IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE SICILIANA In composizione monocratica
Nella persona del Giudice dott. Francesco Antonino Cancilla ha pronunciato la seguente
SENTENZA 637/2020
sul ricorso in materia di pensione iscritto al n. 65623 del registro di segreteria, depositato in data 3 maggio 2018, proposto da:
C. F., c.f. OMISSIS, elettivamente domiciliato in Palermo in via Principe di Belmonte n. 94 presso lo studio dell’avv. Claudio Buccoleri Mangiaracina, che lo rappresenta e difende per mandato in calce al ricorso
contro MINISTERO DELLA DIFESA – Comando generale dell’Arma dei Carabinieri e INPS, in persona del legale rappresentante protempore, rappresentato e difeso dall’avv. Tiziana Giovanna Norrito e dall’avv. Gino Madonia; Esaminati gli atti ed i documenti della causa;
Udite le parti nella pubblica udienza del 21 settembre 2020, come da verbale di udienza

Svolgimento del processo

Con ricorso ritualmente notificato C. F. ha convenuto in giudizio l’INPS e il Ministero della Difesa - Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri; premettendo di avere prestato servizio nell’Arma dei Carabinieri dal 25 2 settembre 1980 al 31 agosto 2017, ha chiesto la rideterminazione della pensione ai sensi dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973. L’INPS ha integralmente contestato le tesi di parte ricorrente e ha chiesto il rigetto del ricorso. All’udienza del 21 settembre 2020, udite le parti presenti, la causa è stata posta in decisione. All’esito della camera di consiglio della medesima udienza il Giudice ha letto il dispositivo e ha assegnato a sé -ai sensi dell’art. 167, comma 1, c.g.c.- il termine di giorni sessanta per il deposito della sentenza

Motivazione

Il ricorso non merita accoglimento. A)- Va respinta la domanda avente ad oggetto la rideterminazione della pensione ai sensi dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973. In merito all’applicazione del citato art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973, il Giudice condivide l’orientamento espresso dalla Sezione di Appello per la Regione siciliana nelle sentenze n. 40/A/2020 e n. 43/A/2020, poiché l’interpretazione offerta dal Collegio d’appello costituisce l’unica lettura costituzionalmente compatibile del citato art. 54. Invero, l’applicazione dell’art. 54 del t.u. n. 1092/1973 presuppone l’attenta esegesi delle disposizioni contenute nell’art. 52 del medesimo D.P.R. n.1092/1973. In primo luogo, si osserva che l’art. 52 citato, nel disciplinare il trattamento pensionistico normale (ipotesi diversa dall’accesso a quello privilegiato, correlato ad inabilità per causa di servizio), dispone che “l’ufficiale, il sottufficiale e il militare di truppa che cessano dal servizio permanente o 3 continuativo hanno diritto alla pensione normale se hanno raggiunto un’anzianità di almeno quindici anni di servizio utile, di cui dodici di servizio effettivo”. (1° comma). “Nel caso di cessazione dal servizio permanente o continuativo per raggiunti limiti di età il militare consegue la pensione normale anche se ha un’anzianità inferiore a quella indicata nel comma precedente” (2° comma). “L’ufficiale, il sottufficiale e il militare di truppa che cessano dal servizio permanente o continuativo a domanda, per decadenza o per perdita del grado hanno diritto alla pensione normale se hanno compiuto almeno venti anni di servizio effettivo” (3° comma). “All’ufficiale, al sottufficiale e al militare di truppa che cessano dal servizio permanente o continuativo, senza aver conseguito il diritto a pensione, spetta una indennità per una volta tanto, purché abbiano compiuto un anno intero di servizio” (5° comma). Non è revocabile in dubbio che il legislatore del 1973 abbia voluto subordinare l’accesso dei militari al trattamento normale di quiescenza al possesso di determinati requisiti minimi di anzianità (utile e/o effettiva), individuati in rapporto alle diverse cause di cessazione dal servizio. Più chiaramente, emerge che, per i casi di cessazione dal servizio correlati a circostanze da reputarsi, comunque, riconducibili alla volontà del soggetto interessato (dimissioni per qualsiasi motivo, perdita del grado, all’esito di procedimento disciplinare attivato per gravi violazioni di doveri di servizio; decadenza per il venir meno del possesso di determinati requisiti soggettivi), il legislatore ha previsto la necessità del raggiungimento di un’anzianità (almeno di 20 anni di servizio effettivo) maggiore rispetto a quelle stabilite 4 per l’accesso al trattamento di quiescenza nei casi di cessazione non dipendenti dalla volontà del militare, ossia in quelli per raggiunti limiti di età e per inabilità fisica non dovuta a causa di servizio. L’art. 54 del DPR 1092/1973, nel disciplinare la misura del trattamento normale di pensione, dispone che: “La pensione spettante al militare che abbia maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44% della base pensionabile “(1° comma). “La percentuale di cui sopra è aumentata dell’1,80 per ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo”. (2°comma). “La pensione non può, comunque, superare l’80% della base pensionabile” (7° comma). “Per il militare che cessa dal servizio permanente o continuativo per raggiungimento del limite di età, senza avere maturato l’anzianità prevista nel primo comma dell’art. 52, la pensione è pari al 2,20% della base pensionabile per ogni anno di servizio utile”. (9° comma). Orbene, dal raffronto tra l’art. 52 (concernente l’acquisizione del diritto al trattamento pensionistico normale) e l’art. 54 (riguardante la misura del trattamento normale di pensione) si evince quanto segue: a)- in caso di cessazione dal servizio permanente o continuativo con il possesso di un’anzianità inferiore ad un anno di servizio effettivo, al militare non spetta la pensione bensì l’indennità una tantum; b)- in caso di cessazione dal servizio permanente o continuativo per raggiunti limiti di età, con il possesso di un’anzianità inferiore a quindici anni di servizio utile, di cui dodici di servizio effettivo, la pensione spettante al militare sarà parametrata al 2,20 % della base per ogni anno di servizio 5 utile; c)- l’ufficiale, il sottufficiale ed il militare di truppa che cessano dal servizio permanente o continuativo a domanda, per decadenza o perdita del grado, conseguono il diritto alla pensione normale soltanto se in possesso di un’anzianità di almeno 20 anni di servizio effettivo e in tali casi la misura della pensione sarà pari al 44% della base pensionabile, ove l’anzianità ammonti a venti anni con un incremento dell’1,80 % per ogni anno ulteriore rispetto al ventesimo, salvo il limite massimo dell’80%. Dal raffronto tra le due norme pare agevole intuire che la disposizione di cui all’art. 54, comma 1 (secondo la quale la misura della pensione normale spettante al militare che sia cessato dal servizio, avendo maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di anzianità utile, è pari, invariabilmente, al 44% della base pensionabile), una volta letta in combinato disposto con l’art. 52, risulta concretamente applicabile nei soli casi di definitivo collocamento in congedo non riconducibili alla volontà del militare, come quelli per raggiunti limiti di età o per inabilità fisica non dovuta a cause di servizio . In altri termini, l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 54, comma 1, conduce ad affermare che il legislatore del 1973 avesse inteso riservare l’applicazione dell’aliquota fissa del 44% soltanto in favore di quei militari che: 1)- fossero effettivamente e definitivamente cessati dal servizio (essendo questo, ovviamente, il presupposto indispensabile per l’accesso al trattamento pensionistico); 2)- avessero concretamente maturato il diritto all’attribuzione della pensione 6 normale, essendo in possesso di quei requisiti d’anzianità minimi, stabiliti espressamente dall’art. 52; 3)- fossero in possesso, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio, esclusivamente di un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni. Deve considerarsi che per principio generale il trattamento di quiescenza si determina con riferimento alla situazione ed alle norme vigenti al momento della cessazione dal servizio ed è incontestato che la parte ricorrente è stata posta in quiescenza con più di venti anni di servizio utile. Occorre, dunque, evidenziare che l’art. 54 del DPR 1092/1973 è una norma finalizzata ad avvantaggiare -mediante la previsione di un’aliquota fissa, riferita da un ben determinato arco temporale pluriennale- una specifica platea di militari che versano contestualmente nelle condizioni di: a)- essere precocemente cessati dal servizio per cause non riconducibili alla loro volontà; b)- avere conseguito il diritto alla pensione normale, secondo quanto disposto dall’art. 52; c)- essere, altresì, in possesso -all’epoca del collocamento a riposo- di un’anzianità tassativamente ricompresa tra i 15 ed i 20 anni. Tutto ciò implica che la disposizione di cui all’art. 54, comma 1°, presenta: -da un lato, profili di specialità da un punto di vista soggettivo, che non rendono plausibile l’applicazione al di fuori della limitata cerchia di militari, individuata dal legislatore come meritevole di particolare tutela sotto un profilo previdenziale; -da un altro lato, profili di eccezionalità dal punto di vista oggettivo, nella parte in cui fissa una aliquota unica (44%) riferita a un arco temporale pluriennale, laddove altre norme contenute nello stesso art. 54 individuano 7 aliquote differenziate in rapporto all’entità delle anzianità effettivamente possedute. Conclusivamente, se è vero che l’intero art. 54 del D.P.R. n. 1092/1973 regolamenta in linea generale i trattamenti pensionistici normali spettanti ai militari nell’ambito del sistema retributivo puro, è altrettanto vero che il 1° comma del medesimo art. 54, laddove individua un’aliquota fissa (il 44%), in rapporto ad un ben indicato arco temporale pluriennale, reca una disciplina speciale ed eccezionale, applicabile in funzione essenzialmente perequativa (al fine di garantire un congruo trattamento minimo di pensione), esclusivamente agli ambiti soggettivi sopra delineati, considerati dal legislatore meritevoli di particolare tutela dal punto di vista previdenziale. Va sottolineato, al riguardo, che il ricorrente, all’epoca di definitiva cessazione dal servizio non era in possesso di un’anzianità di almeno quindici e non più di venti anni bensì di un’anzianità ben più elevata (ed esattamente 37 anni).

A.1)- Una diversa lettura dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973, come quella prospettata dal ricorrente e accolta dall’orientamento prevalente della giurisprudenza, espone inevitabilmente tale disposizione a plurime censure di illegittimità costituzionale. L’interpretazione fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Corte dei Conti, che implica una generalizzata applicazione dell’art. 54, comma 1, del DPR 1052 del 1973 a tutti i militari, infatti, induce a dubitare della legittimità costituzionale del citato art. 54, poiché tale disposizione, in conseguenza della norma che se ne ricava in via interpretativa, si pone 8 sicuramente in contrasto: a)- con l’art. 3 della Costituzione sotto il profilo dell’eguaglianza e dell’irragionevole disparità di trattamento oltre che dell’irragionevolezza intrinseca; b)- con l’art. 81 della Costituzione -sotto i profili della copertura della legge di spesa, dell’equilibrio di bilancio e dell’equità e solidarietà intergenerazionale in combinato disposto con l’art. 2 della Costituzione.

A.1.1) Sotto il profilo dell’uguaglianza e della violazione dell’art. 3 della Costituzione, va considerato che l’applicazione della norma auspicata da parte ricorrente finisce per alterare, del tutto irragionevolmente, il rapporto tra quota retributiva e quota contributiva nei trattamenti di pensione soggetti al regime c.d. misto e provoca situazioni non giustificabili di disparità di trattamento tra gli stessi militari. Giova ribadire che la norma, infatti, è volta a garantire un trattamento pensionistico vantaggioso ai militari che cessino dal servizio con una anzianità ridotta, ma non vi è ragione alcuna per applicarla a chi, come parte ricorrente, sia cessato dal servizio con una anzianità ben superiore. L’interpretazione sostenuta da parte ricorrente contrasta poi con la ratio legis, quella, cioè, di parificare la situazione di chi cessava dal servizio tra i 15 e 20 anni, sicché la norma può ritenersi applicabile -in una logica solidaristica- ai soli militari che, all’atto del congedo, avessero maturato una anzianità di servizio utile a pensione tra i 15 e i 20 anni e non abbiano potuto maturarne una superiore per motivi indipendenti dalla sua volontà (limiti di età, inabilità, ecc.). La ratio della disposizione va chiaramente intesa alla luce del contesto in cui essa fu introdotta; all’epoca, infatti, vigeva il sistema retributivo puro, sicché 9 con una funzione perequativa si ritenne opportuno tutelare proprio quei militari che, per motivi indipendenti dalla propria volontà, fossero costretti ad abbandonare il servizio, non avendo raggiunto i vent’anni di servizio. Se peraltro si aderisse all’interpretazione prevalente, invocata dal ricorrente, si porrebbe il problema del riparto dell’aliquota di rendimento tra i periodi maturati al 31.12.1992 (per i quali si applica alla base pensionabile pari all’ultima retribuzione), e quelli maturati successivamente a tale data e fino al 31.12.1995 (per i quali si applica alla base pensionabile pari alla media degli ultimi anni). Va evidenziato, al riguardo, che alcuna disposizione positiva indica l’eventuale (quanto insussistente) criterio di riparto, risultando qualsivoglia indicazione del tutto arbitraria e priva di riferimento normativo, non colmabile certo con una pronuncia giurisdizionale che finirebbe, inammissibilmente, per compiere una scelta che può essere solo del legislatore. L’interpretazione dell’art. 54, comma 1, del DPR 1052/1073 sollecitata dal ricorrente ed affermata dalla giurisprudenza maggioritaria si pone, poi, in contrasto con la dichiarata ratio ispiratrice delle riforme in materia pensionistica degli ultimi decenni, tutte tese all’armonizzazione dei diversi sistemi pensionistici nell’ottica del perseguimento dell’equilibrio di bilancio ormai costituzionalizzato dall’art. 81 Cost.-. L’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973, oltre al già ricordato effetto distorsivo e potenzialmente discriminatorio, darebbe origine anche ad un ulteriore effetto illogico, che ne palesa ulteriormente l’irragionevolezza. Non va, infatti, dimenticato che parte ricorrente è cessata dal servizio ben oltre i vent’anni di servizio e che il trattamento pensionistico è stato liquidato con il 10 sistema c.d. “misto”. Parte del trattamento è stata liquidata con il sistema c.d. contributivo, e precisamente quella spettante in ragione delle anzianità maturate successivamente al 31.12.1995. Tale circostanza impedisce di ritenere neutra l’anzianità maturata tra i 15 e i 20 anni di servizio, poiché nel computo della quota c.d. contributiva della pensione l’anzianità maturata dopo il 31.12.1995 è calcolata ai fini non solo della determinazione del montante contributivo, ma anche ai fini dell’aliquota di rendimento. Vi è dunque l’effetto paradossale per cui lo stesso periodo di servizio (quello, cioè, successivo al 31.12.1995) verrebbe valorizzato per ben due volte al fine del calcolo del trattamento pensionistico: sia in riferimento alla c.d. quota A, cioè quella alla quale si applica il sistema retributivo, che in riferimento alla c.d. quota B, quella cioè alla quale applicare il sistema contributivo. Tale conseguenza non è di per sè ammissibile stante il divieto normativo della valorizzazione del medesimo periodo contributivo per più volte ai fini della maturazione del diritto alla pensione e, a maggior ragione, del calcolo della medesima; si tratta di un principio fondamentale del sistema previdenziale, che ne assicura la razionalità e che trova chiaro riferimento nell’art. 81 della Costituzione e nel principio dell’equilibrio di bilancio ivi affermato anche in una logica di equilibrio intergenerazionale.

A.1.2)- L’interpretazione qui proposta e confermata autorevolmente dalla Sezione di appello per la Regione siciliana nelle sentenze n. 40/A/2020 e 43/A/2020, dunque, evita le antinomie sopra indicate e risulta l’unica compatibile con la Costituzione. Al riguardo, si rammenta che la Corte costituzionale ha da sempre affermato che un preciso canone di interpretazione delle leggi è quello per cui, qualora 11 la stessa disposizione possa essere interpretata in modo diversi, l’interprete deve scegliere l’interpretazione conforme a Costituzione, così da ricavarne la norma compatibile con il testo e con i principi costituzionali. Invero, la Corte Costituzionale ha chiarito che, se il giudice propende per una norma che rende la disposizione di dubbia compatibilità con la Costituzione, non va sollevata la questione di legittimità, ove l’interpretazione conforme a Costituzione riesca a risolvere l’antinomia con le norme costituzionali. Affinché il giudice emetta ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, è necessario che sussistano alcune condizioni, fra le quali, in particolare per quel che qui rileva, l’impossibilità di configurare una interpretazione adeguatrice o conforme a Costituzione della disposizione; si tratta non di una facoltà ma di un vero e proprio dovere del giudice (cfr. Corte Cost. n. 356/1996, n. 269/1998, 427/1999, 190/2000), tanto che, in mancanza di tale sforzo interpretativo, la Corte finisce per dichiarare infondata la questione, talvolta con una dichiarazione di inammissibilità oppure con una vera e propria dichiarazione di infondatezza. E’ stato così affermato che: “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime, perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte Cost. n. 356/1996; n. 77/2018).

A.1.3)- Si riassumono, a questo punto, i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 54, comma 1, del DPR del 1092 del 1973; tali profili, per contro, non sussistono, ove si aderisce all’interpretazione formulata dalla Sezione di appello per la Regione siciliana nelle sentenze n. 40/A/2020 e 43/A/2020e integralmente condivise da questo Giudice. L’applicazione generalizzata dell’art. 54, comma 1, DPR 1092/1973, infatti, 12 si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione -sotto il profilo dell’eguaglianza e dell’irragionevole disparità di trattamento oltre che dell’irragionevolezza intrinseca. Giova richiamare la giurisprudenza costituzionale, che ha individuato nell’art. 3 della Costituzione il riferimento per il sindacato sulla ragionevolezza delle leggi. La Corte ha evidenziato che la legge è sottoposta a un doppio onere di coerenza e di ragionevolezza: “il primo comporta un controllo volto a stabilire se tra le varie manifestazioni normative nella stessa materia (tertia comparationis) e quella denunciata sussista una congruità dispositiva o, invece, vi siano contraddizioni insanabili. Il secondo prescinde da raffronti con termini di paragone per esaminare la rispondenza degli interessi tutelati dalla legge ai valori ricavabili dalla tavola costituzionale o al bilanciamento degli stessi, inferendo una contrarietà a Costituzione, solo quando non sia possibile ricondurre la disciplina ad alcuna esigenza protetta in via primaria o vi sia evidente sproporzione tra i mezzi appropriati e il fine asseritamente perseguito” (vds. pure la Relazione del Presidente della Corte Costituzionale del 2007 (Parte II, cap. 1), del 2016 (p. 7 e p. 10), cfr. Corte Cost., n. 446/2005). Il sindacato della Corte, dunque, si spinge sino alla verifica della ragionevolezza intrinseca che “nel corso degli anni ha acquisito dignità ex se: mediante un giudizio che prescinde dal confronto della norma censurata con il tertium comparationis” e che “comporta .. considerazioni di adeguatezza, di pertinenza, di proporzionalità, coerenza” (vds. la Relazione del Presidente della Corte Costituzionale del 2006 Parte II, cap. I, 2.2.). La Corte costituzionale ha pure sindacato “la coerenza della disciplina 13 contestata con la ratio che la anima o la proporzionalità fra la disciplina e il risultato che essa vuole perseguire o l’equità delle scelte legislative” (cfr. Corte Cost. n. 206/2004). Tanto premesso, sono manifeste le inevitabili antinomie derivanti dall’applicazione generalizzata dell’art. 54, comma 1, DPR 1092/1973, con conseguente violazione del principio di ragionevolezza e di uguaglianza desumibile dall’art. 3 della Costituzione: a)- in palese contrasto con la ratio legis, avente una finalità solidaristica, si estende immotivatamente un trattamento di favore per tutti i militari, senza che a ciò corrisponda una valida ragione intrinseca all’ordinamento o comunque un interesse espressamente sancito dalla normativa o direttamente ricollegabile alla Costituzione; b)- rispetto alla platea composta dai pensionati civili e da quelli delle forze di polizia ad ordinamento civile, si crea un trattamento di particolare privilegio per i militari, che, comunque, hanno già fruito di una disciplina pensionistica molto favorevole; in breve, si tratta di un’ulteriore specialità che si innesta su una disciplina già di per sé speciale e vantaggiosa; c)- si valorizza due volte un periodo contributivo, così creando un’insanabile contraddizione con la coerenza dell’ordinamento previdenziale, la cui sostenibilità economica viene comunque pregiudicata; d)- il risultato realizzato eccede quanto previsto dal legislatore, atteso che l’interpretazione estensiva dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973 finisce per privare di senso o della loro rilevanza gli altri commi dell’art. 54, sicché non se ne comprende la previsione, laddove realmente il legislatore avesse voluto generalizzare il trattamento di cui all’art. 54, comma 1. 14 L’interpretazione della Sezione di appello per la Regione siciliana espressa chiaramente nelle sentenze n. 40/A/2020 e 43/A/2020, invece, è l’unica, che consente di evitare i profili di irragionevolezza o incongruenza sopra delineati.

A.1.4)- L’art. 54, comma 1, del DPR 1092 del 1973, come interpretato dall’orientamento maggioritario e da parte ricorrente, poi, finisce per violare l’art. 81 della Costituzione sotto i profili della copertura della legge di spesa, dell’equilibrio di bilancio e dell’equità e solidarietà intergenerazionale in combinato disposto con l’art. 2 della Costituzione; infatti: a)- si viola l’equilibrio di bilancio, poiché non risulta che l’art. 54, comma 1, del DPR 1092 del 1973 abbia mai trovato adeguata copertura finanziaria, in maniera tale da sostenere il notevole incremento di spesa, che ne deriverebbe dalla generalizzata applicazione a tutti i militari; b)- si viola il principio dell’equilibrio e della solidarietà intergenerazionale, che è stato affermato dalla Corte Costituzionale negli ultimi anni. Invero, va osservato che l’invecchiamento demografico determinato dall’aumento della speranza di vita e dal contestuale calo della natalità hanno prodotto inevitabilmente forti tensioni sulla sostenibilità intra ed intergenerazionale del sistema di welfare previdenziale fondato sul criterio a ripartizione, in base al quale le prestazioni previdenziali sono finanziate dalla popolazione lavorativa attiva. D’altra parte, proprio la generosa concessione di alcune prestazioni previdenziali disposta, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta del secolo scorso, grazie alla rilevante espansione della spesa pubblica finanziata con il massiccio ricorso all’indebitamento, è oggi una rilevante concausa dell’affanno del debito pubblico italiano tuttora continua 15 a versare. Alla luce di tale quadro socio-economico, nella sentenza n. 264 del 2012, che aveva ad oggetto proprio alcune misure in materia pensionistica, la Corte ha evidenziato che un sistema previdenziale tendente a garantire la corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate “assicura la razionalità complessiva del sistema stesso, impedendo alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, e così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali”. L’eguaglianza e la solidarietà sono identificati dalla Corte costituzionale come i principi su cui si poggia e si sviluppa l’affermazione della solidarietà intergenerazionale. Nella sentenza n. 88 del 2014, la Corte, rispondendo alla censura relativa alla ritenuta incostituzionalità degli art. 11 e 12 della legge n. 243 del 2012, ha precisato che la necessità di garantire il rigore finanziario non può essere disgiunta da quella di tutelare i livelli essenziali delle prestazioni e l’esercizio delle funzioni fondamentali inerenti i diritti civili e sociali. Entrambe queste istanze, nella loro complementarità, trovano infatti la loro ragion d’essere nei principi di solidarietà e di eguaglianza, «alla cui stregua tutte le autonomie territoriali, e in definitiva tutti i cittadini, devono, in un’ottica di equità intergenerazionale, essere coinvolti nei sacrifici necessari per garantire la sostenibilità del debito pubblico». Nella sentenza n. 173 del 2016 la Corte ha sottolineato che proprio il sistema pensionistico deve garantire, soprattutto nei momenti più critici in cui le 16 risorse economiche scarseggiano, la tutela dei più deboli, in modo tale che anche le generazioni future, o più giovani, di pensionati possano godere di una tutela previdenziale adeguata Nella sentenza n. 250 del 2017 la Corte Costituzionale ha ricordato come le previsioni impugnate limitative dei trattamenti pensionistici fossero state adottate -nel rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica- anche in funzione della salvaguardia della «solidarietà intergenerazionale»; ha così dichiarato infondate le questioni di legittimità. Sulla base di tali considerazioni è evidente che l’applicazione generalizzata dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973 non trova chiaro fondamento nel testo della disposizione, risulta priva di copertura finanziaria, pregiudica l’equilibrio di bilancio, non è economicamente sostenibile e reca un pregiudizio alla coerenza del sistema previdenziale con ricadute negative e irreversibili per le generazioni future; tale applicazione, peraltro, non può neppure giustificarsi alla luce di altre disposizioni costituzionali, tenuto conto del fatto che il trattamento pensionistico goduto da parte ricorrente è sufficiente ed eccede l’importo dei contributi versati.

A.1.5.)- In sintesi, l’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973, quale risulta dall’interpretazione prevalente, non può sfuggire alle censure di legittimità costituzionale sopra riportate, perché implica un trattamento pensionistico privilegiato e speciale, del tutto sganciato dalla contribuzione, privo di una sua ratio giustificatrice, con inevitabile aggravio per le generazioni future e con palese contrasto con quel principio di equilibrio di bilancio, che deve caratterizzare il sistema previdenziale, tanto più ove si consideri che i trattamenti pensionistici in questione, fra cui quello già goduto da parte 17 ricorrente, sono più che sufficienti e adeguati. Non resta che un’alternativa: o si condivide l’interpretazione offerta dalla Sezione di appello per la Regione siciliana nelle sentenze n. 40/A/2020 e 43/A/2020, che dà una lettura conforme alla Costituzione, oppure -viceversaove dovesse affermarsi l’indiscriminata applicazione dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1073, rimarrebbe solo la strada della questione di legittimità costituzionale per i profili sopra descritti. La Corte Costituzionale, tuttavia, dichiara infondate o inammissibili le questioni di legittimità, ove lo stesso testo normativo sia interpretabile in maniera conforme a Costituzione, così come delineato dalla Sezione di appello della Regione siciliana nelle sentenze n. 40/A/2020 e n. 43/A/2020, la cui interpretazione, allora, è l’unica percorribile, proprio in quanto costituzionalmente orientata.

A.1.6)- In conclusione, sulla base delle sentenze n. 40/A/2020 e n. 43/A/2020 della Sezione di appello della Regione siciliana, integralmente condivise da questo Giudice, dovendosi procedere a un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 54, comma 1, del DPR 1092/1973 per tutte le ragioni sopra esposte, poiché il ricorrente è cessato dal servizio con più di venti anni di anzianità, non sussistono i presupposti per l’accoglimento della domanda, che va integralmente respinta. In conclusione, il ricorso va integralmente respinto.

La particolare complessità delle questioni trattate e la presenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti inducono il giudicante a compensare integralmente le spese di giudizio.

PQM

La Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Siciliana, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando:
-rigetta il ricorso; -
spese di lite compensate;
-in considerazione della particolare complessità della controversia, ai sensi dell’art. 167, comma 1, c.g.c., fissa il termine di giorni sessanta per il deposito della sentenza;
-dispone che, ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 196/2003, in conseguenza della natura dei dati personali trattati, si provveda all’oscuramento delle generalità della ricorrente in sede di pubblicazione nella banca dati o di rilascio di copie a soggetti diversi dalle parti.


Scarica copia del provvedimento: Corte dei Conti sentenza 637/2020

 

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