regolazione diretta in tema di transfer pricing interno e tuttavia, già con la raccomandazione del 6 dicembre 2012, la Commissione incoraggia una disciplina uniforme sul contrasto alla pianificazione fiscale aggressiva in materia di imposte sul reddito, potendosi ricavare da tale iniziativa che, nella materia, gli Stati membri possono allo stato - in attesa di una disciplina uniforme ancora solo auspicata - prevedere e stigmatizzare ipotesi di operazioni abusive anche non conformi ai modelli comunitari. Si è così raccomandato di considerare (punto 4.2.) che "Una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l'imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro sostanza economica". Si tratta di un contesto di tendenziale convergenza normativa il quale se non vincola, comunque già ora non ostacola ed anzi permette di censire un'interpretazione - ai limitati fini della tassazione diretta e come deciso anche nel precedente sopra citato - delle operazioni con parte di prezzo eccedente il valore di mercato, soprattutto ed anche in una logica intragruppo, da considerare sintomatiche di pratica abusiva, ove avente come essenziale scopo un risparmio d'imposta, senza altre rilevanti ed apprezzabili ragioni economiche. Va invero tenuto conto, per quanto emerso in fatto, che oltre al prezzo difforme dal c.d. valore normale si riscontrano univoci elementi relativi alla finalità di pareggiare i risultati di bilancio della partecipata, così evitando l'emersione di un risultato negativo, spostandosi il carico fiscale sui costi patiti dalla controllante, disponibile ad acquisirne le prestazioni ad un valore alterato. Si tratta di circostanze coerentemente evidenziate dall'Ufficio sin dall'atto di accertamento, ordinatamente riportate negli atti del giudizio di cassazione e prive di contestazione specifica della controparte, così manifestandosene l'idoneità a sorreggere un giudizio di interesse assorbente e primario del contribuente al comportamento abusivo.

3. La peculiarità del caso qui esaminato concerne infatti una vicenda in cui la società controllata, non interessata direttamente al presente giudizio ed economicamente fruitrice del prezzo contestato perchè eccedente quello normale, non godeva di un regime speciale di favore (come invece nella vicenda trattata in Cass. 17955/13), bensì risulta aver fatturato alla controllante - contribuente prestazioni analoghe a quelle che quest'ultima ha provatamente retribuito, ma per prezzi sensibilmente inferiori, ad altre società del settore della raffinazione. Si tratta dunque di circostanza, puntualmente riportata in ricorso e descrittiva di un raffronto di sproporzione evidente, di per sè gravemente indiziante della estraneità del prezzo praticato rispetto a quello normale, e sulla quale la C.T.R. non ha offerto un appagante quadro giustificativo, di logica plausibilità. La pronuncia censurata da un lato si è limitata a circoscrivere il proprio giudizio di correttezza della sentenza di primo grado enfatizzando la corrispondenza dei rilievi di cui agli atti impositivi ed il rispettivo esame critico ad opera della C.T.P. (senza però riprenderne il contenuto, almeno per punti essenziali, nè esponendo quale fosse il proprio convincimento di fondatezza dell'impugnazione originaria e perciò su quali criteri probatori specifici doveva essere respinto l'appello) e, dall'altro, ha enunciato la l'autosufficienza probatoria del citato accordo delle parti, attribuendo ad esso una obiettiva portata di indiscutibilità, tale cioè da escludere, inammissibilmente, che la ricostruzione del corrispettivo delle prestazioni esaminate potesse trovare anche altre fonti concorrenti nella relativa individuazione.

4. Tanto più che, si osserva ancora, rientra nei poteri dell'Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d'impresa, con possibile negazione della deducibilità di un costo ritenuto insussistente o sproporzionato, non essendo l'Ufficio vincolato ai valori o ai corrispettivi indicati nelle delibere sociali o nei contratti. Si tratta di principio affermato dalla S.C. proprio con riguardo ai costi delle operazioni di raffinazione del greggio, contrattualmente commissionate dalla società contribuente (l'attuale controricorrente) ad un'altra società da essa interamente controllata (la medesima cui si riferisce l'avviso di accertamento oggetto di controversia), ed oggetto di rideterminazione nel proprio ammontare da parte del Fisco, alla luce del divario tra il costo unitario indicato nelle rimanenze e quello, maggiore, appostato tra i costi (Cass. 9497/2008, avente riguardo ad IRPEG ed ILOR del 1992; a sua volta Cass. 8773/2008, ancora fra le stesse odierne parti, ha accolto il ricorso di Agenzia delle Entrate per la sostanziale mancanza di motivazione della sentenza di C.T.R. Roma 14.6.2004 in tema di accertamento IRPEG ed ILOR del 1993). Tali considerazioni spiegano altresì il rigetto del primo motivo del ricorso incidentale, non potendosi affermare la sussistenza di alcun giudicato interno, stante il tenore della complessiva contestazione della pronuncia di merito di primo grado, quale promossa dall'Agenzia delle Entrate che, coerentemente e nell'ambito di tutto il giudizio, ha avversato la deducibilità dei costi di raffinazione del greggio per come elevati ad elementi incidenti sulla composizione finale del reddito della società contribuente.

5. Il terzo motivo non è fondato, ostando al suo accoglimento la non automatica applicabilità dei medesimi principi in materia di detraibilità dell'IVA, che sarebbe da disconoscere in relazione ad operazioni connotate da una mera finalità di elusione o risparmio d'imposta, connessa alla descritta ingiustificata deduzione di costi superiori a quelli di mercato, dovendosi mantenere fermo il principio per cui, d'ordinario e per tale tributo, il diritto alla citata detrazione - in ragione di costi antieconomici sostenuti dal contribuente - resta ispirato al criterio della neutralità, in base al quale ogni fornitore o prestatore di servizio che abbia corrisposto l'IVA può dettarla dai costi sostenuti ed interrompendosi il meccanismo solo allorchè il bene o il servizio siano resi al consumatore finale. In una diversa vicenda, posta la regola della non immediata applicazione dei principi espressi con riguardo all'imposizione diretta, questa Corte ha tuttavia ipotizzato che se l'Amministrazione finanziaria dimostri l'antieconomicità manifesta e macroscopica dell'operazione, esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, la circostanza potrebbe anche assumere rilievo quale indizio di non verità della fattura e, dunque, di non verità dell'operazione stessa o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all'utilizzo per operazioni assoggettate ad IVA; in tal caso spetterebbe all'imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o servizio è reale ed inerente all'attività svolta (così Cass. 22130/2013 e Cass. 22132/2013). Tali circostanze non sono state tuttavia nè dimostrate nè allegate dall'Amministrazione, che ha mantenuto in una sostanziale e sola censura di alterazione irrealistica del prezzo l'area di rivisitazione critica della citata operazione, senza inficiarne l'effettività, in punto di inerenza ed esistenza della prestazione, altra nozione configurando il difetto di valore normale del corrispettivo pattuito e versato tra le parti. Sulla questione della legittimità dell'operato dell'Amministrazione finanziaria che provvede alla rettifica delle dichiarazioni dei contribuenti considerando antieconomiche determinate scelte imprenditoriali, in base al principio secondo cui chiunque svolga un'attività economica dovrebbe, secondo l'id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, in tal modo valutando negativamente, ai fini fiscali, le condotte improntate all'eccessività di componenti negativi o all'immotivata compressione di componenti positivi di reddito, la stessa possibilità di estensione dei principi giurisprudenziali affermati quanto alle imposte sui redditi (e sopra richiamati, e comunque Cass. 13813/2000 per ILOR, e poi 10650/2001, 11454/2001, 6599/2002, 21155/2005, 6497/2008, 9036/2013 e Cass. 13478/2001, 3243/2013, per IRPEG) si pone infatti problematicamente con riguardo all'IVA, trattandosi di tributo armonizzato alla disciplina posta con la Sesta Direttiva CEE (art. 7 Dir. 77/388/CEE del 17 maggio 1977), modificata fino alla Direttiva 28 novembre 2006 (2006/112/CEE). Osta invero, in via generale, alla citata applicazione diretta ed automatica dei principi relativi all'imposizione diretta l'ispirazione dell'IVA al principio di neutralità, mediante il riconoscimento ad ogni fornitore o prestatore di servizio che l'abbia corrisposta, per l'acquisto di beni o servizi, del potere di detrazione del tributo relativo ai costi sostenuti, così che ogni imprenditore è esonerato interamente dall'IVA dovuta o pagata nell'ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell'IVA è perciò volto a garantire la neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività, a prescindere dallo scopo o dai risultati di esse, purchè siano appunto assoggettabili al tributo, prevedendosi un'interruzione di detto esonero generale allorchè il bene o servizio venga reso al consumatore finale.

6. E' vero peraltro che l'art. 17 Sesta Dir. CEE riconduce il diritto alla detrazione all'esigibilità ed inerenza dell'acquisto del bene o servizio, senza contemplare alcun riferimento, e comunque non in modo diretto, al valore del bene o servilo. Al punto che, anche per la Corte Europea, la circostanza che un'operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato appare irrilevante (Corte giust. 20 gennaio 2005, causa C- 412/03, Hotel Scandic Gasabach, p.22). Nè vi sarebbe elusione od evasione fiscale se anche i beni o i servizi sono forniti a prezzi artificialmente bassi o elevati fra le parti, che godano entrambe del diritto a detrazione IVA, essendo solo a livello del consumatore finale che può ricorrere perdita di gettito fiscale (Corte giust. 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan, p.47). La base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio effettuate a titolo oneroso è costituita così dal corrispettivo effettivamente ricevuto dal soggetto passivo ed esso rappresenta il valore soggettivo, realmente percepito e non un valore stimato secondo criteri oggettivi (Corte giust. 19 dicembre 2012, causa C-549/11, p. 48-49; Corte giust. 26 aprile 2012, cit., p.43; Corte giust. 5 febbraio 1981, Cooperative Aardappelenbewaarplaats, 154/80, p.13), secondo un indirizzo ribadito anche per operazioni di gruppo (Corte giust. 9 giugno 2011, causa C-285/10, Campsa Estaciones de Servicio SA, p.27) e precisato per la portata restrittiva, a lettura tassativa, da conferire all'art.8O Dir. 2066/112/CEE ove si autorizzano gli Stati membri, per prevenire l'elusione o l'evasione fiscale, a fissare la base imponibile al valore normale se le operazioni si svolgano verso destinatari in particolare legame, anche proprietario o giuridico-finanziario (Corte giust. 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan, p. 52). Così e da ultimo, in tema di metodo per la determinazione della base imponibile fiscale per gli elementi patrimoniali esistenti al momento della cancellazione dal registro IVA di un soggetto, l'art. 74 Dir. 2006/112 dev'essere interpretato nel senso che osta a una disposizione nazionale la quale preveda che, in caso di cessazione dell'attività economica imponibile, la base imponibile dell'operazione sia il valore normale dei beni esistenti alla data di tale cessazione, salvo che tale valore corrisponda in pratica al valore residuo di detti beni a tale data e che in tal modo si tenga conto dell'evoluzione del valore di tali beni tra la data della loro acquisizione e quella della cessazione dell'attività economica imponibile (Corte giust. 8 maggio 2013, causa C-142/12, Marinov).
D'altronde, il regime delle detrazioni mira a sgravare interamente l'imprenditore dall'onere dell'IVA dovuta o pagata nell'ambito di tutte le sue attività economiche (Corte giust. 6 dicembre 2012, causa C-285/11): del tutto coerentemente, infatti, nella giurisprudenza dell'Unione il sistema comune dell'IVA garantisce, di conseguenza e come premesso, la perfetta neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purchè queste siano di per sè soggette all'IVA (v. sentenze del 14 febbraio 1985, Rompelman, 268/83, Racc. pag. 655, punto 19; del 15 gennaio 1998, Ghent Coal Terminal, C-37/95, Racc. pag. I-1, punto 15; Gabalfrisa e a., cit, punto 44; del 3 marzo 2005, Fini H, C-32/03, Racc. pag. 1-1599, punto 25; del 21 febbraio 2006, Halifax e a., C-255/02, Racc. pag. 1-1609, punto 78; Kittel e Recolta Recycling, cit, punto 48; del 22 dicembre 2010, Dankowski, C-438/09, Racc. pag. 1-14009, punto 24, nonchè Mahagèben e David, cit., punto 39).

7. Ribadita peraltro la non interferenza immediata del sistema di tassazione diretta con quello dell'IVA e l'assenza di vulnus al principio di non discriminazione (Corte giust. 17 marzo 2007, causa C- 35/05) di soluzioni normative differenziate, in condizioni normali non è consentito all'Amministrazione rideterminare il valore delle prestazioni e dei servizi acquistati dall'imprenditore escludendo il diritto a detrazione se il valore sia ritenuto antieconomico e dunque diverso da quello da reputare normale o comunque tale da produrre un risultato economico, una diversa verifica apparendo invece eccezionalmente ammessa - secondo un'apertura di questa Corte - allorchè "la riscontrata antieconomicità rilevi quale indizio di non verità della fattura, nel senso di non verità dell'operazione, oppure di non verità del presso o, ancora, di non esistenza dell'inerenza e cioè della destinazione del bene o del servigio acquistati ad essere utilizzati per operazioni assoggettate ad IVA" e perciò se "l'amministrazione riesce a dimostrare l'antieconomicità manifesta e macroscopica, come tale esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, spetterà all'imprenditore dimostrare che la prestazione del bene o del servizio presenta comunque le caratteristiche per ritenersi reale ed inerente rispetto all'attività svolta.... Potrà ancora accadere che l'antieconomicità costituisca indizio di abuso del diritto che, com'è noto, presuppone un uso "artificioso" di una forma giuridica e cioè l'uso concreto di essa non per l'affare per il quale essa è tipicamente prevista, ma per uno scopo diverso, univocamente ed esclusivamente rivolto a perseguire un indebito risparmio fiscale." (così Cass. 22130 e 22132/2013). Nella fattispecie, pur apparendo - come esposto per i primi due motivi - gravemente trascurato il quadro probatorio addotto dall'Ufficio, sin dall'avviso di accertamento con la ripresa a tassazione ai fini delle imposte sui redditi (evenienza assente nei precedenti di Cass.22132 e 22130/13 che, anche per tale aspetto e pur affermando il principio, non hanno regolato ad identico modo la vicenda, per diversità di fattispecie), non risulta violato il diverso principio che solo in casi eccezionali condurrebbe ad esigere la valorizzazione del collegamento tra la macroscopica antieconomicità dei costi sostenuti dalla controllante che riceva le prestazioni dalla controllata e portati in detrazione, da un lato, e la non verità dell'operazione o la non verità del prezzo, quale effetto di indicatori alternativi ai dati fattuali delle prestazioni pagate alla controllata e tuttavia non posti in discussione, essendo insufficiente in sè inteso il mero richiamo finalistico al proposito, comune alle parti del negozio, di occultare un risultato economico opposto altrimenti più negativo. Per tali ragioni, i precedenti citati non possono trovare applicazione alla presente vicenda.

8. Nè sussiste l'esigenza di approfondire un diverso significato dell'art.80 Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sull'IVA. Come noto, la citata disposizione prevede che: "1. Allo scopo di prevenire delusione 0 Invasione fiscale, gli Stati membri possono, nei seguenti casi, prendere misure affinchè, per la cessione di beni e la prestazione di servizi a destinatari con cui sussistono legami familiari o altri stretti vincoli personali, gestionali, di associazione, di proprietà, finanziari o giuridici quali definiti dallo Stato membro, la base imponibile sia pari al valore normale: a) se il corrispettivo è inferiore al valore normale e l'acquirente dei beni o il destinatario dei servici non ha interamente diritto alla detrazione ai sensi degli artt. da 167 a 171, e degli artt. da 173 a 177; b) se il corrispettivo è inferiore al valore normale e il cedente o prestatore non ha interamente diritto alla detrazione ai sensi degli artt. da 167 a 171, e degli artt. da 173 a 177 e l'operazione è esente ai sensi degli artt. 132, 135, 136, 371, 375, 376 e 377, dell'art. 378, paragrafo 2, dell'articolo 379, paragrafo 2 o degli artt. da 380 a 390; c) se il corrispettivo è superiore al valore normale e il cedente o prestatore non ha interamente diritto alla detrazione ai sensi degli artt. da 167 a 171 e degli artt. da 173 a 177. Ai fini del primo comma, i vincoli giuridici possono comprendere il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente, la famiglia del lavoratore dipendente o altre persone strettamente collegate al lavoratore dipendente". Già nelle cause riunite 621-10 e C-129/11 il giudice del rinvio aveva chiesto "se l'art. 80, paragrafo 1, della direttiva IVA debba essere interpretato nel senso che le condizioni da esso poste sono tassative o se può essere ammesso che la base imponibile sia pari al valore normale dell'operazione fra parti collegate in casi diversi da quelli espressamente previsti da tale disposizione, in particolare qualora il soggetto passivo abbia interamente diritto alla detrazione?".
Nella sentenza 26 aprile 2012 la Corte di giustizia ha risposto che "L'art. 73 della citata direttiva costituisce l'espressione di un principio fondamentale, il cui corollario è che l'amministrazione tributaria non può riscuotere a titolo dell'IVA un importo superiore a quello percepito dal soggetto passivo (v., in tal senso, sentenza del 3 luglio 1997, Goldsmiths, C-330/95, Racc. pag. 1-3801, punto 15). Nel consentire in taluni casi di considerare che la base imponibile sia pari al valore normale dell'operazione, l'articolo 80, paragrafo 1, della direttiva IVA. introduce un'eccezione alla norma generale prevista dall'articolo 73 di quest'ultima la quale, in quanto tale, deve essere interpretata restrittivamente (v. sentenze del 21 giugno 2007, Ludwig, CA53/05, Racc. pag. 1-5083, punto 21, nonchè del 3 marzo 2011, Commissione/Paesi Bassi, CA1/09, Racc. pag. 1-831, punto 58 e giurisprudenza ivi citata)". E pertanto, secondo i giudici dell'Unione, una normativa nazionale non può prevedere, sul fondamento di tale disposizione, che la base imponibile sia pari al valore normale dell'operazione in casi diversi da quelli elencati nella citata disposizione, in particolare qualora il soggetto passivo benefici del diritto a detrarre interamente l'imposta sul valore aggiunto, circostanza che spetta al giudice nazionale accertare. In vicende come quelle di cui ai procedimenti trattati, secondo la Corte di giustizia, il cit. art. conferisce alle società interessate il diritto di avvalersene direttamente al fine di opporsi all'applicazione di disposizioni nazionali incompatibili con tale norma. E pertanto nell'impossibilità di procedere ad un'interpretazione della normativa interna in conformità con tale articolo 80, paragrafo 1, il giudice del rinvio dovrebbe disapplicare qualsiasi disposizione di tale normativa che contrasti con esso.

9. L'esame del secondo motivo del ricorso incidentale è conseguentemente assorbito, per sopravvenuta carenza di interesse.

10. Quanto alla pretesa vincolatività delle statuizioni della decisione della C.T.P Roma del 19.3.2007 (passata in giudicato), anch'essa riportata con la memoria ed oggetto di unito elenco alla controparte notificato ex art. 372 c.p.c., comma 2, si osserva che si tratta di pronuncia che, pur inerendo ad IRPEG ed ILOR del 1996, cioè alle medesime imposte oggetto di accertamento contestato nel presente giudizio ma per anno diverso (qui, il 1994), non soddisfa quel requisito di valore condizionante inderogabile che l'accertamento deve assumere per dispiegare effetti di giudicato esterno. La sentenza invocata, dopo aver fatto esclusivo riferimento proprio alla sentenza C.T.R. Roma 14.6.2004 cassata con rinvio da Cass. 4.4.2008, n.8773, ed aver richiamato in narrativa la sentenza C.T.R. Roma 25.3.2002, parimenti cassata (anche per violazione di legge) da Cass. 11.4.2008, si è limitata ad esprimere il proprio giudizio di legittimità circa l'utilizzo del "metodo cosiddetto standard nella valutazione delle rimanente", ritenendo altresì precluso all'Amministrazione finanziaria il sindacato "sul quantum di una prestazione monetaria quale corrispettivo stabilito nell'ambito di un contratto liberamente pattuito tra la società ricorrente e l'altra società ad essa collegata API Raffineria". In realtà la rilevante indeterminatezza con cui il prezzo ritenuto congruo si viene a formare si evince dal suo stesso meccanismo che è al contempo, come visto, ragione di inaccoglibilità della sua pretesa proiezione cogente rispetto all'accertamento del valore di mercato delle relative prestazioni da parte dell'azione di controllo e rideterminativa dell'Amministrazione, ma altresì limite intrinseco insuperabile nella precisazione del fatto processualmente accettabile. Osserva invero il Collegio che, nella fattispecie, proprio la variabilità dei costi interni alla Api-controllata, oggetto di ribaltamento per generica previsione contrattuale sulla prestazione di raffinazione erogata alla Api-controllante, rimanda ad una pluralità di fattori che, da un lato, non sono stati in nessun modo nè descritti nel precedente citato nè altrimenti ricavabili e, dall'altro lato, evidentemente sono destinati a mutare ogni anno, così individuandosi componenti di costo (poichè inglobati nella prestazione finale) i quali assumono esattamente nella mutevolezza delle circostanze di mercato e di ogni altro fattore interno al processo produttivo di Api-controllata una significatività non replicabile, ai fini qui in indagine, per gli anni successivi a quello di volta in volta esaminato. Ciò permette di affermare che i fatti alla base dell'accertamento contestato sono dunque diversi, non identificati se non in modo indiretto dalla clausola contrattuale determinativa del prezzo, che non assurge a fatto accertato e decisivamente condizionante, poichè essa si limita a rinviare alla rilevazione ancora ulteriore, sostanzialmente rimessa ad un processo discrezionale e di selezione squisitamente soggettiva attivato e permesso in capo alla Api-controllata, di quei costi interni di produzione e di quelle quote-parti dei costi fissi di stabilimento che, intermediati dalle unità di prestazione finale di raffineria, conducono anno per anno al prezzo finale, a sua volta corrisposto da Api-controllante e per tal modo divenuto, per quanto qui di rilievo, componente contabilizzato di costo negativo.

11. Se dunque il vincolo del giudicato esterno è ordinariamente operante nel caso in cui due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi costituisca la premessa logica indispensabile per la statuizione relativa all'altro, donde consegue che la situazione già accertata nel precedente giudizio non può formare oggetto di valutazione diversa, ove permangano immutati gli elementi di fatto e di diritto preesistenti, non può tuttavia invocarsene l'ultrattività, quanto ad un'annualità diversa d'imposta, quando questa postula l'accertamento di ulteriori presupposti di fatto (Cass. 1837/14).
Tant'è che proprio il precedente citato, qui condiviso, ha ripetuto che nell'ipotesi di valutazione delle prove in ordine a diverse annualità non è possibile applicare il giudicato, non potendo precludersi per ogni giudice il potere di valutare in modo autonomo e discrezionale le prove che gli sono offerte dalle parti e che in periodi temporalmente distinti possono presupporre fatti differenti.
Mentre anche per Cass. 22941/2013 il giudicato relativo ad un singolo periodo di imposta non è idoneo a far stato per i successivi o i precedenti in via generalizzata ed aspecifica: simile efficacia va infatti riconosciuta solo a quelle situazioni relative a "qualificazioni giuridiche" o ad altri eventuali "elementi preliminari" rispetto ai quali possa dirsi sussistente un interesse protetto avente carattere di durevolezza nel tempo, non estendendosi a tutti i punti che costituiscono antecedente logico della decisione ed in particolare alla valutazione delle prove ed alla ricostruzione dei fatti. E questo perchè il giudicato incentra la sua potenziale capacità espansiva in funzione regolamentare solo su quegli elementi che abbiano il predetto "valore condizionante inderogabile" sulla disciplina degli altri elementi della fattispecie esaminata, con la conseguenza che la sentenza che risolva una situazione fattuale in uno specifico periodo di imposta non può estendere i suoi effetti automaticamente ad altro ancorchè siano coinvolti tratti storici comuni, nella fattispecie appartenenti al medesimo genere ma non sovrapponibili.

12. Il quarto motivo è fondato. Soccorre sul punto il principio, che ha già trovato applicazione da parte di questa Corte, per cui "in tema di imposte sui redditi, ai sensi dell'allegato unico al D.M. 31 dicembre 1988, emesso in base al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67, comma 2, le costruzioni esistenti negli impianti stradali di distribuzione dei carburanti non sono riconducigli alla categoria "Oleodotti - Serbatoi - Impianti stradali di distribuzione" per la quale la tabella dedicata al "Gruppo IX - Industrie Manifatturiere Chimiche - Specie 2 - Raffinerie di petrolio, produzione e distribuzione di benzina e petroli per usi vari, di oli lubrificanti e di oli lubrificanti e residuati, produzione e distribuzione di gas di petrolio liquefatto" prevede un coefficiente di ammortamento del 12,5%, ma a quella "Fabbricati destinati all'industria", per cui la medesima tabella prevede un coefficiente del 5,5%". (Cass. 9497/2008), essendosi più di recente precisato essere "logico che l'indice di deperimento dell'impianto sia maggiore rispetto a quello della costruzione, benchè strumentale alla stessa attività". (Cass. 12924/2013).

13. Il quinto motivo è fondato poichè, richiamata la premessa di cui al motivo precedente, già la giurisprudenza di legittimità ha statuito che "non sono invece ammortizzabili i terreni, non risultando in alcun modo prevista tale possibilità in riferimento al Gruppo IX, diversamente da quanto accade con riguardo ad altri Gruppi", avuto riguardo alla Tabella di cui al cit. D.M. 31 dicembre 1988 (così ancora Cass. 9497/2008).

14. Il sesto ed il settimo motivo non sono fondati, il secondo in parte anche inammissibile. E' vero infatti che, in tema di redditi di impresa, le quote di ammortamento del costo dei beni materiali strumentali sono deducibili, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 67, comma 1, a partire dall'esercizio di entrata in funzione del bene, espressione quest'ultima che, se riferita a beni di immediata e necessaria sostituibilità rispetto ad un bene in uso necessariamente continuativo, va intesa come coincidente con quella del bene che si usa e che, in quanto soggetto ad imprevedibile deperibilità o rottura, è funzionalmente inseparabile dal bene disponibile per l'immediato ricambio. Così la S.C. (8773/2008) ebbe a ritenere che questa relazione di congiunta funzione si realizzi tra gli erogatori dei carburanti usati nelle stazioni di servizio e quelli destinati al loro ricambio, per i quali ultimi, quindi, è da ritenersi legittima la deduzione di quote di ammortamento anche se lasciati in deposito presso le stazioni di servizio e non ancora utilizzati. Il secondo motivo, connesso al precedente, risulta in parte anche inammissibile poichè, da un lato, non si compendia in una prospettazione che investa il Collegio della censura, così difettando la conclusione a mezzo di apposito momento di sintesi, e perciò viziato anche quando l'indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso della formulata censura, attesa la ratio che sottende la disposizione indicata, associata alle esigenze nomofilattiche dell'accesso alla Corte di cassazione, la quale deve essere posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l'errore commesso dal giudice di merito (Cass. 24255/2011); dall'altro lato, il ricorrente non ha indicato in quale tempestiva e rituale sede del controllo impugnatorio di merito ebbe già ad investire le commissioni della questione della caratterizzazione siccome mero pezzo di ricambio e non scorta degli erogatori in oggetto, derivandone la inammissibilità della attuale censura, anche per come insufficientemente rappresentativa del fatto controverso.

15. Va infine respinto anche il primo motivo del ricorso incidentale, poichè dal tenore delle doglianze dell'appellante Ufficio si evince una contestazione complessiva delle statuizioni della C.T.P., censurata anche con riguardo alla pretesa ratio che, secondo il ricorrente incidentale, non avrebbe trovato adeguata critica, ciò escludendo ogni preclusione da giudicato interno.

Conclusivamente, il ricorso va accolto quanto ai motivi primo, secondo, quarto e quinto, respinti il terzo, sesto ed il settimo, nonchè il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, con cassazione e rinvio alla C.T.R. Lazio, come da dispositivo, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso principale con riguardo ai motivi primo, secondo, quarto e quinto, rigetta i motivi terzo, sesto e settimo;
rigetta il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo; cassa con rinvio alla C.T.R. Lazio, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 maggio 2014.
Depositato in Cancelleria il 4 giugno 2014


 

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