REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale di Civitavecchia, Sezione Lavoro, in persona della Dott.ssa Irene Abrusci, nella
causa iscritta al n. RG 826/2015 vertente
TRA
L. L. (Avv.ti Lorenzo Mosca e Umberto Rossi)
E
C. s.p.a. (già A. - C. AEREA I. SPA)
A. S. S.P.A.
A scioglimento della riserva assunta all’udienza del 23.05.2016 ha pronunciato la seguente
ORDINANZA ex art. 1, comma 49, l. 92/2012

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 12.05.2016 L. L., assumendo di aver lavorato dal 3 dicembre 1999 alle dipendenze della A. L. s.p.a. e di essere transitata alle dipendenze della A. C. s.p.a. dal 5.12.2008, impugnava il licenziamento comminatogli dalla datrice di lavoro con missiva datata 31.10.2014 nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, chiedendo al Tribunale di:
- accertare e dichiarare che le mansioni di fatto svolte dalla ricorrente sin dal 7.06.2010 appartengono a quelle di un impiegato di I livello, con conseguente pronunzia anche di carattere normativo, retributivo e contributivo, volta a ricostruire la carriera e posizione lavorativa, economica, retributiva e normativa della ricorrente;
- accertare e dichiarare l’illegittimo comportamento delle società resistenti che si sono rese inadempienti agli obblighi di cui agli accordi sindacali indicati in premesse per aver preferito alla ricorrente altri dipendenti in possesso di requisiti inferiori, con violazione ed erronea applicazione dei criteri di scelta e preferenza di cui ai suddetti citati accordi;
- accertare e dichiarare la inesistenza, nullità, illegittimità, inefficacia e/o ingiustificatezza del licenziamento intimato in data 31.10.2014;
- accertare e dichiarare che la retribuzione in fatto che la ricorrente avrebbe dovuto percepire quale impiegata di I livello ammonta ad euro 2.488,06 o a quella maggiore o minore che si riterrà di giustizia;
- per l’effetto, condannare la A. S. s.p.a. ovvero in subordine la C. s.p.a. a reintegrarla nel proprio posto di lavoro nonché a risarcire il danno subito nella misura e con le conseguenze di cui all’art. 18, comma 4, l. n. 300/70 o, in subordine, al
ripristino/riassunzione/riammissione/ricostituzione del rapporto di lavoro già in essere, con pagamento delle retribuzioni perdute dalla data dell’illegittimo licenziamento; in ogni caso, con condanna alla ricostruzione della carriera lavorativa ed al pagamento di tutto quanto spettante alla ricorrente a titolo di differenze retributive dovute per effetto del superiore inquadramento per la complessiva somma di euro 18.034,76;
- con vittoria di spese di lite oltre accessori e spese generali.

La A. C. S.p.a. (che nelle more ha mutato denominazione di C. s.p.a.) si costituiva in giudizio contestando in toto le avverse pretese e chiedendone il rigetto.
La A. S. S.p.a. si costituiva in giudizio eccependo la decadenza ex art. 32, comma 4, lett. d) l. n. 183/2010, l’inammissibilità/improcedibilità delle domande formulate nei propri confronti in quanto non rientranti nel disposto dell’art. 1, comma 47, l. n. 92/2012 nonché la propria carenza di legittimazione passiva.

Esperito senza esito positivo il tentativo di conciliazione, escussi i sommari informatori, udita la discussione delle parti, all’udienza del 23.05.2016 il Giudice si riservava la decisione.

Motivazione

Va, preliminarmente, rilevato che la legge n. 92/2012 ha introdotto un procedimento speciale per la trattazione delle controversie “aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” (art. 1, comma 47), prevedendo, altresì, per agevolare la rapida definizione di questa tipologia di controversie, che “con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”.
All’art. 1, comma 67, della citata legge, il legislatore ha chiarito, poi, che le nuove norme processuali si applicano a tutte le controversie instaurate successivamente alla data di entrata in vigore della legge, ovvero al 18.07.2012.

Pertanto, la ricorrente (che ha depositato il ricorso nel maggio 2015), impugnando il licenziamento comminatole dalla A. C. s.p.a. con missiva del 31.10.2014 e chiedendo la reintegra nel posto di lavoro proprio ai sensi dell’art. 18 della l. 300/70, avrebbe dovuto introdurre la domanda giudiziale nelle forme e con le modalità prescritte dall’art. 1, comma 48, l. 92/2012.
Il nuovo procedimento sommario di cognizione deve, infatti, essere seguito obbligatoriamente, senza che il ricorrente possa scegliere fra il processo ordinario e quello specifico previsto dalla legge per i licenziamenti, nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 St. Lav.
Ciò si evince con chiarezza dal tenore letterale della legge, dal momento che l’art. 1, comma 48, della l. 92/2012 dispone che “la domanda … si propone con ricorso al Tribunale”, ma anche da considerazioni di ordine sistematico. Si consideri, infatti, che il procedimento speciale non costituisce uno strumento finalizzato solo alla tutela delle ragioni del dipendente
– sicché questi possa ad esso rinunciare, optando per il rito del lavoro – bensì una tecnica di tutela volta ad abbreviare i tempi necessari ad ottenere una decisione definitiva ogni qual volta siano in gioco le ipotesi di cui all’art. 18 St. Lav.


Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso, erroneamente proposto ai sensi dell’art. 414 c.p.c. -in virtù del principio di prevalenza della sostanza sulla forma e della salvaguardia della validità degli atti processuali invalidi che presentano tutti i requisiti richiesti per un altro atto valido - è stato riqualificato, contenendo gli elementi di cui all’art. 1, co. 48, cit., e ne è stata disposta la trattazione secondo il procedimento disciplinato dalla legge 92/2012.

Da ciò discende, tuttavia, che può essere esaminata in questa sede solo la domanda avente ad oggetto il licenziamento, dovendo invece essere dichiarate inammissibili tutte le altre domande, con tutta evidenza non fondate su identici fatti costitutivi – segnatamente quelle aventi ad oggetto l’accertamento del diritto al superiore inquadramento ed al pagamento delle relative differenze retributive nonché alla ricostruzione di carriera e posizione lavorativa, economica, retributiva normativa e contributiva – .
Ad avviso di questo Tribunale, con riferimento a tali domande non risulta possibile disporre la c.d. “conversione del rito” perché le norme poste dagli artt. 48 ss l.92/2012 hanno introdotto un procedimento di cognizione ad hoc -ossia un apposito modello processuale- e non un mero rito -ossia una mera modalità di gestione del processo ordinario di cognizione - (nello stesso senso v. Trib Roma, ord 23.9.2014, rg 10697/13- Est. Marrocco).
Di conseguenza, non possono essere qui validamente invocate le norme che consentono il cambiamento del rito - da ordinario a speciale o viceversa- nell’ambito dei soli procedimenti ordinari di cognizione (artt. 426 e 427 c.p.c. o, anche, art. 4 d.lgs. 150/11 ).

Sotto il profilo sistematico, va, poi, osservato che ove il legislatore ha voluto consentire la possibilità di separazione delle domande non fondate su “fatti costitutivi identici” lo ha detto espressamente: in relazione alla domanda riconvenzionale proposta in sede di opposizione, infatti, il comma 56 dell’art. 1 della l. 92/2012 prevede espressamente la separazione, possibilità non contemplata invece dal comma 48 del medesimo articolo, con riferimento alla prima fase del procedimento speciale di cui si tratta.
Si impone, dunque, la declaratoria di inammissibilità delle domande in questione.

Del pari deve dirsi per la domanda di reintegra avanzata nei confronti della A. S. s.p.a., domanda che non risulta ascrivibile né alla categoria delle “questioni di qualificazione” né a quella delle domande fondate sugli stessi fatti costitutivi della domanda di reintegra ex art. 18 St. Lav.
Sotto il primo profilo, vale, infatti, rilevare che non viene posto alcun problema di qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti – essendo pacifica la sua natura subordinata – né di individuazione del soggetto giuridico che rivestiva la qualità di datore di lavoro – pacificamente la A. C. s.p.a., non essendo stato neppure prospettato che la ricorrente lavorasse contemporaneamente per entrambe le società e che esse costituissero un unico centro di imputazione –. L’accertamento richiesto, a ben vedere, non attiene neppure al lasso di tempo nel quale si è svolto il rapporto di lavoro – rapporto suscettibile di essere qualificato a seconda della natura giuridica – bensì ad una vicenda successoria verificatasi dopo il licenziamento dei ricorrenti. Valutando il significato proprio del termine utilizzato dal legislatore (“qualificazione” ovvero rilevanza giuridica attribuita ad un fatto o a un evento materiale), invero, deve escludersi che un giudizio di tal fatta possa venir compiuto rispetto ad un rapporto – in ipotesi – non concretamente ma solo giuridicamente esistente (in forza
dell’accertamento giudiziale di illegittimità del licenziamento).
Quanto al secondo profilo, deve essere evidenziato che l’accertamento richiesto, non presuppone, soltanto, la verifica circa l’illegittimità del licenziamento (e dunque l’integrazione di una delle fattispecie previste dall’art.18 St. Lav richiamato, in tema di licenziamento collettivo, dall’art. 5, comma 3, l. n. 223 del 1991), ma richiede un vaglio giudiziale circa la sussistenza di un ulteriore fatto costitutivo (integrato dal fatto materiale del trasferimento di azienda successivo al licenziamento e dal compendio di ragioni giuridiche che ne consentono la riconducibilità alla fattispecie prevista dall’art. 2112 c.c.).
Si tenga presente, poi, che, stante la peculiarità del caso di specie, la verifica in ordine alla sussistenza di tale ulteriore fatto costitutivo richiede anche di valutare, preventivamente, la legittimità della pattuizione in forza della quale la società cedente e la cessionaria, unitamente alle organizzazioni sindacali, hanno previsto una espressa deroga alla disciplina di cui all’art. 2112 c.c., sulla base del disposto dell’art. 47, comma 4bis della legge n. 428/90, ed hanno, quindi, escluso la prosecuzione con la cessionaria di ogni ulteriore rapporto di lavoro non espressamente ricompreso negli elenchi allegati.

Stando così le cose, risulta evidente che, tenuto conto della ratio legis sottostante all’introduzione del procedimento speciale di cognizione ex art. 1, comma 47 ss l. 92/12, l’accertamento circa l’applicabilità del disposto dell’art. 2112 c.c. nei confronti della A. S. s.p.a. non può venir compiuto all’interno del presente giudizio in quanto presupporrebbe il vaglio di fatti costitutivi ulteriori rispetto a quelli fondanti la tutela ex art. 18 St. Lav.
Ne discende che la relativa domanda deve essere dichiarata inammissibile; resta in tal modo assorbita la necessità di esaminare l’eccezione di decadenza avanzata dalla A. S. s.p.a.

Così delimitato l’oggetto della domanda suscettibile di essere vagliata nel presente procedimento, osserva il Tribunale che la ricorrente ha contestato la legittimità del licenziamento al vaglio ritenendo di essere stata erroneamente individuata quale destinataria dell’atto di recesso datoriale in violazione dei criteri di scelta concordati dal datore di lavoro con le OO.SS. nell’accordo del 24.10.2014 e nell’accordo quadro del 12.07.2014.

Stante la decisività delle osservazioni che seguono, occorre prendere le mosse dalla censura attinente alla restrizione della platea dei licenziabili ed, in particolare, alla mancata comparazione della L. con le altre lavoratrici addette alla unità organizzativa “S. C.” – segnatamente M. F., C. D. M., R. P. – rispetto alle quali la ricorrente sostiene di essere perfettamente fungibile, avendo svolto mansioni analoghe.
Ebbene, come già più volte osservato da questo Tribunale, nelle procedure di licenziamento collettivo - come quella per cui è causa - che interessano grandi società ove prestano servizio lavoratori dotati di professionalità tra loro anche molto diversificate sia l’individuazione del numero degli esuberi che la selezione dei lavoratori da licenziare non può avvenire indistintamente nell’ambito dell’intera platea dai dipendenti aziendali, dovendo venir ovviamente articolate nell’ambito delle distinte professionalità.

A ciò non osta la circostanza che l’art. 5 l. 223/1991 riferisca espressamente le esigenze tecnico produttive all’intero complesso aziendale.
Tale indicazione legislativa è dettata in ragione dell'esigenza di ampliare al massimo l'area in cui operare la scelta dei lavoratori da licenziare, onde approntare idonee garanzie contro il pericolo di discriminazioni a danno del singolo lavoratore, in cui tanto più facilmente si può incorrere quanto più si restringe l'ambito della selezione.
Tuttavia, siffatta indicazione di massima va contemperata, nel caso concreto, con le segnalate esigenze di diversificazione delle diverse professionalità esistenti all’interno dell’azienda. La elaborazione giurisprudenziale intervenuta sul tema ha, infatti, chiarito che la platea dei lavoratori interessati al licenziamento ben può essere limitata agli addetti ad un
determinato reparto o settore, anche se, al fine di evitare i rischi insisti in una simile operazione, la delimitazione stessa può avvenire solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. In ogni caso,il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti ad un reparto o settore se essi siano idonei ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, “con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative”
(Cassazione civile sez. lav. 12/01/2015 n. 203; tra le tante conformi v. anche Cass., Sez. L, Sentenza n. 17177 del 11/07/2013).

Deve, dunque, dirsi che il frazionamento della platea dei licenziabili è ben possibile all’interno di realtà aziendali complesse, con il limite però della necessità di comparare tutti i lavoratori che possiedano un profilo professionale tra di loro fungibile. E tale fungibilità può apprezzarsi guardando non certo alla specifica attività alla quale il singolo lavoratore è stato da ultimo adibito all’interno dell’organizzazione aziendale, bensì alla sfera di compiti che rientrano nel suo bagaglio professionale e che, dunque, legittimamente possono venirgli richiesti dal datore di lavoro nell’ambito dell’art. 2103 c.c. – con riguardo dunque anche alla classificazione del personale contenuta nella contrattazione collettiva di riferimento ma con la precisazione che occorre dare preminente rilievo al profilo professionale, potendo la categoria d’inquadramento constare, appunto, di più e distinti profili professionali – .
Proprio in ragione di tale necessità di tener conto dei diversi profili professionali dei lavoratori in forza presso la A. C. s.p.a., nella definizione dei criteri di scelta da utilizzare nella seconda procedura di licenziamento collettivo qui in esame, le parti sociali hanno indicato, nell’accordo del 24 ottobre 2014, con riferimento al criterio delle esigenze organizzative e produttive, che per il personale di terra, “ a parità di posizioni di lavoro, si procederà con la collocazione in mobilità del personale con minor numero di certificazioni/abilitazioni …etc…”.

Ebbene la locuzione “posizioni di lavoro”, a dir la verità poco tecnica, se interpretata secondo il canone della buona fede ed alla luce delle considerazioni che precedono, non può che ritenersi coincidente proprio con i profili professionali.
Nella concreta applicazione del criterio in questione, dunque, la A. C. s.p.a. doveva procedere a raggruppare le professionalità fungibili – anche sulla scorta della classificazione contenuta nel contratto collettivo applicato e tenuto conto dei principi dettati dall’art. 2103 c.c. – e procedere nell’ambito delle stesse alla applicazione degli altri criteri indicati nell’accordo citato (possesso di certificazioni/abilitazioni, abilità professionali su specifici apparati, anzianità di servizio, carichi di famiglia).
Coerentemente con quanto previsto dall’art. 4, comma 9, l. 223/91, le concrete modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta vengono indicate dalla società resistente nella comunicazione datata 7 novembre 2014 (all. 15 di parte res). Con riferimento al personale di terra ed al criterio delle esigenze organizzative e produttive, la società resistente dà atto di aver applicato i criteri di scelta relativi alle certificazioni/abilitazioni e/o abilità professionali “in presenza di concorso di più lavoratori sulle posizioni di lavoro eccedenti così come individuate nella tabella allegata alla comunicazione 3 ottobre”, ovvero alla tabella – di cui si è detto sopra – attraverso la quale veniva individuato il personale in esubero. D’altro canto, nella medesima comunicazione viene precisato che tale comparazione non è stata effettuata per le risorse assegnate “a posizioni di lavoro in esubero senza concorrenza di altri lavoratori” (contraddistinte con la lettera G) ovvero nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il numero degli esuberi individuati nella tabella allegata alla comunicazione del 3 ottobre coincideva con il numero dei lavoratori ivi assegnati; in tal caso, tutti i lavoratori sono stati licenziati senza procedere a comparazioni di sorta.
Sul punto, deve essere richiamata la sentenza n 26376 del 03/11/2008 nella quale la S.C. ha evidenziato come non si possa individuare in ogni caso “una necessaria corrispondenza tra il dato relativo alla "collocazione del personale" indicato dal datore nella comunicazione di cui all'art. 4, e la precostituzione dell'area di scelta. Il datore infatti segnala la collocazione del personale da espungere (reparto, settore produttivo ecc), ma ciò non comporta automaticamente che l'applicazione dei criteri di scelta coincida sempre con il medesimo ambito e che i lavoratori interessati siano sempre esclusi dal concorso con tutti gli altri, giacchè ogni delimitazione dell'area di scelta è soggetta alla verifica giudiziale sulla ricorrenza delle esigenze tecnico produttive ed organizzative che la giustificano”.

Alla luce di tali principi, non può, dunque, ritenersi legittimo il licenziamento di un lavoratore soltanto in ragione del fatto che egli, da ultimo, è stato collocato nella “posizione di lavoro” indicata come in esubero nella comunicazione ex art. 4, comma 2, l 223/91, dovendo essere verificato, caso per caso, se la delimitazione dell’area di scelta che in tal modo si determina sia giustificata dall’infungibilità dei lavoratori da ultimo assegnati alla posizione di lavoro soppressa rispetto ai lavoratori addetti ad altre mansioni non soppresse.
Con la precisazione che è principio giurisprudenziale consolidato, quello per cui “ove sorga contestazione sull'ampiezza del criterio di scelta indicato, è onere del datore provare il fatto che determina l'oggettiva limitazione di queste esigenze, e giustificare il più ristretto spazio nel quale la scelta è stata effettuata” (Cass. n. 14612 del 2006; dello stesso tenore v, tra le tante, Cass. n. 25353 del 2009; Cass. n. 26376 del 2008; Cass. nn. 15631, 14875, 14613 del 2006).

Nel caso concreto, A. C. s.p.a. ha dedotto che la ricorrente non poteva essere comparata con nessun altro lavoratore (e quindi è stata collocata in mobilità in applicazione del criterio g) in quanto rivestiva il ruolo di “addetto S. C.” mentre le altre risorse impiegate presso l’Unità organizzativa di I livello “S. C.” (M., D. M. e P.) rivestivano la qualifica di “Tecnici S. C.” e pertanto non erano fungibili con la L. La società ha poi precisato, a dimostrazione della infungibilità, che la ricorrente era inquadrata nel III livello mentre le lavoratrici M., D. M. e P. erano inquadrate nel I.
Ebbene, osserva il Giudice che il diverso livello di inquadramento è sicuramente indice presuntivo di infungibilità tra i lavoratori in quanto denota un diverso grado di autonomia, professionalità e responsabilità nello svolgimento della prestazione lavorativa. È possibile tuttavia fornire la prova contraria poiché l’inquadramento formale del lavoratore a volte può non corrispondere all’attività in concreto svolta ed alla professionalità acquisita. In altri termini, è ben possibile fornire la dimostrazione in giudizio che, nonostante il diverso inquadramento contrattuale, diversi lavoratori possiedono il medesimo profilo professionale.

Nel caso di specie - fermo restando che la domanda avente ad oggetto l’accertamento del diritto al superiore inquadramento non può essere vagliata per le ragioni sopra esposte e che dunque deve aversi riguardo non alla correttezza dell’inquadramento della L. bensì soltanto alla fungibilità del suo profilo professionale rispetto a quello delle colleghe - deve dirsi che i sommari informatori escussi hanno confermato le allegazioni attoree secondo cui la ricorrente e le colleghe M., D. M. e P., nonostante il diverso inquadramento contrattuale, possedevano il medesimo profilo professionale, svolgendo di fatto la medesima attività lavorativa.
È emerso, infatti, dalla istruttoria che, all’interno dell’unità organizzativa “S. C.”, le citate lavoratrici – ivi compresa la ricorrente – svolgevano le attività di controllo e supporto degli scali, monitoraggio voli, controllo della eleggibilità dei passeggeri sia all’accettazione che al gate, sviluppo dei tools, contestazioni agli agenti di viaggio, con il medesimo grado di autonomia, professionalità e responsabilità. Ciò si desume con tutta evidenza dalla circostanza – riferita dai testi P., C. e M. - che il lavoro era organizzato in turni (a volta di una persona ed a volte di due persone), senza alcuna distinzione della ricorrente dalle colleghe, il che rende evidente la fungibilità e la intercambiabilità tra le lavoratrici. Le testi P., C. e M. hanno anche chiarito che per l’attività di assistenza agli scali, alle biglietterie ed ai capi scalo, c’era un cellulare che veniva passato al lavoratore di turno ed un numero di telefono fisso a cui rispondeva il lavoratore in turno (ancora una volta senza distinzione tra la ricorrente e le colleghe).
In tale quadro organizzativo, non appare indice di infungibilità, la circostanza che a tali attività comuni a tutte le lavoratrici menzionate si aggiungessero specifici compiti che i responsabili (prima B. poi C.) assegnavano a ciascuna dipendente (con la precisazione che anche la L. è risultata assegnataria di compiti specifici ed esclusivi al pari della altre colleghe). Ed, infatti, la stessa teste C. (responsabile dell’unità organizzativa “S. C.” dal 2012) ha precisato che la divisione dei compiti era finalizzata da una migliore organizzazione all’interno del team; né è in alcun modo emerso che la ragione della differenziazione di alcuni compiti risiedesse nel maggior grado di difficoltà o nella maggiore professionalità richiesta per alcuni di essi.

Deve poi dirsi che le allegazioni della A. C. s.p.a. (contenute nel punto 17.4 della memoria) - secondo cui la ricorrente rispetto alle altre colleghe addette all’unità “non aveva gli skills” per svolgere l’attività di reporting (consuntivazione dati) e per effettuare visite in regime di missione presso gli altri scali – non hanno trovato adeguato riscontro probatorio.
Quanto al primo profilo, infatti, le deposizioni delle testi P., C. e M. sono concordi nell’affermare che la L. si occupava in via esclusiva di un foglio del report di deregolamentazioni chiamato empowerment; quanto al secondo profilo, è emerso dall’istruttoria – soltanto – che la ricorrente non è mai andata in missione, e non anche che non possedesse la professionalità per andarci: la teste C. ha, sul punto, espressamente affermato “io avevo chiesto alla ricorrente di andare in missione presso gli scali ma lei non se l’è sentita di andare. In ogni caso non era una mansione obbligatoria, io chiedevo alle persone ma non obbligavo nessuno, andava chi voleva andare”.
Stando così le cose, non può allora ritenersi indice di infungibilità la mancata partecipazione alla ricorrente alle missioni ma, al contrario, deve dirsi acclarata – a fronte della concorde descrizione, effettuata dalle testi P., C. e M., delle attività svolte e delle modalità operative dell’ufficio “S. C.” – la fungibilità tra la ricorrente e le colleghe che al momento del licenziamento erano ivi addette (M., D. M. e P.).

Vale precisare che non è stata menzionata la deposizione del teste G. in quanto essa si è rivelata non idonea a provare il fatto qui rilevante ed oggetto di contestazione (ovvero che l’attività in concreto svolta dalle risorse addette all’ufficio “S. C.” fosse identica nonostante il diverso inquadramento): il teste, infatti, ha premesso di non conoscere la ricorrente e di non averla mai vista lavorare e di non aver mai visto lavorare neppure gli altri addetti e tecnici collocati nell’ufficio “S. C.” ed ha dunque chiarito di poter riferire sulla base del contratto di lavoro e del livello di inquadramento.

Alla luce delle svolte considerazioni appare evidente che la resistente ha errato nell’individuare la L. quale destinataria del licenziamento sulla scorta del criterio g), omettendo di compararla con le colleghe addette al medesimo ufficio che, nonostante il diverso livello di inquadramento, erano in concreto perfettamente fungibili nello svolgimento delle mansioni sopra descritte.
Quanto alle conseguenze del riscontrato errore nella fase di applicazione dei criteri di scelta, la ricorrente ha dedotto che se la datrice di lavoro avesse correttamente esteso l’area di scelta a tutto l’ufficio “S. C.” (con esclusione solo del capo ufficio, R. C.), ella sarebbe prevalsa su C. d. M. e su R. P. in quanto il criterio c) risulta neutro perchè non erano previste specifiche abilitazioni per la funzione in questione ed il criterio d) vede la ricorrente prevalere in ragione dell’anzianità aziendale dal 1999 (la D. M. ha anzianità dal 2001 e la P. dal 2000).
Ebbene, si osserva che CAI s.p.a. non ha contestato né la circostanza che non erano previste specifiche abilitazioni per la funzione né l’anzianità aziendale della ricorrente e delle colleghe D. M. e P.
Ciò conduce a ravvisare una palese violazione dei criteri di scelta, in quanto se la Alitalia CAI s.p.a. avesse correttamente comparato la L. con le altre lavoratrici in possesso di una professionalità fungibile, la ricorrente non sarebbe stata licenziata ma lo sarebbe stata un’altra lavoratrice.

Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità del licenziamento oggetto di causa e, sulla scorta di quanto previsto dall’art. 5, comma 3, terzo periodo, l. 223/91, così come modificato dalla l. 92/2012, deve essere riconosciuta alla ricorrente la tutela indicata nell’art. 18, comma 4, St. lav., costituita dalla reintegrazione nel posto di lavoro e dalla corresponsione di un indennizzo economico, che non può superare le dodici mensilità, da commisurare all’ultima retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento sino a quella dell’effettiva reintegrazione.
Considerato il lungo lasso di tempo trascorso dal giorno del licenziamento, anche tenendo conto della necessità di detrarre l’aliunde peceptum e/o percipiendum,si ritiene equo commisurare l’indennità alla misura massima di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, a cui va aggiunta la condanna della datrice di lavoro al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale.
Sulla scorta delle buste paga in atti, la retribuzione globale di fatto va correttamente determinata in euro 1.754,35, e cioè euro 1.503.73 x 14/12.
Le considerazioni che precedono rendono superfluo l’esame di tutte le ulteriori censure mosse nell’atto introduttivo, in quanto la loro analisi non potrebbe mutare le conclusioni raggiunte in ordine alla tutela concretamente spettante alla ricorrente.

Va, invece, esaminata la domanda con la quale la CAI s.p.a. ha chiesto, in caso di accertamento della violazione dei criteri di scelta, di essere autorizzata a risolvere il rapporto di lavoro di un lavoratore per poter reintegrare il ricorrente.
La domanda si basa, invero, sul disposto dell’art. 17 della l. 223/1991, che riconosce al datore di lavoro, in caso di reintegra di lavoratori, la possibilità di risolvere, sempre nel rispetto dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, il rapporto di lavoro di un numero di lavoratori pari a quello dei reintegrati senza dover esperire una nuova procedura, dandone previa comunicazione alle rappresentanze sindacali aziendali.
Ritiene il Giudice che si tratti una domanda inammissibile, giacché le ragioni che possono essere poste a fondamento del licenziamento sono comunque rimesse alla esclusiva scelta datoriale di risoluzione del rapporto – che, concretandosi nell’esercizio del diritto, appunto, di recesso, deve essere esercitata nel rispetto delle norme che la disciplinano – e non possono, pertanto, essere rimesse al Giudice; nel sistema delineato dalla legge, in altri termini, i motivi che potrebbero, in astratto, costituire il fondamento del licenziamento presuppongono pur sempre che il datore di lavoro eserciti la facoltà di recesso, non potendo egli, viceversa, chiedere un’autorizzazione preventiva al licenziamento stesso.
Nei rapporti tra la ricorrente e la C. s.p.a., le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono come di regola la soccombenza.
Nei rapporti tra la ricorrente e la A. S. s.p.a. la definizione in rito della relativa domanda, la complessità della normativa in applicazione e la presenza di difformi orientamenti giurisprudenziali sul punto costituiscono gravi motivi ex art. 92 c.p.c. per compensare tra le parti le spese di lite.

PQM

Ogni altra istanza disattesa, annulla il licenziamento intimato alla ricorrente e, per l’effetto, condanna la C. s.p.a. a reintegrarla nel posto di lavoro ed a corrispondergli un indennizzo commisurato a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (pari ad € 1.754,35 mensili) oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale.
Dichiara inammissibili le restanti domande.
Condanna la C. s.p.a. al pagamento in favore della ricorrente delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 4.040 di cui € 3.513 per compensi ed € 527 per spese generali, oltre iva e c.p.a.
Spese compensate nei rapporti tra la ricorrente e la Alitalia Sai s.p.a.
Si comunichi.
Civitavecchia, 02.06.2016
Il Giudice
Dott.ssa Irene Abrusci


 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.