Svolgimento del processo

1. Con sentenza emessa in data 10 giugno 2019, la Corte di Appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Venezia il 4 maggio 2018 aveva assolto il sig. Piero ZAMATTIO dal reato di occultamento e distruzione delle scritture contabili della società "MOBILI COMPARI SRL" (capo B), ravvisando piuttosto la condotta di omessa tenuta delle scritture, e da quello di omessa presentazione della dichiarazione annuale relativa all'imposta IRES per gli anni 2011 e 2012 (capo A) per non essere superata la soglia di punibilità, affermando la penale responsabilità dell'imputato per le restanti ipotesi, contestate al capo A, di omessa presentazione delle dichiarazioni annuali ai fini IRES, IVA e IRAP per gli anni 2009, 2010, 2011 e 2012, con condanna a un anno e nove mesi di reclusione, oltre pene accessorie, e determinazione della somma a titolo di confisca pari a euro 701.706,00.

2. La Corte di Appello, ha pronunciato assoluzione dell'imputato limitatamente alla omessa dichiarazione ai fini IRES per l'anno d'imposta 2010 con la formula "perché il fatto non sussiste" e quindi, confermata con ampia motivazione l'esistenza delle restanti violazioni accertate dal Tribunale, ha dichiarato prescritto il reato relativo all'anno d'imposta 2009, confermata la responsabilità dell'imputato per i restanti fatti e proceduto a ridurre la pena a un anno e due mesi di reclusione, nonché a rideterminare in euro 207.539,94 la somma dovuta a titolo di confisca. 3. Esposte in modo dettagliato a pagina 4 della sentenza le censure mosse con l'atto di appello alla decisione di primo grado, la Corte di Appello rileva che l'impugnazione si fonda essenzialmente sulle considerazioni svolte dal consulente di parte e che questi, non contestando la ricostruzione delle poste attive, censura le valutazioni operate dal tribunale circa i costi effettivamente sostenuti dalla società. Ciò sia con riguardo alla mancata considerazione ai fini IVA delle fatture di acquisto non annotate sia con riguardo alla mancata considerazione ai fini IRES dei costi sostenuti, e documentati, per i due dipendenti e per l'affitto del magazzino. Ulteriori censure contenute nell'atto di appello riguardavano la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, l'eccessività della pena, le determinazioni in tema di confisca, con particolare riguardo all'immobile sito in Venezia-Dorsoduro 3545, vincolato al patrimonio familiare, la necessaria dichiarazione di prescrizione anche del reato relativo all'anno 2010.

4. Con la decisione qui impugnata, la Corte ha parzialmente accolto i motivi di impugnazione. a. Rilevato che il termine prescrizionale risulta sospeso per la durata di sei mesi e dodici giorni, e che per il reato previsto dall'art.5 del D.Lvo n.74 del 2000 il termine di prescrizione decorre dal novantesimo giorno successivo alla data in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata, la corte territoriale ha ritenuto prescritti i soli fatti relativi all'anno 2009 (termine per la presentazione al 30 settembre 2010), ma non quelli relativi all'anno 2010 (così da intendere il riferimento all'anno 2011 all'inizio del terzo capoverso di pag.8). Osservano a tal proposito i giudici di appello che il termine prescrizionale, compresi i novanta giorni dalla scadenza di legge, decorre dal 29 dicembre 2011 e che per tale annualità il termine massimo, considerato l'aumento di un terzo introdotto dalla legge 14 settembre 2011, n.148, deve essere fissato in dieci anni (cui aggiungere i sei mesi e dodici giorni di sospensione sopra ricordati). b. Per quanto concerne le soglie di punibilità come modificate nel tempo, la corte territoriale rileva che al momento della presentazione della dichiarazione nel dicembre 2011 la soglia era stata abbassata dalla citata legge n.148 del 2011 dagli originari 77.468,53 euro a quella di 30mila euro), ma successivamente elevata a 50mila dal D.Lvo n.158 del 2015, con la conseguenza che tale importo, più favorevole rispetto all'importo di 30mila euro, deve trovare applicazione retroattiva alle dichiarazioni riferite agli anni 2011 e 2012 (Sez.Terza Penale, n.10810 del 2018).c. Passando all'esame del merito delle contestazioni, la Corte di Appello ritiene di dare puntuale applicazione al principio, accolto anche dal giudice di. primo grado, secondo cui in materia di imposte sui redditi possono venire riconosciuti anche i costi non contabilizzati ma adeguatamente documentati, purché corretti e pertinenti. Muovendo da tale affermazione, giunge alla conclusione che, mentre per l'anno d'imposta 2010 non appare raggiunta la prova certa del superamento della soglia di punibilità, per l'anno 2009 la prova può dirsi sicuramente raggiunta, ma in tal caso opera la prescrizione, come sopra ricordato. Si ricorda che per l'anno di imposta 2011, scadenza della dichiarazione nel 2012, già il primo giudice aveva pronunciato assoluzione. d. Con riguardo all'imposta sul valore aggiunto, la corte territoriale ritiene sussistere la prova della commissione dei fatti e del superamento della soglia di punibilità per tutti gli anni d'imposta dal 2009 al 2011. Per l'anno d'imposta 2009, peraltro, il termine di prescrizione risulta superato. Il tema della decisione che la corte affronta specificamente, giungendo a confermare l'impostazione del tribunale e respingendo la diversa prospettazione della difesa, riguarda la deducibilità dei costi risultanti dalle fatture passive non annotate in contabilità e prodotte dalla difesa soltanto nel corso del giudizio. Si tratta di questione che attiene all'applicabilità anche in sede penale degli artt.19 e 25 del DPR 26 ottobre 1972. Viene in considerazione a tale proposito la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia EU nella causa C-322/15, depositata il 28 luglio 2016. Tale decisione, al termine di un lungo excursus motivazionale, ha concluso nel senso che la Direttiva n.2006/112/CE deve essere interpretata che non è preclusa allo Stato membro la possibilità di stabilire un termine di decadenza per la detraibilità dei costi e di negare la detrazione d'imposta derivante dalle fatture non contabilizzate allorquando emerga che tale omissione si colloca in un contesto di cóndotte di fraudolenta violazione degli obblighi tributari. Sussistendo in concreto tali condizioni, le condotte dell'imputato cadono sotto le norme incriminatrici, con la conseguenza che il reato contestato deve ritenersi integrato per le annualità 2010 e 2011. e. Così affermata la penale responsabilità dell'imputato soltanto per tali anni d'imposta, la corte territoriale ha ridotto proporzionalmente l'ammontare dell'importo da sottoporre a confisca, che viene quantificato in euro 207.539,94.

Sempre con riferimento alla confisca, da considerarsi per equivalente, la corte affronta le censure mosse dall'imputato, e ricorda che:
1) al giudice del merito non compete l'onere di individuare i beni da sottoporre in concreto alla misura ablativa, onere che incombe al pubblico ministero quale organo dell'esecuzione (Sesta Sez.Pen, sent. n.53832 del 2017);
2) il fatto che il sequestro cada anche sui beni dell'imputato, attesa la non capienza dei beni societari, non appare ingiustificato, posto che mai il sig.Zamattio ha chiarito quali siano i cespiti della società che potrebbero soddisfare il credito vantato dall'Erario (Terza Sez.Pen, sent.n. 40362 del 2016);
3) il fatto che dopo la restituzione parziale dei beni sequestrati resti sottoposto alla cautela l'immobile sito in Venezia-Dorsoduro 3545-3560/A, incluso in un fondo patrimoniale e assegnato come abitazione familiare alla moglie separata e ai figli, non comporta alcuna violazione e devono trovare conferma le argomentazioni esposte dal tribunale, che si pongono in linea con la giurisprudenza di legittimità (Sezione Seconda Pen, sent.n.40362 del 2016: Terza Sez.Pen, sent. n.1709 del 2013). Infine, l'appellante non è stato ritenuto meritevole delle circostanze attenuanti generiche, ostandovi la pluralità e sistematicità delle violazioni, l'entità degli importi, la disponibilità di fondi personali e la condotta successiva al reato.

Con il ricorso presentato avanti questa Corte, il sig. Zamattio lamenta:
1. Nullità della sentenza per mancato riconoscimento dell'IVA in detrazione ed erronea valutazione di superamento delle soglie di punibilità per violazione del principio di proporzionalità e neutralità dell'IVA . Il ricorrente muove dalla premessa che la giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto che la deducibilità dei costi documentati ma non iscritti in contabilità opera anche ai fini penali (Terza Sez.Pen, sentenze n.37335 del 2014 e n.53907 del 2016). In tale contesto, la corte veneziana avrebbe fatto erronea applicazione dei principi fissati dalla citata sentenza della Corte di Giustizia. Nel caso in esame difetta, infatti, il dato della fraudolenza delle condotte contabili, posto che gli stessi giudici hanno ritenuto non sussistere il capo di imputazione sub B. Erroneamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto che la mancata contabilizzazione delle fatture di vendita integri i presupposti che consentono di escludere la detraibilità dei costi, e ciò in quanto lo stesso Zannattio ha consegnato le fatture 10, 110 e 111 del 2010 (ciò nonostante include nell'imputazione) e la GdF ha potuto recuperare tutte le fatture emesse dalla società e ricostruire il volume d'affari. Analogo ragionamento può farsi per quanto riguarda la ricostruzione delle fatture passive, come da memoria di parte presentata con motivi aggiunti, con la conseguenza che la corte, qualora avesse preso in esame le fatture prodotte, non avrebbe potuto fare a meno di rilevare che la soglia di punibilità non è stata superata negli anni d'imposta 2010 e 2011
2. Violazione dell'art.606, lett.b) cpp per avere la sentenza erroneamente confermato il sequestro ai fini della confisca per equivalente sull'immobile in comproprietà del prevenuto. Il ricorrente prospetta due diverse censure. Con la prima lamenta che la corte abbia impropriamente posto a carico del ricorrente l'onere della prova in ordine alla individuazione dei beni societari che avrebbero potuto essere sottoposti a sequestro. Con la seconda lamenta l'errore in cui la corte sarebbe incorsa nel concludere che il regime giuridico cui è sottoposto l'immobile di Venezia-Dorsoduro non impedisce la sua sottoposizione a sequestro. Al contrario, il fatto che l'immobile sia vincolato al fondo patrimoniale posto a tutela dei familiari del ricorrente ne impedisce la sottoposizione a vincolo. A ciò si aggiunga che l'immobile risulta acquisito al patrimonio del ricorrente prima dei fatti per cui è processo e non può dirsi collegato ai profitti del reato (si veda Cass., sent. n.12627 del 2018) e che il suo valore, di oltre due milioni di euro, fa si che la quota del 50% di pertinenza del sig.Zamattio risulti sproporzionatamente maggiore rispetto al valore della somma fissata dalla Corte di Appello, di poco superiore a 200mila euro.
3. Violazione dell'art.606, lett.b) cpp in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Osserva il ricorrente che per oltre tredici anni la società ha tenuto regolarmente la contabilità e rispettato gli obblighi fiscali, apparendo così evidente che quanto accaduto negli anni 2009-2012 deve collegarsi alle difficoltà personali del ricorrente a seguito della crisi familiari e della separazione dal coniuge. Di questo avrebbe dovuto tenersi conto e le invocate circostanze attenuanti avrebbero dovuto essere concesse.
Con le proprie conclusioni in data 2 luglio 2020, la Procura Generale presso questa Corte ha chiesto che tutti i motivi vengano giudicati ,infondati e il ricorso rigettato.

Motivazione

La dettagliata esposizione delle decisioni di primo e secondo grado e delle impugnazioni consente alla Corte di concentrare la propria attenzione sui punti attualmente oggetto di contestazione.

1. Il primo di essi riguarda la deducibilità dei costi sostenuti in regime IVA sebbene non riportati in contabilità e fatti oggetto di produzione. I giudici di merito hanno concluso che nel caso in esame, a differenza di quanto avvenuto pei i costi sostenuti e per la determinazione delle soglie di punibilità ai fini delle imposte dirette, il calcolo delle soglie di punibilità ai fini IVA non possa tenere conto delle fatture passive non incluse in contabilità.La decisione della Corte di Appello sul punto fa buon uso dei principi fissati dalla sentenza emessa dalla Corte di Giustizia EU nella causa C-322/15, depositata il 28 luglio 2016, e dalla relativa interpretazione della Direttiva n.2006/112/CE. In particolare, la Corte di Giustizia ha posto in relazione la mancata dichiarazione IVA e la "omessa registrazione delle fatture emesse e pagate" alla "esatta riscossione delle imposte" e ricordato che tali condotte sono "atte a compromettere il buon funzionamento del sistema comune dell'IVA", con la conseguenza che gli Stati membri ben possono equiparare tali condotte alle evasione fiscale e "negare ... il beneficio del diritto a detrazione". Lo stretto collegamento fra le violazioni in materia IVA relative alla tenuta delle scritture e alle dichiarazioni obbligatorie e gli obblighi connessi al bilancio dell'Unione è stato recentemente riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 95 del 6 febbraio 2019, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all'art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, sotto il profilo della mancata previsione di soglie di punibilità in ragione dell'importo delle imposte fraudolentemente non dichiarate. Pur nel contesto di diversa e più grave ipotesi di reato, la Corte ha ribadito il principio generale secondo cui le norme fissate dal D.Lvo n.74 del 2000 dimostrano un particolare rigore del legislatore nell'ambito della tutela penale del sistema tributario, in considerazione del ruolo che la fattura riveste nel sistema di applicazione dell'IVA (tributo armonizzato di diritto europeo in base alla direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto), sistema che garantisce l'attuazione del principio della neutralità dell'imposta rispetto ai soggetti passivi, mediante il meccanismo della rivalsa e della detrazione. Una corretta applicazione dei principi fissati dalla Corte di Giustizia e dalla Corte Costituzionale conduce a concludere che gli importi derivanti da fatture ricevute, pertinenti e pagate ma non contabilizzate possono essere calcolati ai fini della soglia di punibilità solo nei casi in cui il mancato rispetto degli obblighi tributari non comporti un complessivo quadro di illegalità incompatibile con le finalità che la Corte di Giustizia e la Consulta hanno evidenziato. Questa Corte ritiene che nel caso in esame la corte territoriale abbia fatto buon uso dei principi ricordati e che la condotta del ricorrente rientri tra quelle che escludono la deducibilità delle fatture in contestazione. A tal fine rileva una circostanza che lo stesso ricorrente evidenzia ad altri fini con il terzo motivo di ricorso, e cioè che dopo anni di osservanza degli obblighi tributari egli cessò per ragioni personali di tenere correttamente la contabilità e di presentare le dichiarazioni obbligatorie. Va osservato a tale proposito che la mancata registrazione di fatture attive e passive si somma alla mancata registrazione dei costi relativi all'utilizzo dell'immobile e a quelli del personale impiegato. Tale comportamento appare finalizzato, da un lato, a bilanciare la mancata registrazione delle fatture emesse e, dall'altro, a creare una situazione di sostanziale "immersione" dell'attività d'impresa e di sua dissimulazione. Si versa, dunque, in quella situazione di irregolarità contabile non episodica per la quale è consentito concludere che "l'inosservanza dei requisiti formali abbia l'effetto di impedire che sia fornita la prova certa del rispetto dei requisiti sostanziali", così da risultare nella sostanza offensiva dei beni protetti. Ne consegue che lo Stato membro e i suoi organi amministrativi e giudiziari sono autorizzati a considerare detta situazione a ritenere ostativa alla deducibilità dei costi emergenti dalle fatture non contabilizzate.

2. Col secondo motivo si lamenta violazione di legge in relazione alla conferma del sequestro per equivalente ai fini di confisca, con particolare riguardo all'immobile di Venezia-Dorsoduro. Va rilevato in punto di fatto che la Corte di Appello si è limitata a intervenire riducendo l'importo da considerare profitto di reato e, conseguentemente, a rideterminare l'ammontare della confisca per equivalente, lasciando per il resto inalterata la misura cautelare già esistente a garanzia della futura confisca. Deve escludersi, infatti, che in materia di sequestro finalizzato a confisca per equivalente competa al giudice di merito individuare le modalità di esecuzione della confisca, materia che è devoluta alla fase esecutiva e al contraddittorio fra le parti. E che nel caso in esame si versi in ipotesi di confisca per equivalente appare fuori dubbio, non essendo il sequestro caduto sul profitto diretto del reato, profitto che consiste nel risparmio derivante dal mancato versamento delle imposte dovute, e non risultando i beni della società capienti rispetto al debito maturato dal ricorrente (Terza Sez. Pen, sent. n.9380 del 2020, ud. 16 ottobre 2019, rv 278416; Quarta Sez. Pen, sent. n.10418 del 24 gennaio 2018, rv 272238). Del resto, il ricorrente non contesta la circostanza di non avere provveduto a indicare beni diversi e di valore adeguato su cui il sequestro possa essere imposto al fine di liberare il vincolo sull'immobile di Venezia-Dorsoduro (Terza Sez.Pen, sent.n.40362 del 6 luglio 2016, rv 268587). Quanto alla censura legata alla destinazione dell'utilizzo dell'immobile veneziano in favore dei familiari del ricorrente come disposto in sede di procedura separazione dei coniugi, la Corte deve ricordare che la questione è stata affrontata dalla citata sentenza n.40362 del 2016. Tale decisione, confermando il precedente indirizzo, chiarì che il solo fatto che un bene immobile faccia parte di un fondo finalizzato all'utilizzo da parte dei familiari del ricorrente non impedisce che lo stesso formi oggetto di misura cautelare in vista di futura confisca a seguito di condanna per reati tributari. Con motivazione che questa Corte condivide, tale sentenza ha ricordato che "la Corte (ha) affermato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, non presupponendo alcuna forma di responsabilità civile, può avere ad oggetto anche beni inclusi nel fondo patrimoniale familiare, in quanto appartenenti al soggetto che ve li ha conferiti (Sez. 3, n. 40364 del 19/09/2012, Chiodini, Rv. 253681). Infatti, i beni costituenti il fondo patrimoniale possono essere aggrediti dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, gravando sui medesimi un mero vincolo di destinazione che non attiene alla titolarità del diritto di proprietà, e quindi, al tema dell'appartenenza del bene a persona estranea al reato sicché i beni costituenti il fondo patrimoniale rimangono nella disponibilità del proprietario o dei rispettivi proprietari e possono essere sottoposti a sequestro e a confisca in conseguenza dei reati ascritti ad uno dei conferenti ( Sez. 3, n. 1709 del 25/10/2012, dep. 2013, Cervone, non mass.)' . Anche il secondo motivo di ricorso deve pertanto essere ritenuto infondato.

3. Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali dovute per legge.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il giorno 17 luglio 2020


Scarica copia del provvedimento: Cassazione Sez. 3a Penale sentenza n.23621/2020

 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.