REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10145 del 2011, proposto dal -OMISSIS-, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Alberto Arrigo Gianolio e Orlando Sivieri, con domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, via Cosseria, n. 5,
contro

la -OMISSIS-in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Arturo Cancrini, Eugenio Dalli Cardillo e Giovanna Marchiano', con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, piazza San Bernardo, n.101,
per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per -OMISSIS-- (Sezione Seconda) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente il risarcimento danni conseguiti all’annullamento dell’aggiudicazione di un servizio di ristorazione.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della -OMISSIS-

Viste le memorie e le memorie di replica;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 e l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70;

Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 17 novembre 2020, il Cons. Antonella Manzione e udito per il -OMISSIS- l’avvocato Alberto Arrigo Gianolio, in collegamento da remoto in videoconferenza;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

Svolgimento del processo

1. Il -OMISSIS- ha annullato, con determinazione dell’8 giugno 2001, n. 28, l’aggiudicazione, effettuata con precedente provvedimento n. 15 del 17 aprile 2001, alla -OMISSIS-(-OMISSIS-) del servizio di ristorazione destinato a studenti, anziani ed altri utenti del proprio centro ricreativo estivo. Ciò in quanto in sede di verifica della dichiarazione sostitutiva cumulativa prevista dall’art. 32 del capitolato speciale d’appalto emergeva che il suo procuratore speciale, signor -OMISSIS-, era stato condannato in applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. per reati di natura finanziaria.

2. A seguito di contenzioso instaurato dalla Società -OMISSIS- (d’ora in avanti solo la Società), questo -OMISSIS-, in riforma della sentenza del T.A.R. -OMISSIS-, confermava la legittimità dell’annullamento, sull’assunto che una corretta lettura dell’art. 12, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 157 del 1995, vigente ratione temporis, imponeva di estendere l’accertamento del possesso del requisito morale in capo a qualsiasi persona fisica presente nel procedimento in luogo del concorrente e dotata di poteri che le consentivano di obbligarsi validamente in nome e per conto di questo, a nulla rilevando la circostanza che il soggetto in questione avesse commesso i reati ascrittigli e patteggiato la relativa condanna quando operava per conto di una società diversa, pena la facile elusione delle finalità della norma, a discapito della correttezza dell’azione amministrativa. Con sentenza n. -OMISSIS-, infine, la Corte di Cassazione, adita dalla medesima Società ex art. 362, comma 1, c.p.c., confermava la giurisdizione del giudice amministrativo sulla materia.

3. L’andamento ondivago delle vicende cautelari all’interno del richiamato contenzioso, consentiva al -OMISSIS- di stipulare il contratto di appalto con la a.t.i. -OMISSIS- in data 9 novembre 2001, avendo la sez. V del Consiglio di Stato, con ordinanza n. -OMISSIS- accolto il gravame proposto dallo stesso avverso l’originaria sospensiva accordata dal T.A.R.

4. Con ricorso n.r.g. -OMISSIS-il Comune adiva nuovamente il T.A.R. -OMISSIS-per sentire condannare la Società al risarcimento del danno patito in ragione dell’annullamento dell’aggiudicazione del servizio, evidenziando le più onerose condizioni cui era stato costretto ad accondiscendere sulla base dell’offerta della a.t.i. classificatasi seconda. Quanto detto avvalendosi della clausola contenuta nell’art. 39, comma 6, del capitolato speciale di gara, che con riferimento, tra l’altro, all’ipotesi di “non veridicità” delle dichiarazioni rese nel corso della procedura, fa salvo il diritto del Comune a vedersi riconoscere i danni «per il maggior costo del servizio rispetto a quello che sarebbe stato sostenuto senza la decadenza dell’aggiudicatario».

5. Il T.A.R. per-OMISSIS-, respingeva il ricorso, compensando le spese di giudizio. Il pregiudiziale giudicato amministrativo riveniente dalla sentenza del Consiglio di Stato n.-OMISSIS-si è limitato a sancire la legittimità dell’esclusione dalla gara della Società per difetto del requisito della moralità professionale, ma nulla ha detto circa la natura non veridica delle dichiarazioni di parte. La necessità di ricondurre comunque la clausola contrattuale invocata nel paradigma dell’illecito civile avrebbe richiesto la prova della colpa nella condotta della parte, insussistente nel caso di specie, stante che le omissioni dichiarative del procuratore della Società attenevano ad una condanna, sulla cui rilevanza, con riferimento alla sua attività di attuale rappresentanza della stessa, sussistevano all’epoca tali dubbi interpretativi da aver indotto lo stesso T.A.R., con la sentenza n. -OMISSIS-, a ritenere illegittimo l’annullamento dell’aggiudicazione.

6. Avverso tale sentenza ha proposto appello il -OMISSIS- contestandone la correttezza in fatto e in diritto con tre articolate censure:

I) la sentenza del Consiglio di Stato n. 3241 del 9 giugno 2003, ritenendo imputabili alla Società i reati per i quali era stato condannato il suo procuratore speciale, avrebbe implicitamente riconosciuto anche il carattere mendace delle dichiarazioni rese dallo stesso;

II) non sarebbe corretto estendere ad un privato l’esimente del contrasto interpretativo sull’effettiva portata di una norma, valida per “scriminare” la condotta delle pubbliche amministrazioni. Non vi era peraltro alcuna incertezza sulla circostanza che la falsità delle dichiarazioni rileva ex se, e non in ragione dell’elemento psicologico che la sorregge;

III) l’art. 39 del capitolato, costituente lex specialis della gara, commisura il risarcimento del danno al maggior esborso sostenuto dal Comune a causa dell’annullamento, ovvero, nel caso di specie, al superiore prezzo unitario dei pasti contenuto nell’offerta del nuovo aggiudicatario, secondo in graduatoria (euro 4,11, anziché euro 3,61). Da qui la quantificazione del danno nella somma di euro 377.856,52, oltre IVA, calcolata dalla data di inizio del servizio (1 maggio 2001) alla sua cessazione, avvenuta dopo una proroga di 8 mesi il 31 dicembre 2006, salvo il Collegio intenda disporre apposita consulenza tecnica allo scopo.

7. Si è costituita in giudizio la Società chiedendo la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza impugnata. Non essendo state le dichiarazioni presentate dal procuratore mendaci o definite tali, il Comune non potrebbe pretendere alcun risarcimento. Mancherebbe inoltre l’elemento soggettivo del mendacio, sia in quanto la sentenza cui il procuratore aveva omesso di fare riferimento conseguiva a patteggiamento, ovvero una tipologia di definizione del giudizio penale la cui assimilabilità tout court ad una condanna ha costituito acquisizione successiva della dottrina processualpenalistica; sia in quanto ascrivibile al diverso Ente per il quale la medesima persona aveva in precedenza lavorato.

8. Il -OMISSIS- ha altresì depositato memoria di replica in data 27 ottobre 2010, la cui ammissibilità è eccepita da controparte nelle note di udienza del 16 novembre 2020: non avendo la difesa civica provveduto al deposito della memoria di cui all’art. 73 c.p.a., sarebbe decaduta ipso facto dal potere di depositarne in replica agli scritti difensivi di controparte.

9. Alla camera di consiglio del 17 novembre 2020, tenutasi con modalità da remoto ai sensi dell’art. 25, comma 2, del decreto legge n. 137 del 28 ottobre 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivazione

10. Preliminarmente il Collegio ritiene di dovere scrutinare l’eccezione di inammissibilità della memoria di replica del 27 ottobre 2020. In linea di principio, la giurisprudenza del giudice amministrativo ha chiarito che ai sensi dell’art. 73, comma 1, c.p.a., le repliche sono ammissibili solo ove conseguenti ad atti della controparte ulteriori rispetto a quelli di risposta alle iniziative processuali della parte stessa (ricorso, motivi aggiunti, memorie, documenti, ecc.), atteso che la ratio legis si individua nell’impedire la proliferazione degli atti difensivi, nel garantire la par condicio, nell’evitare elusioni dei termini per la presentazione delle memorie e, soprattutto, nel contrastare l’espediente processuale della concentrazione delle difese nelle memorie di replica con la conseguente impossibilità per l’avversario di controdedurre per iscritto (cfr. Cons. St., sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5676). Né la memoria di replica può essere considerata prima memoria se depositata, come nel caso all’esame del Collegio, oltre il termine di trenta giorni previsto dall’art. 73 c.p.a. (Cons. St., sez. III, 28 gennaio 2015, n. 390; 4 giugno 2014, n. 2861; id. , 2 maggio 2019, n. 2855). La Società dimentica tuttavia che l’odierna vicenda fruisce dei termini dimezzati ratione materiae ex art. 119, comma 2, c.p.a., per cui, quale che sia il nomen attribuito alla memoria dell’appellante, essa risulta depositata nel termine ivi previsto per quelle di parte, non incorrendo nella decadenza invocata. Quanto detto a prescindere peraltro dal contenuto della stessa, di sostanziale reiterazione di quello dell’atto di appello.

11. Nel merito, l’appello si palesa infondato.

12. Va premesso che la possibilità di agire in giudizio a tutela dei propri diritti soggettivi in ambiti di giurisdizione esclusiva da parte della p.a. è stata da sempre riconosciuta dal giudice amministrativo, avuto riguardo in particolare alle azioni a titolo di responsabilità precontrattuale proposte nei confronti delle controparti private, per condotte scorrette nella fase delle trattative. A favore della riconosciuta bilateralità direzionale delle tutele milita in primo luogo il principio di concentrazione delle stesse, che avrebbe reso irrazionale ed antieconomico non trattare unitariamente la domanda riconvenzionale di un’amministrazione verso il privato che l’abbia evocata in giudizio innanzi al giudice amministrativo, con l’evidente rischio anche di contrasto di giudicati (Cons. Stato, sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 20; sez. V, 11 dicembre 2007, n. 6358, relativa ad un accordo di diritto pubblico ex l. n. 241 del 1990). In termini più generali, l’Amministrazione pubblica ben può agire con un ricorso in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva, a tutela di un proprio diritto soggettivo (Cons. Stato, A.P., 20 luglio 2012, n. 28; sez. IV, 25 giugno 2010, n. 4107, riferita ad un’azione ex art. 2932 c.c.). Sul punto, anche la Corte costituzionale ha avuto modo di pronunciarsi, affermando che sebbene «gli artt. 103 e 113 Cost. siano formulati con riferimento alla tutela riconosciuta al privato nelle diverse giurisdizioni, da ciò non deriva affatto che tali giurisdizioni siano esclusivamente attivabili dallo stesso privato, né che la giustizia amministrativa non possa essere attivata dalla pubblica amministrazione; tanto più che essa storicamente e istituzionalmente è finalizzata non solo alla tutela degli interessi legittimi (ed in caso di giurisdizione esclusiva degli stessi diritti), ma anche alla tutela dell’interesse pubblico, così come definito dalla legge» (Corte cost. n. 179 del 2016).

13. Afferma il primo giudice che al fine di dirimere una controversia che veda quale parte attrice l’Amministrazione, anziché il privato, debbano comunque essere utilizzate le categorie concettuali elaborate dalla giurisprudenza “a parti rovesciate”. L’assunto merita condivisione, in un’accezione ancora più estesa del semplice riferimento alla rilevata operatività a discolpa (anche) del privato della “esimente” della «obiettiva situazione di incertezza circa le corrette determinazioni (pubblicistiche) da assumere» (§ 4.5 della sentenza impugnata).

Si pone pertanto l’esigenza di individuare la cornice ordinamentale nella quale collocare la fattispecie, onde ricostruirne i postulati, salvo adattarli al fatto del richiamato ribaltamento di prospettiva. Collocazione che, come meglio chiarito nel prosieguo, riporta la vicenda proprio nell’alveo della responsabilità precontrattuale, tipico scenario risarcitorio della pubblica amministrazione nei confronti della controparte privata.

Rileva ancora il Collegio come occorra allo scopo focalizzare attentamente la peculiarità della vicenda, non circoscritta solo alla richiamata inversione di ruolo tra le parti pubblica e privata rispetto al tradizionale schema risarcitorio in ambito pubblicistico, ma connotata anche dalla circostanza che l’evento causale del danno non viene individuato in un comportamento -recte, non viene individuato “direttamente” in un comportamento- , bensì in un provvedimento, per rimediare alla illegittimità del quale l’Amministrazione sceglie di esercitare il proprio potere di autotutela. Attraverso un meccanismo sussumibile al noto brocardo latino del causa causae est causa causati, cioè, l’Amministrazione accolla le conseguenze della propria scelta al privato che con il suo comportamento avrebbe determinato il vizio dell’atto, attingendo nella quantificazione del danno subito alle indicazioni cristallizzate nell’art. 39 del capitolato di gara. L’aggiudicazione, cioè, sarebbe stata inficiata di falso per induzione, volendo mutuare efficace terminologia penalistica al riguardo, non potendo le conseguenze del ripristino della legalità lesa non ricadere sull’autore della condotta illecita. Ricostruzione, tuttavia, che pretermette di dare rilievo al fatto che è stata necessaria una complessa istruttoria interna, supportata dal parere di un legale, nonché l’esito di uno specifico contenzioso, per chiarire in maniera inconfutabile l’esatta portata dei presupposti morali la cui consistenza il procuratore della Società avrebbe dovuto invece conoscere da subito in tale ricostruita accezione.

14. Il dibattito sulla responsabilità riveniente dalla non corretta gestione della dinamica relazionale nella contrattualistica pubblica ha costituito da tempo l’ambito più fertile di sviluppo della teorica di un sistema di diritto comune che attingendo ai principi civilistici ne mutua l’essenza al fine di ampliare la soglia della risarcibilità ed elevare il livello di collaborazione richiesto alla pubblica amministrazione, seppur senza rinunciare alle prerogative del proprio potere autoritativo. La commistione tra regole pubblicistiche e regole privatistiche che ne connota la disciplina, infatti, sì da renderle operanti non in sequenza temporale, ma in maniera contemporanea e sinergica, sia pure con diverso oggetto e con diverse conseguenze in caso di rispettiva violazione, ben giustificano l’approccio osmotico a categorie concettuali tipiche del diritto privato da parte dei titolari di pubblici poteri (cfr. sul punto Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237). Da qui la rilevanza attribuita a quelle di correttezza, che non possono pertanto essere relegate soltanto ad una o più delle singole fasi in cui si suddivide una gara, ma le permeano nella loro interezza, in quanto le stesse, oltre che intrise di aspetti pubblicistici e privatistici, sono tutte pur sempre teleologicamente orientate all’unico fine della stipulazione del contratto. Prima della quale, dunque, il loro rispetto non può che riguardare le “trattative”, il “contatto” più o meno intensamente qualificato nelle quali esse si sono circostanziate, a seconda del grado di sviluppo del procedimento.

Va ricordato altresì come la differenza tra violazione delle regole pubblicistiche e civilistiche risiede nel fatto che la prima, in quanto riferita all’esercizio diretto ed immediato del potere, impatta sul provvedimento, determinandone, di regola, l’invalidità; l’altra, invece, si riferisce al comportamento, seppur collegato in via indiretta e mediata all’esercizio del potere, complessivamente tenuto dalla stazione appaltante o dall’amministrazione aggiudicatrice nel corso della gara e la loro violazione genera non invalidità provvedimentale, ma responsabilità. Il che non può non valere anche con riferimento alla condotta del privato, seppure a sua volta destinata a confluire in atti dell’Amministrazione. Essa, dunque, va egualmente valutata alla stregua della rispondenza ai richiamati canoni di correttezza comportamentale, non potendo certo porsi sullo stesso piano un errore o una dimenticanza o, come nel caso di specie, una scelta determinata da errore di diritto scusabile, e un’altra, consapevolmente volta invece a trarre in inganno il contraente pubblico. Diversamente opinando, si arriverebbe al paradosso di “punire” con maggior rigore la condotta che abbia inciso in via “mediata” su un provvedimento, rispetto a quella ascrivibile direttamente al funzionario preposto ad esprimere la volontà dell’Amministrazione, la cui responsabilità, espressamente evocata in caso di annullamento d’ufficio dal portato testuale del comma 1 dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990, rientra comunque nella normale perimetrazione della colpevolezza.

15. Il paradigma cui ascrivere la fattispecie, dunque, quanto meno in termini astratti, è quello della responsabilità precontrattuale, collocandosi il comportamento che ha causato l’evento dannoso nella fase antecedente la stipula del contratto pubblico, nella quale il Comune, prima ancora che la Società, aveva fatto affidamento per garantire l’attivazione del servizio di mensa nella tempistica preventivata in connessione con la tipologia del luogo di effettuazione dello stesso (un Centro estivo).

L’aggiudicazione definitiva, infatti, pur integrando il momento di cesura tra una generica aspettativa di buon esito della gara, più o meno rafforzata dalla tipologia dei contatti intercorsi, e una specifica connotazione soggettiva quale “vincitore” della procedura ad evidenza pubblica, attiene ancora tuttavia al piano delle “trattative”, di cui costituisce il massimo punto espressivo, al di là del quale nasce il sinallagma contrattuale e gli obblighi tra le parti si connotano della vicendevolezza riconducibile allo stesso. Il suo annullamento, quindi, eliminando tale diaframma formale fra la fase delle trattative e la fase della stipula del contratto e della susseguente esecuzione della prestazione, fa sostanzialmente retroagire i rapporti tra le parti alla prima di esse, ivi collocando la necessaria valutazione del comportamento del privato. Esso, cioè, rileva quale epifenomeno della condotta causativa del vizio, per cui pur essendo la relativa scelta da attribuire materialmente al -OMISSIS-, ne dovrebbe rispondere la Società aggiudicataria. L’analisi, cioè, si sposta dal segmento terminale costituito dall’aggiudicazione al precedente mosaico comportamentale, onde valutarne la astratta contrarietà ai ricordati canoni di correttezza e buona fede, nonché la idoneità a “tradire” la fiducia del -OMISSIS- nel buon esito delle trattative svoltesi fino a quel punto.

16. Come ben evidenziato nei più recenti arresti della giurisprudenza in materia (v. Cons. Stato, A.P., 4 maggio 2018, n. 5) il dovere di correttezza ha nel tempo conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942, che lo collocava nella visione economica corporativistica dell’epoca e in tale ridotta accezione imponeva di leggere anche la susseguente solidarietà. Esso, cioè, nella visione del privato non è più considerato strumentale solo alla conclusione di un contratto valido e socialmente utile, bensì alla «tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza» (cfr. A.P. n. 5/2018, cit. supra).

E’ evidente che la relativa dizione non può non subire aggiustamenti ove riguardata dall’angolazione dell’Amministrazione aggiudicatrice, che in quanto chiamata a muoversi (anche) all’interno di un quadro procedimentale rigorosamente predeterminato fin dalla fase della scelta del contraente, non gode certo della medesima “libertà di autodeterminazione”, se non nel senso della tutela dell’affidamento riposto nel buon esito delle procedure, scongiurando fattori di indebito procrastinamento della definizione delle stesse e conseguentemente dell’interesse pubblico sotteso all’attivazione della procedura concorsuale. Affinché, tuttavia, tale generica aspettativa di buon esito intrinseca all’esercizio di qualsivoglia funzione pubblica, venga attinta dal comportamento del privato è necessario che quest’ultimo abbia colpevolmente orientato le scelte (sbagliate) dell’Amministrazione.

17. Il risarcimento del danno non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito e il danno subito. Affinché nasca la responsabilità dell’amministrazione non è sufficiente, dunque, che il privato dimostri la propria buona fede soggettiva (ovvero che egli abbia maturato un affidamento incolpevole circa l’esistenza di un presupposto su cui ha fondato la scelta di compiere conseguenti attività economicamente onerose). Gli ulteriori presupposti necessari a fondare la responsabilità dell’Amministrazione sono stati da ultimo analiticamente enunciati dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (cfr. ancora A.P. n. 5 del 2018, cit. supra). E’ pertanto necessario:

a) che l’affidamento incolpevole risulti leso da una condotta che, valutata nel suo complesso, e a prescindere dall’indagine sulla legittimità dei singoli provvedimenti, risulti oggettivamente contraria ai doveri di correttezza e di lealtà;

b) che tale oggettiva violazione dei doveri di correttezza sia anche soggettivamente imputabile all’amministrazione, in termini di colpa o dolo;

c) che il privato provi sia il danno-evento (la lesione della libertà di autodeterminazione negoziale), sia il danno-conseguenza (le perdite economiche subite a causa delle scelte negoziali illecitamente condizionate), sia i relativi rapporti di causalità rispetto alla condotta scorretta che si imputa all’amministrazione. «Occorre, dunque, che dimostri che il comportamento scorretto dell’amministrazione ha rappresentato, secondo la logica civilistica del “più probabile che non”, la condicio sine qua non della scelta negoziale rivelatasi dannosa e, quindi, del pregiudizio economico di cui chiede il risarcimento. In altri termini, il privato deve fornire la prova che quelle scelte negoziali non sarebbero state compiute ove l’amministrazione si fosse comportata correttamente» (v. ancora Cons. Stato, A.P., n. 5 del 2018).

18. Se così è, dunque, mutatis mutandis, oltre a dover valutare l’effettiva inescusabilità del comportamento reticente tenuto dalla Società nel rendere le dichiarazioni propedeutiche alla partecipazione alla gara, occorre esaminarne anche il profilo di incidenza sulle scelte del -OMISSIS-. In termini di ordine logico, ciò implica lo scrutinio se la Società abbia commesso il fatto illecito che le viene addebitato, che nel caso di specie si risolve nello stabilire se la condotta tenuta dal procuratore speciale possa essergli anche colposamente ascritta in relazione al vizio che ha poi portato all’annullamento dell’aggiudicazione. Infatti, ove si dovesse escludere la sussistenza di un illecito, diventerebbe del tutto irrilevante verificare se sia stato cagionato un danno risarcibile. Tematica tutt’affatto risolvibile sul solo assunto semplificante che le dichiarazioni non veritiere nella contrattualistica pubblica rilevano ex se, a prescindere dal profilo psicologico ad esse sottese. Se ciò è vero, infatti, avuto riguardo alle conseguenze oggettive della verifica della reale consistenza dei fatti o circostanze non veridiche, non lo è egualmente sul piano delle connesse responsabilità. D’altro canto il legislatore, quand’anche si è preoccupato di porre limiti temporali all’esercizio dell’autotutela, ha codificato una deroga al canone di azione dei 18 mesi massimo laddove il privato abbia ottenuto fraudolentemente dall’Amministrazione i titoli oggetto di autotutela (v. art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241 del 1990, nella versione novellata dalla l. 7 agosto 2015, n. 124). Ma anche in siffatta ipotesi ha inteso ancorare la previsione all’accertamento del fatto reato di falso, con ciò peraltro risolvendo il delicato tema della pregiudizialità tra giudizi penali e giudizi amministrativi, armonizzando l’interesse alla stabilità dei titoli con quello, confliggente, alla repressione degli illeciti penali e alla rimozione degli effetti favorevoli indebitamente conseguiti attraverso gli stessi.

Tale richiamo, evidentemente non direttamente pertinente, appare tuttavia utile a chiarire l’equivoco di fondo su cui poggia la tesi dell’avvocatura civica, laddove identifica la nozione di declaratoria obiettivamente non veridica con quella di declaratoria falsa, intendendosi per tale non necessariamente, in questo ambito, quella coperta da giudicato penale, ma quanto meno riconducibile ad una condotta volutamente omertosa, nella consapevolezza dell’esistenza di una circostanza che al contrario avrebbe dovuto essere estrinsecata. Consapevolezza di cui non è prova nell’odierna controversia. Al contrario, rileva ancora il Collegio, l’annullamento dell’aggiudicazione non è conseguito a tale falsità, bensì alla ritenuta mancanza dei requisiti di partecipazione alla gara. Circostanza questa non addebitabile alla Società che, al contrario, era talmente convinta della bontà degli stessi da essersi opposta da ultimo perfino con giudizio in Cassazione all’annullamento dell’aggiudicazione conseguitone.

19. L’art. 12 del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157, recante “Attuazione della direttiva 92/50/CEE in materia di appalti pubblici di servizi”, come modificato dall’art. 10, comma 1, del d.lgs. 25 febbraio 200, n. 65, applicabile ratione temporis, prevedeva alla lett. b), quale requisito ostativo alla partecipazione alle gare, l’essere destinatari di una sentenza di condanna passata in giudicato, ovvero sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per qualsiasi reato capace di incidere sulla moralità professionale dell’interessato o per delitti finanziari; alla successiva lett. f), l’essersi «resi gravemente colpevoli di false dichiarazioni nel fornire informazioni […]». La valutazione demandata all’Amministrazione nell’ottica della corretta applicazione della norma non è relativa al grado di colpa del dichiarante, ma semmai alla rilevanza ed idoneità delle dichiarazioni rese ad alterare gli interessi al cui presidio sono poste le regole in tema di evidenza pubblica. Solo per i delitti finanziari tale pregiudizio era presunto, venendo gli stessi menzionati senza alcuna ulteriore specifica di accertamenti aggiuntivi. La falsità, invece, era connotata finanche dal requisito della gravità, a sottolinearne la non coincidenza con qualsivoglia mera omissione.

Il procuratore speciale della Società ha dichiarato di essere in possesso dei requisiti morali per partecipare alla gara, ovvero, riguardando alla medesima dichiarazione dalla prospettiva inversa, ha omesso di indicare di avere patteggiato una condanna per reato finanziario ascrittogli nella precedente qualità di Presidente di una cooperativa di pulizie. I dubbi interpretativi all’epoca esistenti, ed incontestati tra le parti, attenevano sia al ruolo dallo stesso rivestito all’interno della Società, sia al fatto che i reati egualmente erano stati commessi con riferimento ad analogo ruolo di rappresentanza di altro Ente, cui pertanto dovevano essere ascritti, sia alla portata del patteggiamento intervenuto in epoca antecedente l’introduzione della disposizione di legge che ne prevedeva comunque la rilevanza, sia, infine, all’avvenuta decriminalizzazione medio tempore della relativa fattispecie di reato. Non è chi non veda come fosse del tutto plausibile la circostanza che la condanna de qua non sia stata resa nota in quanto non ritenuta rilevante, tesi peraltro ribadita dalla Società per difendere la legittimità dell’aggiudicazione, assai prima che si profilasse l’odierna controversia risarcitoria.

20. Con riferimento alla -in verità assai diversa- formulazione testuale dell’attuale disciplina dei requisiti morali riveniente in particolare dalla lett. c) ed f bis) del comma 5 dell’art. 80 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, l’Adunanza plenaria ha egualmente avuto modo di chiarire la portata residuale della nozione di dichiarazioni false (nell’attuale disciplina, testualmente, proprio “non veritiere”), rispetto a quelle, egualmente tali ma in quanto non veridiche e dunque genericamente menzognere (Cons. Stato, A.P., 28 agosto 2020, n. 16). Nel primo caso sono oggi esclusi automatismi espulsivi, laddove nel secondo essi continuano ad operare. Intendendosi per tali, tuttavia, in via residuale, le sole ipotesi « - di non agevole verificazione - in cui le dichiarazioni rese o la documentazione presentata in sede di gara siano obiettivamente false, senza alcun margine di opinabilità, e non siano finalizzate all’adozione dei provvedimenti di competenza dell’amministrazione relativi all’ammissione, la valutazione delle offerte o l’aggiudicazione dei partecipanti alla gara o comunque relativa al corretto svolgimento di quest’ultima, secondo quanto previsto dalla lettera c)». La nuova disciplina, cioè, nel dare puntuale attuazione alle norme comunitarie pur discostandosi dai precedenti testi nazionali, egualmente si preoccupa di richiedere di connotare con un fattore di negatività in più certi tipi di falsità rispetto ad altri. Con ciò, ritiene la Sezione, individuando un giusto punto di equilibrio tra verifiche oggettive del possesso dei requisiti e aggravio delle stesse indotto dall’approccio mistificante della realtà da parte del privato.

21. Il primo giudice ha limitato la portata del giudicato riveniente dalla sentenza del Consiglio di Stato del 2003, di conferma della legittimità dell’annullamento dell’aggiudicazione alla sola riscontrata assenza dei requisiti morali nella Società, in quanto mancanti nel suo procuratore speciale. Nessun riferimento, invece, è ivi contenuto alla valenza della falsità della dichiarazione di possesso dei medesimi requisiti. Non è pertanto possibile inferirne la rilevanza in maniera implicita, siccome pretenderebbe parte appellante. Un conto è, infatti, declinare una lettura della normativa vigente indicando i soggetti che devono possedere i requisiti e la tipologia di reati che ne escludono la sussistenza, altro stigmatizzare come “falsa” la diversa lettura datane dalla Società. In sintesi, l’annullamento della aggiudicazione è stato correttamente effettuato in quanto il procuratore speciale era « persona dotata, proprio in relazione al settore dell’attività aziendale corrispondente all’oggetto dell’appalto, di tutti i poteri necessari per partecipare alle gare pubbliche e per stipulare i relativi contratti in nome e per conto della società rappresentata, vale a dire per instaurare con l’Amministrazione appaltante esattamente quei rapporti - partecipazione alla gara, stipulazione ed esecuzione del contratto - che la norma in esame, come s’è detto, intende in particolare evitare» e come tale avrebbe dovuto possedere i previsti requisiti morali, la cui portata è stata egualmente precisata dal giudice. Non in quanto lo stesso si era reso “gravemente colpevole di false dichiarazioni”, siccome richiesto dalla normativa dell’epoca.

22. Che il quadro non fosse così chiaro è d’altro canto prova per tabulas nella formulazione letterale dello stesso provvedimento di annullamento dell’aggiudicazione n. 28 dell’8 giugno 2001. Dopo aver richiamato, infatti, le verifiche effettuate presso il Casellario giudiziale della Procura di Mantova, che avevano fatto emergere la condanna (ex art. 444 c.p.p.) del procuratore speciale della Società per violazione delle norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, dava atto che “la delicata problematica” aveva reso necessario ricorrere ad apposita consulenza legale, solo acquisita la quale ci si era risolti nel senso della sussistenza della causa di esclusione di cu all’art. 12, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 157 del 1995, senza fare alcun riferimento alla lett. f) della medesima disposizione. A sua volta il parere del legale dell’8 maggio 2001, pur concludendo nel senso della necessità del possesso dei requisiti morali anche in capo al procuratore speciale e anche con riferimento a condanne riferibili al precedente rapporto dello stesso con altro organismo societario, in riferimento al fatto che la pena era stata patteggiata nel richiamare la dizione testuale dell’art. 12, concludeva affermando «che la norma in esame non collima, in parte qua, con i principi affermati anche dal codice di procedura penale in ordine alle cd. sentenze di patteggiamento ».

Va infine ricordato, quale ulteriore fattore di confusione, come al momento della dichiarazione effettuata nella gara in oggetto, i reati finanziari imputati al procuratore della Società non erano più tali, in quanto depenalizzati dal d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74. Vero è che a norma dell’art. 673 c.p.p., in caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna, dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato ed adotta i provvedimenti conseguenti. L’estinzione della condanna, dunque, non consegue automaticamente alla rimozione del reato dall’ordinamento, occorrendo, al fine, tale specifico provvedimento del giudice che verifichi, attraverso l’interpretazione del giudicato, la corrispondenza tra fattispecie concreta esaminata e fattispecie legale cancellata dall’ordinamento, in mancanza del quale, ma solo con riferimento al requisito di ammissione, neanche in sede di gare pubbliche la condanna può ritenersi estinta, in ossequio al principio della parità di condizioni tra i concorrenti e per esigenze di certezza del diritto, al più tardi nel momento della presentazione delle offerte (cfr., Cons. Stato, Sez. IV, 19 gennaio 1999, n. 39; Sez. V, 26 maggio 1997, n. 567). Ma anche a tale riguardo, se da un lato la mancanza al momento dato del provvedimento di revoca, peraltro disposta dal Tribunale di Mantova da lì a poco, rendeva comunque ostativa la sentenza di condanna, dall’altro l’intervenuta abrogazione dell’ipotesi di reato de qua , unitamente alle altre circostanze sopra ricordate, ben poteva corroborare la convinzione di non dovere dichiarare alcunché, essendo il patteggiamento di un delitto non più esistente nell’ordinamento giuridico privo di obiettiva rilevanza allo scopo.

23. Resta infine da dire della portata dell’art. 39 del capitolato di gara che, contemplando espressamente l’ipotesi di dichiarazioni non veritiere, ne codificherebbe la rilevanza ex se, a prescindere da ulteriori verifiche sugli elementi costitutivi dell’illecito civile. Il Collegio osserva preliminarmente come la norma si collochi nell’alveo delle tutele che l’ordinamento si è da sempre preoccupato di approntare per cauterizzare i possibili comportamenti scorretti successivi all’aggiudicazione, tali da procrastinare indebitamente la stipula del contratto e, quindi, la esecuzione della prestazione. Non a caso, infatti, la relativa rubrica fa riferimento a tale specifica fase, preoccupandosi, nei commi precedenti a quello in contestazione, di declinare in positivo gli adempimenti dell’impresa aggiudicataria in vista della stipulazione del contratto.

Essa, dunque, pare replicare il modello già previsto nel sistema della legge sulla contabilità di Stato (regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440, e successive modificazioni), che proprio a tale scopo contemplava il versamento di una cauzione provvisoria per la partecipazione alla gara, cui si riconosceva natura di garanzia, non di caparra penitenziale (la quale presuppone che le parti si siano riservate il diritto di recesso dal contratto): nel caso di mancata stipula del contratto da parte dell’aggiudicatario, l’Amministrazione poteva incamerare la cauzione provvisoria, salva la sua possibilità di ottenere il risarcimento del maggior danno effettivo (per tutte, Cass., 5 aprile 1976, n. 1220; Cass., Sez. Un., 16 maggio 1977, n. 1962).

Con la legge n. 348 del 1982 (poi trasfusa nella legge n. 109 del 94) si consentì ai partecipanti alle gare di non depositare somme a titolo di cauzione, ma di produrre “polizze fideiussorie”. Infine, l’art. 75 del codice n. 163 del 2006 e l’art. 93 del codice n. 50 del 2016 hanno disposto la presentazione di “garanzie a prima richiesta” (commisurate in percentuale fissa al prezzo di gara e aventi anch’esse una funzione di garanzia), che attribuiscono alla stazione appaltante una “tutela rafforzata”, cioè il potere di disporre l’escussione dell’importo previsto, per il caso in cui l’aggiudicatario non intenda stipulare il contratto. In pratica, al fine di consentire alla stazione appaltante la più rapida soddisfazione nel caso di mancata stipula del contratto, si è a seconda dei casi previsto o l’incameramento della cauzione, nel sistema della legge di contabilità di Stato, o la richiesta di pagamento “a prima richiesta” al garante, nel sistema a base dei codici del 2006 e del 2016.

Pertanto, già nel vigore della legge sulla contabilità di Stato si è consolidato nella giurisprudenza un principio generale, per il quale quando l’aggiudicatario di una gara pubblica senza giustificazione non stipula il contratto non rilevano le discussioni concernenti la natura della sua responsabilità: il danno risarcibile è quello conseguente alle spese di indizione di una nuova gara (se non vi sono stati altri partecipanti), ovvero quello conseguente ai maggiori esborsi di denaro, conseguenti alla aggiudicazione disposta in base allo “scorrimento” (Cons. Stato, sez. III, 31 agosto 2016, n. 3755).

Tali rimedi preventivi si fondano sul principio indiscusso -basato anche sul buon senso - della risarcibilità del danno prodotto dal partecipante che rifiuti senza motivo di stipulare il contratto, con ciò solo violando inconfutabilmente i principi di buona fede e di correttezza (v. anche Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2009, n. 2634; Cons. Stato, Sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6302; citate dall’appellante principale).

L’art. 39 del capitolato “allarga” le maglie di tali previsioni generali, tentando di codificare tutti i possibili comportamenti ostativi alla stipulazione, in assenza della quale la sottesa aggiudicazione deve essere necessariamente caducata, includendovi anche la “non veridicità delle dichiarazioni rilasciate”. L’annullamento dell’aggiudicazione, cioè, nel meccanismo ivi delineato, si configura più propriamente come una revoca, resa necessaria dall’esigenza di azzerare anche formalmente il procedimento destinato a non trovare uno sbocco fisiologico nel contratto a causa del comportamento del contraente privato, con ciò giustificando sostanzialmente il recesso unilaterale del Comune dalle trattative.

Nel caso di specie, invece, l’accertamento della sussistenza delle cause ostative alla partecipazione alla gara ha determinato ridetto annullamento e a cagione di ciò non si è addivenuti alla stipula del contratto. Si è pertanto al di fuori del perimetro operativo della disposizione. Ma quand’anche si volesse aderire alla tesi della difesa civica che pretenderebbe di dare rilievo oggettivo alla circostanza della non veridicità delle dichiarazioni rese ex se, una corretta lettura della clausola che tenga conto del senso fatto proprio dalle parole utilizzate, porta a distinguere tra incameramento della cauzione, reso possibile dalla scelta dell’Amministrazione indotta dal comportamento di controparte in maniera pressoché automatica e causa risarcitoria, anche eccedente l’importo della stessa. Mentre, infatti, avuto riguardo al primo, la formulazione della frase è in senso assertivo, il risarcimento dei danni costituisce una mera evenienza («danni che “potranno” derivare all’Amministrazione»), con ciò non potendo che rendersi necessario accertare i presupposti dell’illecito civile che ne fondino la eventuale richiesta. Sussistendone i presupposti, la relativa quantificazione è predeterminata contrattualmente, con ciò esonerando l’Amministrazione da prove aggiuntive in merito. Al contrario, la insussistenza degli stessi, per come ampiamente chiarita nei paragrafi precedenti, rende superfluo scrutinare più approfonditamente la corrispondenza del calcolo effettuato al criterio indicato nella norma, stante che la durata del servizio risulta anticipata rispetto a quella dell’aggiudicazione al secondo offerente e posticipata di otto mesi, rispetto alla scadenza originariamente prevista.

24. Per le ragioni che precedono la Sezione ritiene di dover respingere l’appello.

La peculiarità della vicenda giustifica la compensazione delle spese del grado di giudizio.

PQM

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il procuratore della Società appellata.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 novembre 2020 tenutasi con modalità da remoto con l’intervento dei magistrati:
Carlo Deodato, Presidente
Paolo Giovanni Nicolo' Lotti, Consigliere
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Italo Volpe, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Antonella Manzione Carlo Deodato


 

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