REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA

sul ricorso numero di registro generale 3633 del 2020, proposto dal


Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, ex lege rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso gli Uffici di quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi, n. 12


contro

sig. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo Ambrogi e Amelia Vetrone, con domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Giovanni Romano, in Roma, via Valadier, n. 43
per la riforma,

previa sospensione dell’esecutività,

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – Sezione Seconda n.-OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stato accolto il ricorso R.G. n. -OMISSIS-proposto dallo straniero avverso il provvedimento della Prefettura di Firenze prot. n. -OMISSIS-, recante revoca delle misure di accoglienza disposte nei suoi confronti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Vista l’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza del T.A.R. Toscana, Sez. II, n.-OMISSIS-, presentata in via incidentale dal Ministero appellante;

Vista l’ordinanza di questa Sezione n. -OMISSIS-, con cui l’istanza cautelare del Ministero è stata accolta ai soli fini della sollecita fissazione del merito dell’appello;

Vista la memoria di costituzione e difensiva del sig. -OMISSIS-;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137;

Visto, altresì, l’art. 4 del d.l. 30 aprile 2020, n. 28, conv. con l. 25 giugno 2020, n. 70;

Relatore nell’udienza del 12 novembre 2020 il Cons. Pietro De Berardinis, in collegamento da remoto in videoconferenza;

Motivazione

A. PREMESSE IN FATTO

1. Il sig. -OMISSIS-, nato in -OMISSIS-, richiedente la protezione internazionale ed ospite presso il centro di accoglienza temporanea sito in -OMISSIS-, è destinatario delle misure di accoglienza previste dal d.lgs. n. 142/2015 riservate ai richiedenti asilo privi di mezzi sufficienti a garantire il proprio sostentamento.

2. Con relazione del 28 giugno 2019 la Polizia Municipale di -OMISSIS- segnalava alla Prefettura di Firenze la condotta violenta e minacciosa tenuta dal citato straniero in occasione di un episodio verificatosi presso la stazione ferroviaria di -OMISSIS-. In tale occasione il sig. -OMISSIS- aveva supportato altro cittadino extracomunitario che, alla richiesta di mostrare il titolo di viaggio da parte di un dipendente di Trenitalia, aveva reagito aggredendo verbalmente e fisicamente il medesimo, nonché i colleghi e due agenti della Polizia Municipale di Firenze non in servizio, accorsi in suo aiuto: in particolare, al sig. -OMISSIS- viene attribuita dalla relazione la condotta consistita nell’essersi fatto avanti ed aver riacceso l’alterco. Per effetto dell’aggressione subita, i due agenti della Polizia Municipale di Firenze ed il dipendente di Trenitalia riportavano lesioni tali da dover ricorrere alle cure del locale Pronto Soccorso. Per questi fatti, i due cittadini extracomunitari erano oggetto di denuncia-querela da parte degli agenti in questione e di comunicazione di notizia di reato inoltrata dalla Polizia Municipale di -OMISSIS- per i delitti di cui agli artt. 336, 337 e 582 c.p..

3. A seguito della segnalazione, la Prefettura di Firenze avviava nei confronti del sig. -OMISSIS- il procedimento di revoca delle misure di accoglienza per violazione grave delle regole dell’accoglienza e non avendo lo straniero fatto pervenire, nel termine assegnatogli, osservazioni o documenti utili, lo concludeva con l’adozione del decreto prot. n. -OMISSIS-, che disponeva la revoca delle misure di accoglienza disposte in favore del cittadino della -OMISSIS-.

4. Il provvedimento indicava in motivazione la gravità del comportamento tenuto dal sig. -OMISSIS-, il quale si poneva in evidente contrasto con le regole del vivere civile. Sul piano normativo, venivano richiamati gli artt. 14, comma 3, e 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015.

5. Avverso il citato provvedimento di revoca insorgeva lo straniero, impugnandolo dinanzi al T.A.R. per la Toscana con ricorso R.G. n. -OMISSIS-e formulando a supporto del gravame le doglianze di violazione di legge ed eccesso di potere.

6. L’adito Tribunale, con sentenza emessa ai sensi dell’art. 60 del d.lgs. n. -OMISSIS-(c.p.a.) ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato il provvedimento impugnato.

7. In particolare, i giudici di prime cure hanno richiamato la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE – Grande Sezione del 12 novembre 2019, resa in causa C-233/18, la quale ha stabilito che: “L’articolo 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, letto alla luce dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro non può prevedere, tra le sanzioni che possono essere inflitte ad un richiedente in caso di gravi violazione delle regole dei centri di accoglienza nonché di comportamenti gravemente violenti, una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza, ai sensi dell’articolo 2, lettere f) e g), della menzionata direttiva, relative all’alloggio, al vitto o al vestiario, dato che avrebbe l’effetto di privare il richiedente della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari”. La Corte ha poi aggiunto che “L’imposizione di altre sanzioni ai sensi del citato art. 20, paragrafo 4, deve, in qualsiasi circostanza, rispettare le condizioni di cui al paragrafo 5 di tale articolo, in particolare quelle relative al rispetto del principio di proporzionalità e della dignità umana” e che nel caso – rinvenibile nella vicenda da essa esaminata, ma non in quella oggetto della presente controversia – di minore non accompagnato, “dette sanzioni devono, in considerazione, segnatamente, dell’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali, essere adottare tenendo conto con particolare riguardo dell’interesse superiore del minore”.

8. Su tali basi e sulla scorta di un proprio precedente reso in fattispecie analoga il T.A.R. Toscana ha ritenuto che dalla riferita sentenza della Corte di Giustizia emergesse la contrarietà rispetto al diritto dell’Unione Europea della revoca delle misure di accoglienza disposta nelle ipotesi previste dall’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015 (violazione grave o ripetuta delle regole della struttura in cui il richiedente asilo è stato accolto, ovvero comportamenti gravemente violenti), con l’effetto che il Giudice nazionale era chiamato a disapplicare la suddetta norma interna incompatibile, per avere questa previsto la sanzione della revoca della misura di accoglienza quale unica sanzione applicabile ai presupposti fattuali sopra elencati. Il Tribunale ha, quindi, accolto il ricorso previa disapplicazione dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015.

9. Avverso l’ora vista sentenza ha proposto appello il Ministero dell’Interno, chiedendone la riforma, previa sospensione cautelare e deducendo, con un unico motivo di appello, le censure di: errores in judicando: violazione ed erronea applicazione dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015 e degli artt. 20, paragrafi 4 e 5, e 21 della direttiva 2013/33/UE, nonché del principio di diritto espresso dalla Corte di Giustizia UE con sentenza del 12 novembre 2019, causa C-233/18, ed ancora difetto di motivazione ex art. 3 del d.lgs. n. 104/2010.

10. Il Ministero appellante mette in luce, in primo luogo, le possibili letture alternative emergenti dal tenore della sentenza della Corte di Giustizia: questa, da un lato, al punto 52, evidenzia la possibilità di ricorrere a sanzioni alternative e siffatto elemento non escluderebbe del tutto l’applicabilità della revoca delle condizioni di accoglienza; dall’altro lato, però, sembra enunciare il principio di diritto in termini generali, per cui non sarebbe possibile allo Stato membro applicare la sanzione della revoca, pure in caso di gravi violazioni, da parte del richiedente, delle regole del centro di accoglienza, o di comportamenti gravemente violenti da parte sua. L’appellante nondimeno lamenta che l’applicazione generalizzata del suesposto principio di diritto porterebbe a risultati assurdi, poiché comporterebbe l’impossibilità di sanzionare con la revoca il richiedente la protezione:

a) senza distinguere tra soggetti vulnerabili (quali i minori non accompagnati) e soggetti che non sono tali (come nel caso di specie il sig. -OMISSIS-);

b) indipendentemente dalla gravità del comportamento tenuto dal soggetto.

11. In secondo luogo il Ministero si sforza di dimostrare la diversità della vicenda portata all’esame della Corte di Giustizia UE rispetto a quella oggetto del provvedimento di revoca annullato dal T.A.R. Toscana. Infatti, il caso da cui è generato il rinvio pregiudiziale alla Corte (effettuato dall’Autorità Giudiziaria del Belgio) riguardava la revoca delle misure di accoglienza nei confronti di un minore non accompagnato, che si era reso protagonista di una rissa all’interno del centro di accoglienza dove era temporaneamente ospitato. L’odierno appellato, invece, non solo era già maggiorenne all’epoca della commissione dei fatti, ma non rientrava nemmeno nell’elenco delle persone vulnerabili (anche diverse dai minori) di cui all’art. 21 della direttiva comunitaria, come riprodotto dall’art. 17 del d.lgs. n. 142/2015. Ancora, il caso oggetto della pronuncia della Corte riguarda la violazione di una regola del centro di accoglienza, mentre quella ascritta al sig. -OMISSIS- è una condotta illecita palesemente contraria alle norme penali del nostro ordinamento e che integra una pluralità di fattispecie criminose: non solo quella di lesioni, ma altresì quelle di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale. Si tratta di condotta (tenuta al di fuori del centro di accoglienza), che secondo la giurisprudenza interna ben può rientrare tra i “comportamenti gravemente violenti” a cui fa espresso riferimento l’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, prevedendo per essi la sanzione della revoca delle misure di accoglienza, disposta dal Prefetto con provvedimento motivato.

12. Né rileva in contrario, secondo l’appellante, che la vicenda in cui è stato coinvolto lo straniero si sia svolta – come detto – fuori del centro di accoglienza, dal momento che il beneficiario delle misure di accoglienza deve serbare un comportamento irreprensibile tanto all’interno della struttura in cui è accolto, quanto all’esterno di essa: la sanzione della revoca si correla alla gravità del comportamento tenuto, quale che sia il luogo in cui questo si è verificato, e tende ad evitare l’insorgere e la diffusione di condotte criminali, mirando a preservare il buon funzionamento dei centri di accoglienza, anche in ragione del fatto che tali centri debbono garantire un percorso di integrazione fondato sulla legalità e sul rispetto delle regole dell’ordinato vivere sociale.

13. Nel caso di specie la sanzione della revoca – aggiunge l’appellante – appare conforme altresì al principio di proporzionalità (richiamato dalla sentenza della Corte di Giustizia quale criterio-guida per la previsione delle sanzioni) proprio in conseguenza del comportamento particolarmente violento ed aggressivo tenuto dall’odierno appellato. L’Amministrazione non avrebbe potuto irrogare misure sanzionatorie diverse, e in specie non avrebbe potuto disporre il trasferimento dello straniero in altro centro di accoglienza, trattandosi di sanzione prevista dal regolamento prefettizio solo per violazioni non gravi: con il ché – conclude il ministero – la revoca si è rivelata sanzione non solo proporzionata, ma anche necessaria alla fattispecie esaminata.

14. Si è costituito nel giudizio l’appellato sig. -OMISSIS-, sollevando in via preliminare questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015 per contrasto con l’art. 27 Cost.: questione da lui già sollevata in primo grado, ma assorbita dal T.A.R. alla luce del ritenuto contrasto della predetta norma interna con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE. In estrema sintesi, l’appellato censura la norma interna ove interpretata – come ha fatto il provvedimento impugnato – nel senso che la revoca delle misure di accoglienza possa essere disposta per vicende penalmente rilevanti a seguito di una mera denuncia e senza che su tali vicende sia intervenuto alcun accertamento giudiziale; nel caso di specie, infatti, alla denuncia non è seguito alcun provvedimento di qualsiasi natura, né cautelare, né istruttorio, di tal ché la pretesa della P.A. di revocare le misure di accoglienza in difetto del riconoscimento di una responsabilità penale, per fatti non accertati e la cui attribuzione rimane incerta, contrasterebbe con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost. (ribadito dall’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

15. L’appellato, oltre a richiamare le censure di merito del giudizio di primo grado, ha replicato alle doglianze di parte appellante, eccependo che l’apparato sanzionatorio per le violazioni commesse dai soggetti ammessi alle misure di protezione deve essere improntato a proporzionalità sia rispetto alle violazioni stesse, sia rispetto alla dignità umana. La normativa interna di recepimento della direttiva europea (art. 23 del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142), invece, ha indicato come unica sanzione, rispetto ai comportamenti gravemente violenti, la revoca delle misure di accoglienza, senza la possibilità di graduare la sanzione in funzione della gravità della condotta. Ciò, sebbene l’art. 20 della direttiva: a) preveda a favore dei singoli Stati la mera possibilità di aggiungere una sanzione per i comportamenti gravemente violenti; b) parli non di revoca, ma di “sanzioni applicabili”.

16. Dopo che in sede cautelare l’appello del Ministero è stato accolto unicamente ai fini della sollecita fissazione del merito e dopo che l’appellato ha depositato una memoria per trattazione cartolare, in cui ha insistito per la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza di primo grado, all’udienza del 12 novembre 2020 la causa è stata trattenuta in decisione.

17. All’esito, questo Giudice ritiene, per le ragioni che seguono, di sollevare questione pregiudiziale di compatibilità con le norme del diritto europeo delle norme nazionali fin qui descritte, e di seguito meglio precisate, nei termini di cui subito.

18. In particolare la questione di compatibilità della disciplina nazionale (art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015) con quella comunitaria viene qui rilevata sulla scorta di quanto affermato dalla sentenza di prime cure e delle osservazioni esposte nel presente giudizio d’appello dalle parti, le quali hanno compiutamente dibattuto su detta questione (il che rende superfluo stimolare ancora su di essa il contraddittorio processuale con lo strumento previsto dall’art. 73, comma 3, c.p.a.). Nel contempo, l’appellante ha prospettato questione di legittimità costituzionale della medesima norma interna con riferimento a parametri costituzionali interni e, specificamente, a quelli di cui all’art. 27 Cost.. Viene qui in rilievo, perciò, il problema della cd. doppia pregiudizialità, ovvero della situazione in cui si presentino contemporaneamente in uno stesso procedimento questioni di legittimità costituzionale e di conformità con il diritto dell’Unione delle medesime norme: e il Collegio ritiene di risolvere detto problema dando preferenza al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sulla base dell’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in taluni recenti pronunce (le sentenze n. 20 del 21 febbraio 2019 e n. 63 del 21 marzo 2019 e l’ordinanza n. 117 del 6 maggio 2019) ha avuto modo di precisare che nei casi della cd. doppia pregiudizialità spetta al Giudice a quo di decidere se sollevare per prima la questione costituzionale o quella comunitaria, avendo detto Giudice la facoltà e non l’obbligo di far precedere la questione costituzionale a quella pregiudiziale.

19. Nel caso di specie, questo Giudice ritiene appunto di dare priorità alla questione di compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione per ragioni di economia processuale. Infatti la questione di legittimità costituzionale riposa, come già visto, sul presupposto della mancanza, allo stato, di una sentenza di condanna nei confronti dell’appellato per i fatti contestatigli, cosicché tale presupposto potrebbe, in ipotesi astratta, venire meno in prosieguo di tempo, qualora lo straniero fosse condannato per l’episodio sopra riferito: il che, sempre in ipotesi, potrebbe indurre la Pubblica Amministrazione ad adottare un provvedimento di conferma di quello qui impugnato, basato sulla sentenza di condanna e per il quale, perciò, verrebbe meno la prospettata questione di costituzionalità. In una tale evenienza resterebbe, invece, immutata la rilevanza ai fini della decisione della questione della compatibilità comunitaria dell’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015 e ciò rende opportuno, ad avviso del Collegio, privilegiare, nel caso ora in esame, il rinvio pregiudiziale di detta questione alla Corte di Giustizia.

20. Né in contrario potrebbe argomentarsi che nella fattispecie in esame non vi sia alcuna necessità, né tantomeno l’obbligo del Giudice nazionale di effettuare il rinvio pregiudiziale, essendosi la Corte di Giustizia già pronunciata in relazione ad analoga fattispecie, su questione materialmente identica, con la ricordata sentenza 12 novembre 2019, resa in causa C-233/18 e potendo, pertanto, il predetto Giudice basarsi sul precedente, astenendosi dal rinvio pregiudiziale. In disparte quanto si dirà oltre in merito alla diversità tra la fattispecie esaminata dai Giudici europei e quella oggetto della presente controversia, va evidenziato che, secondo la migliore dottrina, anche ove vi sia già stata una pronuncia della Corte di Giustizia su questione identica, resta ferma la facoltà del Giudice di riproporre alla stessa Corte la questione, nell’ipotesi in cui ritenga di poter addurre nuove argomentazioni, o se non sia convinto delle motivazioni della sentenza della Corte e ne chieda un approfondimento, o ancora nel caso in cui faccia conto su un mutamento di tale giurisprudenza.

B. NORMATIVA DELL’UNIONE EUROPEA

1. Ciò posto, si riporta la normativa europea rilevante ad avviso di questo Giudice, individuata nella direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 (in prosieguo anche solo “Direttiva”), recante norme relative all’accoglienza negli Stati membri dei richiedenti protezione internazionale (che ha sostituito la precedente direttiva 2003/9/CE).

2. I “considerando” 25 e 35 della direttiva 2013/33 così recitano:

“(25) La possibilità di abuso del sistema di accoglienza dovrebbe essere contrastata specificando le circostanze in cui le condizioni materiali di accoglienza dei richiedenti possono essere ridotte o revocate, pur garantendo nel contempo un livello di vita dignitoso a tutti i richiedenti.

(.....)

(35) La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In particolare, la presente direttiva intende assicurare il pieno rispetto della dignità umana nonché promuovere l’applicazione degli articoli 1, 4, 6, 7, 18, 21, 24 e 47 della Carta (dei diritti fondamentali) e deve essere attuata di conseguenza”.

3. L’art. 2 della Direttiva, intitolato “Definizioni”, dispone quanto segue:

“Ai fini della presente direttiva si intende per:

(....)

f) “condizioni di accoglienza”: il complesso delle misure garantite dagli Stati membri a favore dei richiedenti ai sensi della presente direttiva;

g) “condizioni materiali di accoglienza”: le condizioni di accoglienza che includono alloggio, vitto e vestiario, forniti in natura o in forma di sussidi economici o buoni, o una combinazione delle tre possibilità, nonché un sussidio per le spese giornaliere;

(….)

i) “centro di accoglienza”: qualsiasi struttura destinata all’alloggiamento collettivo di richiedenti;

(....)”.

4. L’art. 17 della direttiva 2013/33, intitolato “Disposizioni generali relative alle condizioni materiali di accoglienza e all’assistenza sanitaria”, è così formulato ai paragrafi da 1 a 4:

“1. Gli Stati membri provvedono a che i richiedenti abbiano accesso alle condizioni materiali d’accoglienza nel momento in cui manifestano la volontà di chiedere la protezione internazionale.

2. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale.

Gli Stati membri provvedono a che la qualità di vita sia adeguata alla specifica situazione delle persone vulnerabili, ai sensi dell’articolo 21, nonché alla situazione delle persone che si trovano in stato di trattenimento.

3. Gli Stati membri possono subordinare la concessione di tutte le condizioni materiali d’accoglienza e dell’assistenza sanitaria, o di parte delle stesse, alla condizione che i richiedenti non dispongano di mezzi sufficienti a garantire loro una qualità della vita adeguata per la loro salute, nonché ad assicurare il loro sostentamento.

4. Gli Stati membri possono obbligare i richiedenti a sostenere o a contribuire a sostenere i costi delle condizioni materiali di accoglienza e dell’assistenza sanitaria previsti nella presente direttiva, ai sensi del paragrafo 3, qualora i richiedenti dispongano di sufficienti risorse, ad esempio qualora siano stati occupati per un ragionevole lasso di tempo.

Qualora emerga che un richiedente disponeva di mezzi sufficienti ad assicurarsi le condizioni materiali di accoglienza e l’assistenza sanitaria all’epoca in cui tali esigenze essenziali sono state soddisfatte, gli Stati membri possono chiedere al richiedente un rimborso”.

5. L’art. 20 della Direttiva, unica disposizione del capo III della stessa, intitolato “Riduzione o revoca delle condizioni materiali di accoglienza”, così recita:

“1. Gli Stati membri possono ridurre o, in casi eccezionali debitamente motivati, revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora il richiedente:

a) lasci il luogo di residenza determinato dall’autorità competente senza informare tali autorità, oppure, ove richiesto, senza permesso; o

b) contravvenga all’obbligo di presentarsi alle autorità o alla richiesta di fornire informazioni o di comparire per un colloquio personale concernente la procedura d’asilo durante un periodo di tempo ragionevole stabilito dal diritto nazionale; o

c) abbia presentato una domanda reiterata quale definita all’articolo 2, lettera q), della direttiva 2013/32/UE.

In relazione ai casi di cui alle lettere a) e b), se il richiedente viene rintracciato o si presenta volontariamente all’autorità competente, viene adottata una decisione debitamente motivata, basata sulle ragioni della scomparsa, nel ripristino della concessione di tutte le condizioni materiali di accoglienza revocate o ridotte o di una parte di esse.

2. Gli Stati membri possono inoltre ridurre le condizioni materiali di accoglienza quando possono accertare che il richiedente, senza un giustificato motivo, non ha presentato la domanda di protezione internazionale non appena ciò era ragionevolmente fattibile dopo il suo arrivo in tale Stato membro.

3. Gli Stati membri possono ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza qualora un richiedente abbia occultato risorse finanziarie, beneficiando in tal modo indebitamente delle condizioni materiali di accoglienza.

4. Gli Stati membri possono prevedere sanzioni applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza nonché ai comportamenti gravemente violenti.

5. Le decisioni di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza o le sanzioni di cui ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 del presente articolo, sono adottate in modo individuale, obiettivo e imparziale e sono motivate. Le decisioni sono basate sulla particolare situazione della persona interessata, specialmente per quanto concerne le persone contemplate all’articolo 21, tenendo conto del principio di proporzionalità. Gli Stati membri assicurano in qualsiasi circostanza l’accesso all’assistenza sanitaria ai sensi dell’articolo 19 e garantiscono un tenore di vita dignitoso per tutti i richiedenti.

6. Gli Stati membri provvedono a che le condizioni materiali di accoglienza non siano revocate o ridotte prima che sia adottata una decisione ai sensi del paragrafo 5”.

6. L'art. 21 della citata Direttiva, intitolato “Principio generale”, prevede che, nelle misure nazionali di attuazione della stessa, gli Stati membri tengono conto della specifica situazione delle persone vulnerabili, in particolare dei minori e dei minori non accompagnati. I successivi artt. 22, 23 e 24 si preoccupano, quindi, delle esigenze specifiche, rispettivamente, delle persone vulnerabili, dei minori e dei minori non accompagnati.

7. Ai fini che qui interessano occorre definire la portata della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 20, paragrafo 4, della direttiva n. 2013/33/UE. In proposito, la sentenza della Corte del 12 novembre 2019, resa in causa C-233/18, ha evidenziato che:

- le “sanzioni” di cui parla il paragrafo 4 del riferito art. 20 possono, in linea di principio, riguardare le condizioni materiali di accoglienza, sia perché tale possibilità non viene espressamente esclusa dal paragrafo in questione, sia perché la possibilità per gli Stati membri di adottare misure sanzionatorie (riduzione o revoca) che incidano sulle predette condizioni materiali è prevista dai paragrafi da 1 a 3 dell’art. 20 nei casi in cui vi è un rischio di abuso, da parte dei richiedenti, del sistema di accoglienza, cosicché gli Stati membri devono avere una possibilità del genere anche nei casi di grave violazione delle regole dei centri d’accoglienza o di comportamenti particolarmente violenti, trattandosi di casi in cui possono essere perturbati l’ordine pubblico e la sicurezza di persone o beni;

- tuttavia, in ossequio al paragrafo 5 dell’art. 20, qualsiasi sanzione deve essere obiettiva, imparziale, motivata e proporzionata alla particolare situazione del richiedente; inoltre, deve salvaguardare il suo accesso all’assistenza sanitaria e un tenore di vita dignitoso. Il rispetto della dignità umana postula che l’interessato non si trovi in una situazione di estrema privazione materiale tale da non consentirgli di far fronte ai suoi bisogni più elementari (nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio) e che, quindi, pregiudichi la sua salute fisica e psichica, o che lo ponga in uno stato di degrado incompatibile con tale dignità;

- orbene, l’imposizione, nei casi di cui all’art. 20, paragrafo 4, della sanzione della revoca, seppure temporanea, delle condizioni materiali di accoglienza, risulta incompatibile con l’obbligo di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso, perché lo priva della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari (vitto, alloggio, vestiario) e per la medesima ragione si dimostra altresì non conforme al principio di proporzionalità;

- né il problema si supera indicando all’interessato, al momento dell’applicazione della sanzione della revoca, un elenco di centri privati presso cui trovare accoglienza, ricadendo l’obbligo di garantire un tenore di vita dignitoso a carico degli Stati membri anche laddove si servano di privati per adempiere a detto obbligo;

- quindi, nelle ipotesi di cui all’art. 20, paragrafo 4, della Direttiva, l’imposizione di una sanzione consistente nel ridurre le condizioni materiali di accoglienza è subordinata alla condizione che detta sanzione sia, tenuto conto della situazione particolare del richiedente e delle circostanze del caso di specie, conforme ai principi di proporzionalità e dignità. Gli Stati membri possono comunque, in tali ipotesi, prevedere sanzioni che non incidano sulle condizioni materiali di accoglienza – come ad es. la collocazione del richiedente in una parte separata del centro d’accoglienza e un divieto di contatto con taluni residenti del centro, o il suo trasferimento in altro centro d’accoglienza o in altro alloggio, o ancora il suo trattenimento (che l’art. 8 della Direttiva consente quando lo impongano “motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico”) – ma anche queste sanzioni debbono garantire il rispetto dei principi di proporzionalità e di dignità umana;

- infine, quando il richiedente sia una “persona vulnerabile” e in specie un minore non accompagnato, gli Stati membri debbono, nell’adottare le sanzioni per le ipotesi di cui all’art. 20, paragrafo 4, tenere maggiormente conto, come impone il successivo paragrafo 5, della situazione particolare del minore e del principio di proporzionalità e, visto il richiamo del considerando 35 della Direttiva all’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali, le sanzioni devono essere adottate tenendo conto dell’interesse superiore del minore.

C. NORMATIVA NAZIONALE

1. La direttiva 2013/33/UE ha ricevuto attuazione in Italia attraverso il Capo I del d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, il quale ha dettato una disciplina assai articolata. Di tale disciplina, assumono rilievo in questa sede specificamente gli art. 14 e 23, in quanto richiamati dal decreto impugnato.

2. In particolare, l’art. 14, rubricato “Modalità di accesso al sistema di accoglienza”, ha previsto al comma 1 che “Il richiedente che ha formalizzato la domanda (id est: la domanda presentata ai sensi del d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, diretta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria) e che risulta privo di mezzi sufficienti a garantire una qualità di vita adeguata per il sostentamento proprio e dei propri familiari, ha accesso, con i familiari, alle misure di accoglienza del presente decreto”. Il successivo comma 3 (esplicitamente richiamato dal decreto prefettizio) ha stabilito che “Al fine di accedere alle misure di accoglienza di cui al presente decreto, il richiedente, al momento della presentazione della domanda, dichiara di essere privo di mezzi sufficienti di sussistenza. La valutazione dell’insufficienza dei mezzi di sussistenza di cui al comma 1 è effettuata dalla prefettura – Ufficio territoriale del Governo con riferimento all’importo annuo dell’assegno sociale”.

3. L’art. 23, dal canto suo, nel testo in vigore dal 5 ottobre 2018, dunque vigente all’epoca dei fatti, ha previsto quanto segue:

“1. Il prefetto della provincia in cui hanno sede le strutture di cui agli articoli 9 e 11 (id est: i centri di prima accoglienza), dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d’accoglienza in caso di:

a) mancata presentazione presso la struttura individuata ovvero abbandono del centro di accoglienza da parte del richiedente, senza preventiva motivata comunicazione alla prefettura – ufficio territoriale del Governo competente;

b) mancata presentazione del richiedente all’audizione davanti all'organo di esame della domanda;

c) presentazione di una domanda reiterata ai sensi dell’articolo 29 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, e successive modificazioni;

d) accertamento della disponibilità da parte del richiedente di mezzi economici sufficienti;

e) violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti (questa è la previsione normativa specificamente richiamata dal provvedimento prefettizio impugnato).

2. Nell’adozione del provvedimento di revoca si tiene conto della situazione del richiedente con particolare riferimento alle condizioni di cui all’articolo 17 (riguardante l’accoglienza delle persone portatrici di esigenze particolari).

3. Nell’ipotesi di cui al comma 1, lettera a), il gestore del centro è tenuto a comunicare, immediatamente, alla prefettura – ufficio territoriale del Governo la mancata presentazione o l’abbandono della struttura da parte del richiedente. Se il richiedente asilo è rintracciato o si presenta volontariamente alle Forze dell’ordine o al centro di assegnazione, il prefetto territorialmente competente dispone, con provvedimento motivato, sulla base degli elementi addotti dal richiedente, l’eventuale ripristino delle misure di accoglienza. Il ripristino è disposto soltanto se la mancata presentazione o l’abbandono sono stati causati da forza maggiore o caso fortuito o comunque da gravi motivi personali.

4. Nell’ipotesi di cui al comma 1, lettera e), il gestore del centro trasmette alla prefettura – ufficio territoriale del Governo una relazione sui fatti che possono dare luogo all’eventuale revoca, entro tre giorni dal loro verificarsi.

5. Il provvedimento di revoca delle misure di accoglienza ha effetto dal momento della sua comunicazione, ai sensi dell’articolo 5, comma 2. Il provvedimento è comunicato altresì al gestore del centro. Avverso il provvedimento di revoca è ammesso ricorso al Tribunale amministrativo regionale competente.

6. Nell’ipotesi di revoca, disposta ai sensi del comma 1, lettera d), il richiedente è tenuto a rimborsare i costi sostenuti per le misure di cui ha indebitamente usufruito.

7. Quando la sussistenza dei presupposti per la valutazione di pericolosità del richiedente ai sensi dell’articolo 6, comma 2 (id est: la norma sul trattenimento) emerge successivamente all’invio nelle strutture di cui agli articoli 9 e 11, il prefetto dispone la revoca delle misure di accoglienza ai sensi del presente articolo e ne dà comunicazione al questore per l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 6”.

4. È stato condivisibilmente affermato che, per come delineata dall’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, la revoca delle misure di accoglienza dell’extracomunitario (in specie, in presenza di “comportamenti gravemente violenti”), è misura che è fondata su una valutazione eminentemente discrezionale dei presupposti di fatto della revoca e che “postula una valutazione in concreto della singola fattispecie e della particolare situazione della persona interessata, anche sotto il profilo della proporzionalità del provvedimento rispetto alla gravità delle condotte accertate. Deve in particolare accertarsi con sufficiente certezza la specifica condotta imputabile allo straniero, la cui gravità va valutata in rapporto alle esigenze di ordinato funzionamento delle strutture d’accoglienza, dovendosi dare conto attraverso un’idonea motivazione degli elementi di fatto considerati e del percorso logico seguito per approdare alla determinazione assunta. L’obbligo istruttorio e motivazionale che grava sull’amministrazione è tanto più pregnante laddove si consideri che l’esercizio del potere di revoca di cui si tratta va a incidere su esigenze primarie di persone in stato di bisogno, deprivandole di quel minimo d’assistenza che costituisce il primo e fondamentale livello per un percorso d’integrazione nel territorio, altrimenti messo a rischio, con pregiudizio non solo circoscritto al soggetto colpito dal provvedimento, ma esteso all’intero contesto sociale in cui lo straniero, in seguito all’allontanamento dal centro d’accoglienza, è costretto a vivere nell’assenza di punti di riferimento” (cfr., ex plurimis, T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 16 marzo 2018, n. 100; T.R.G.A. Bolzano, Sez. I, 19 giugno 2017, n. 191).

5. La giurisprudenza si è diversamente orientata in merito alla questione della necessità o meno che la revoca delle misure di accoglienza sia preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento. Un primo indirizzo ritiene che di tale comunicazione possa farsi a meno quando, a fronte di episodi di violenza commessi dal richiedente la protezione, il provvedimento di revoca sia indifferibile. Altro orientamento invece, reputa illegittima la revoca non preceduta dalla comunicazione dell’avvio del procedimento volta a consentire allo straniero di interloquire sul piano procedimentale: ciò tenuto conto delle gravi conseguenze che la misura può determinare per il godimento dei diritti fondamentali dell’interessato e senza che si possa invocare, a giustificazione dell’omessa partecipazione, l’allarme sociale a fronte di una condotta penalmente rilevante, pur se di modestissimo disvalore, che di per sé non integra quelle ragioni di urgenza derogatorie rispetto alle normali garanzie partecipative (C.d.S., Sez. III, 18 settembre 2018, n. 5445).

6. Anche se la questione non è di immediata rilevanza ai fini della presente causa, in cui la Prefettura di Firenze ha puntualmente trasmesso allo straniero la comunicazione di avvio del procedimento, in modo da consentirgli di fornire il suo apporto partecipativo, essa, nondimeno, incide sulla decisione di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Come meglio si vedrà infra, infatti, le perplessità sulla scelta interpretativa del T.A.R. Toscana in tanto possono giustificarsi, in quanto nel caso di specie sia comunque garantito il rispetto di quelle condizioni procedimentali minime per la tutela della dignità del richiedente, tra le quali anzitutto la garanzia di un contraddittorio procedimentale in cui egli possa far valere le proprie ragioni. Senza una garanzia del genere, infatti, ed anzi omettendo del tutto la fase partecipativa, la revoca delle misure di accoglienza viene ad essere un provvedimento che incide sui bisogni fondamentali dell’interessato, senza che a costui siano neppure dati rimedi alternativi (ad es. la possibilità di accoglienza in centri privati): acquista, così, i connotati di un provvedimento lesivo della dignità della persona. (Altra cosa è poi, ovviamente, se lo straniero decida di sua volontà di non avvalersi dello strumento partecipativo). Per tutte queste ragioni, quindi, il Collegio ritiene di aderire al secondo dei suesposti orientamenti.

7. Ulteriore questione che ha dato vita a divergenze nella giurisprudenza è quella della sanzionabilità delle sole condotte commesse all’interno delle strutture di accoglienza, ovvero anche di quelle poste in essere al di fuori delle strutture (com’è nel caso ora in esame).

8. Secondo un primo indirizzo, la revoca delle misure di accoglienza è irrogabile esclusivamente per le condotte poste in essere all’interno del centro di accoglienza, come sarebbe dimostrato dal comma 4 dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, a tenor del quale “Nell’ipotesi di cui al comma 1, lettera e), il gestore del centro trasmette alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo una relazione sui fatti che possono dare luogo all’eventuale revoca, entro tre giorni dal loro verificarsi”. Si tratterebbe, in quest’ottica, di una norma che sanziona con la perdita dell’accoglienza ricettiva le gravi violazioni, i gravi danneggiamenti e le gravi violenze commessi all’interno della struttura di accoglienza, non al suo esterno, con il corollario dell’illegittimità della revoca disposta per un comportamento tenuto dal migrante al di fuori della struttura ospitante.

9. Altro indirizzo, tuttavia, reputa sanzionabili con la revoca anche le condotte tenute al di fuori della struttura di accoglienza, purché si tratti di condotte che risultino in qualche modo incompatibili con le esigenze della ordinata gestione del centro di accoglienza. Ciò perché la permanenza temporanea all’interno del centro di accoglienza è funzionale ad intraprendere un percorso verso l’autonomia e l’inserimento sociale e quindi le condotte da sanzionare sono quelle che, indipendentemente dal luogo nel quale vengono commesse, tradiscono tale scopo dell’accoglienza, rendendone vana la funzione solidaristica (la casistica va dall’attività di accattonaggio reiterata ed accompagnata da comportamenti violenti allo sfruttamento di connazionali avviate alla prostituzione, ecc.).

10. Il Collegio ritiene che la questione da ultimo esposta debba rientrare nel quesito da esso sottoposto alla Corte di Giustizia: si tratta, infatti, di questione che, pur non espressamente affrontata dal primo giudice, è rilevante ai fini del decidere, visto l’episodio in cui è rimasto coinvolto il sig. -OMISSIS-. Nel contempo il Collegio ritiene di dover sin da ora esprimere la propria adesione all’interpretazione che include nei “comportamenti gravemente violenti” quelli posti in essere all’esterno della struttura di accoglienza, sia per ragioni letterali, fondate sul testo dell’art. 20, parag. 4, della Direttiva (mentre molto più ambiguo è il testo dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015), sia per ragioni teleologiche, basate sul fatto che anche una condotta perpetrata al di fuori del centro può riverberarsi, per la sua risonanza, all’interno di questo e riflettersi sulle condotte degli altri ospiti, destabilizzandone la convivenza e, in tal modo, incidendo in negativo sul funzionamento e sulle finalità della struttura (v. più diffusamente infra, parag. E).

D. ILLUSTRAZIONE DEI MOTIVI DEL RINVIO PREGIUDIZIALE

1. Vi sono dubbi sulla compatibilità con il diritto dell’Unione dell’interpretazione ed applicazione che il primo giudice ha offerto della citata sentenza della Corte di Giustizia dell’UE – Grande Sezione del 12 novembre 2019, resa in causa C-233/18, che l’hanno indotto a disapplicare la norma interna (art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015) in quanto asseritamente incompatibile con il diritto eurounitario: dubbi che emergono dalla lettura dell’atto di appello e dalla disamina dei documenti di causa e che inducono al presente rinvio pregiudiziale.

2. In primo luogo, si ravvisa un possibile contrasto dell’orientamento espresso dal T.A.R. Toscana con il dato letterale della normativa eurounitaria e, in specie, con la lettera dell’art. 20, parag. 4, della direttiva n. 2013/33/UE, in base al quale, come si è già ricordato, gli Stati membri possono prevedere “sanzioni” applicabili alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché – e questo è il caso che qui viene in esame – ai “comportamenti gravemente violenti”. E non c’è alcun dubbio che la nozione di “sanzioni” di cui all’ora visto art. 20, parag. 4 ricomprenda, in linea di principio, anche la revoca e la riduzione delle condizioni materiali di accoglienza, come emerge, del resto, dalla stessa sentenza della Corte del 12 novembre 2019 richiamata dai giudici toscani.

3. In secondo luogo, si ravvisa la possibilità di abusi legati all’uso strumentale dei principi desumibili dalla sentenza di prime cure, la quale preclude la revoca delle misure d’accoglienza anche a fronte di condotte di particolare gravità e riprovevolezza. Va richiamato, sul punto, un altro recente arresto del T.A.R. Toscana (Sez. II, 12 giugno 2020, n, 721), nel quale si è ritenuto di disapplicare la norma di cui all’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento del ricorso e annullamento del provvedimento impugnato, nell’ipotesi di un cittadino straniero condannato in sede penale con sentenza irrevocabile per il reato di spaccio di sostanze stupefacenti (consistenti in 27,19 grammi di marijuana). L’applicazione a condotte di tal fatta, o a condotte che, come nel caso ora in esame, abbiano comportato l’uso della violenza fisica, di misure sanzionatorie che producano effetti meno radicali nei confronti del richiedente protezione internazionale (come la sua collocazione in una parte separata del centro di accoglienza, anche unitamente al divieto di contatto con taluni residenti del centro stesso, o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza o in un altro alloggio) non sembra rispondente al principio di effettività della reazione dell’ordinamento. Tali misure potrebbero rivelarsi inefficaci sotto il profilo tanto della prevenzione generale (funzione dissuasiva svolta dalla sanzione nei confronti degli altri soggetti), quanto della prevenzione speciale (funzione di dissuasione del reo dal reiterare il comportamento), essendo, anzi, suscettibili di ingenerare nel reo un sentimento di impunità, in ragione del regime più “leggero” rispetto alla ben più rigorosa disciplina in materia di permesso di soggiorno di cui al d.lgs. n. 286/1998.

4. Da questo punto di vista, si evidenzia come l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”) al terzo e al quarto periodo così recita:

“Non è ammesso in Italia lo straniero (….) che risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale, nonché dall’articolo 1 del decreto legislativo 22 gennaio 1948, n. 66, e dall’articolo 24 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773”.

5. La disposizione è intesa dalla costante giurisprudenza nazionale nel senso che la sussistenza di una condanna per uno dei reati di cui all’elenco dell’ora visto art. 4, comma 3, è automaticamente ostativa al rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, qualunque sia la pena detentiva del condannato, non assumendo rilevanza la concessione di attenuanti o la sospensione condizionale della pena, né la modalità di esecuzione di questa (cfr., per es., per gli stupefacenti: C.d.S., Sez. III, 28 luglio 2020, n. 4797, 21 maggio 2020, n. 2779 e 27 aprile 2018, n. 2557; per il favoreggiamento della prostituzione, C.d.S., Sez. III , 19 luglio 2019, n. 5083 e ord. 13 settembre 2019, n. 4589; per l’estorsione, C.d.S., Sez. III, 1° marzo 2017, n. 950).

6. Analogamente, ai sensi dell’art. 26, comma 7-bis, del d.lgs. n. 286/1998 la condanna irrevocabile “per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del Titolo III, Capo III, Sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, relativi alla tutela del diritto di autore, e dagli articoli 473 e 474 del codice penale” (in tema di contraffazione di segni distintivi e introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi) preclude in modo automatico il rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo (cfr. C.d.S., Sez. II, 8 gennaio 2020, n. 151; Sez. III, 10 ottobre 2018, n. 5839; Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 934).

7. Orbene, a fronte di una disciplina così articolata, che sanziona con durezza condotte penalmente rilevanti ritenute dall’ordinamento di particolare gravità e riprovevolezza, rendendo la condanna per tali condanne automaticamente ostativa al rilascio/rinnovo del titolo di soggiorno allo straniero, non sembra ragionevole ipotizzare che condotte ugualmente o analogamente riprovevoli (o addirittura più gravi) possano sfuggire alle sanzioni più rigorose laddove esse siano ascrivibili a soggetti richiedenti la protezione internazionale, pur ove – come nel caso di specie – si tratti di soggetti non ricompresi nelle categorie delle “persone vulnerabili” o dei minori non accompagnati.

8. Sotto quest’ultimo aspetto, la sentenza appellata sembra non avere valorizzato – come lamenta il Ministero appellante – la circostanza che la pronuncia della Corte di Giustizia da essa richiamata ha avuto ad oggetto il caso di un minore non accompagnato: l’estensione indiscriminata che il T.A.R. ha fatto dei principi desumibili dalla suddetta pronuncia anche a persone – come l’odierno appellato – maggiori di età e non classificabili come “persone vulnerabili”, conduce ad applicare un trattamento identico a fattispecie tra loro diverse, laddove, come già accennato, è la medesima Direttiva, agli artt. 21 e ss., che impone di tenere conto della specifica situazione delle “persone vulnerabili” e in specie dei minori e dei minori non accompagnati, ponendo “l’interesse superiore del minore” quale criterio guida per l’attuazione, da parte degli Stati membri, delle disposizioni della Direttiva stessa riguardanti i minori (così l’art. 23).

9. Sotto distinto e concorrente profilo, l’interpretazione dell’art. 20, parag. 4 della Direttiva sottesa alla sentenza di primo grado non sembra al rimettente coerente con le previsioni dei paragrafi da 1 a 3 del citato art. 20, che – come si è già visto – sanzionano espressamente con la riduzione o la revoca delle misure di accoglienza le ipotesi nelle quali sussiste un rischio di abuso, da parte dei richiedenti, del sistema di accoglienza istituito dalla direttiva stessa (v. il “considerando” 25 della Direttiva, prima riportato al parag. B, punto 2). Infatti, come osservato dalla Commissione Europea – e riportato dalla sentenza della Corte del 12 novembre 2019, al punto 44 –, se gli Stati membri hanno la possibilità di adottare misure relative alle condizioni materiali di accoglienza per tutelarsi da un rischio di abuso del sistema di accoglienza, essi devono avere tale possibilità anche nei casi di grave violazione delle regole che disciplinano i centri di accoglienza, o di comportamenti particolarmente violenti, quali atti che “possono perturbare l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone e dei beni”.

10. Vieppiù il riferito difetto di coerenza emerge per le condotte che, come quelle che sarebbero state commesse nel caso di specie, comportino il ricorso alla violenza fisica, essendo oltremodo dubbia la ragionevolezza di un sistema che sanziona più duramente condotte fraudolente, incidenti sul pubblico patrimonio, rispetto a condotte che colpiscono beni di rango più elevato nell’ordinamento giuridico (quali la vita delle persone, la loro integrità fisica o mentale, la libertà sessuale, ecc.).

11. Peraltro, la dignità del richiedente la protezione internazionale – elemento sul quale la pronuncia della Corte pone in particolare l’accento – sembra poter essere adeguatamente garantita con il rispetto delle regole fondamentali del procedimento amministrativo e, in specie, dei principi di completezza dell’istruttoria (art. 6 della l. n. 241/1990; cfr. C.d.S., Sez. IV, 29 maggio 2015, n. 2694; Sez. VI, 30 giugno 2011, n. 3896) e di lealtà nei rapporti tra privato e Amministrazione (C.d.S., Sez. II, 14 marzo 2020, n. 1837), nonché dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (art. 3 della l. n. 241/1990). Si deve trattare, ovviamente, di un rispetto sostanziale – e non meramente formale – di tali regole, il che comporta tra l’altro (sulla base della giurisprudenza interna riportata al precedente parag. C, punti 4 e ss.):

- sotto il profilo della completezza dell’istruttoria, un vaglio attento e completo delle conseguenze derivanti in capo al beneficiario nel caso di revoca delle misure di accoglienza, e così l’individuazione di una o più strutture private disposte ad accoglierlo, con impegno in questo senso di dette strutture (il che sembra qualcosa di più della mera fornitura, allo straniero, di un elenco di centri privati che lo potrebbero accogliere, ritenuta insufficiente dalla pronuncia della Corte: v. punto 49);

- quanto alla lealtà procedimentale, il divieto di condotte dell’Amministrazione che si traducano nella “dequotazione” della fase di partecipazione del privato al procedimento amministrativo, e dunque il divieto di un’applicazione a priori della regola di non annullabilità dei provvedimenti per vizi formali stabilita dall’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241/1990, attraverso cui la P.A. si autoesoneri dalla fase partecipativa in virtù di una pretesa inutilità dell’apporto del privato, o di non meglio specificate ragioni d’urgenza;

- con riguardo, infine, all’obbligo di motivazione – ma in connessione pure con i menzionati principi di completezza dell’istruttoria e lealtà procedimentale – l’obbligo per l’Amministrazione di prendere in esame le osservazioni presentate dallo straniero nella fase di partecipazione procedimentale e di esporre analiticamente le ragioni per cui ritenga di non condividerle.

12. Le suindicate accortezze sul piano del procedimento amministrativo sono finalizzate a scongiurare il rischio – paventato dalla pronuncia della Corte – che la revoca delle misure di accoglienza privi il soggetto interessato della possibilità di soddisfare le sue esigenze più elementari, quali il nutrirsi, il lavarsi e il disporre di un alloggio, ponendolo in uno stato di degrado incompatibile con il rispetto di un tenore di vita dignitoso (v. il punto 46).

13. Infine, come già accennato, va rimessa alla Corte di Giustizia anche la questione della possibilità o meno di estendere l’applicazione delle “sanzioni” previste dall’art. 20, parag. 4, della Direttiva alle condotte che – come nel caso di specie – siano state commesse al di fuori del centro di accoglienza: possibilità su cui si è già visto che si riscontrano contrasti nella giurisprudenza interna, stante anche la formulazione non del tutto perspicua dell’art. 23, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 142/2015, a fronte del tenore del citato art. 20, parag. 4.

14. Le questioni prospettate sono rilevanti ai fini della decisione, anzitutto perché se la norma interna va disapplicata in quanto incompatibile con la disciplina eurounitaria, come sostenuto dal T.A.R., che ha pertanto annullato il provvedimento di revoca, detta pronuncia di annullamento è meritevole di conferma e l’appello deve essere respinto. Seguendo, invece, la tesi opposta, in disparte la questione di costituzionalità riferita più sopra, l’appello sarebbe da accogliere, perché il T.A.R. avrebbe errato nel disapplicare l’art. 23, comma, 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015: tale disposizione conserverebbe, quindi immutata la propria portata precettiva.

15. Analogamente, se i “comportamenti gravemente violenti” sanzionabili in base all’art. 20, parag. 4, della Direttiva sono soltanto quelli commessi all’interno del centro di accoglienza, l’appello non è suscettibile di accoglimento: infatti, come osservato al parag. A, il Ministero appellante ha basato le proprie censure sul presupposto per cui la revoca è sanzione irrogabile quale che sia il luogo dov’è stata perpetrata la condotta, al fine di preservare il funzionamento dei centri di accoglienza evitando che al loro interno si diffondano “comportamenti gravemente violenti”, e l’episodio in cui è rimasto coinvolto il sig. -OMISSIS- si è verificato alla stazione ferroviaria di -OMISSIS-, dunque al di fuori del centro di accoglienza.

E. PUNTO DI VISTA DEL GIUDICE DEL RINVIO

1. Il punto di vista di questo Giudice del rinvio è nel senso della non conformità della sentenza del T.A.R. al diritto dell’Unione, per le ragioni esposte al parag. D.

2. Sul piano dell’interpretazione letterale, questo Giudice è ben consapevole del fatto che, secondo il consolidato indirizzo della Corte di Giustizia UE, ai fini dell’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione si deve tener conto non soltanto del tenore letterale della disposizione stessa, ma anche del suo contesto e degli obiettivi perseguiti dalla normativa di cui essa fa parte (cfr. la sentenza del 27 giugno 2019, in C-348/18, punto 32; la sentenza del 26 settembre 2018, in C-513/17, punto 23; la sentenza del 24 giugno 2014, in C-658/11, punto 51). Nondimeno, questo Giudice ritiene che l’utilizzo, nell’art. 20, parag. 4 della Direttiva, del termine “sanzioni” sia estremamente significativo, indicando esso l’intenzione del Legislatore di graduare le sanzioni in ragione della differente gravità delle violazioni e, quindi, di far corrispondere alle condotte più gravi le sanzioni più gravi, in ossequio al principio della proporzione della pena alla gravità del fatto commesso (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. IV, 12 marzo 2019, n. 41216). In questa prospettiva, allora appare comprensibile il ricorso alla sanzione della revoca in connessione alle violazioni più gravi (quali, ad es., quelle legate allo spaccio di sostanze stupefacenti, alla violenza fisica o morale o alla libertà sessuale), in funzione della rilevanza del bene/interesse protetto.

3. Sempre sul piano del principio di proporzionalità, si sono segnalate le incoerenze della disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 23 cit., come ridisegnata a seguito della disapplicazione da parte del T.A.R. (e quindi con l’applicazione di sanzioni più lievi della revoca per l’ipotesi di comportamenti pur “gravemente violenti”), rispetto alla disciplina sul rilascio/rinnovo del permesso di soggiorno allo straniero per motivi di lavoro subordinato o autonomo, e rispetto all’apparato sanzionatorio disposto dallo stesso art. 20, paragrafi da 1 a 3, della Direttiva per i casi di abuso del sistema di accoglienza. Si è poi segnalata la possibilità di abusi legati alle suddette incoerenze, per la possibilità di un utilizzo strumentale del regime più mite da parte del soggetto che beneficia delle misure di accoglienza, per un duplice versante:

a) rispetto agli altri stranieri, sottoposti alla rigorosa disciplina stabilita dagli artt. 4, comma 3, e 26, comma 7-bis, del d.lgs. n. 286/1998, i quali possono evitare l’automatismo preclusivo del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, che le disposizioni succitate ricollegano alle condotte penalmente rilevanti da esse elencate, solo allegando l’esistenza di legami familiari in Italia (cfr. C.d.S., Sez. III, 3 novembre 2017, n. 5088), peraltro a condizione che il reato non sia di particolare gravità (cfr. C.d.S., Sez. III, 5 giugno 2020, n. 3204; 19 febbraio 2019, n. 1161; 27 novembre 2018, n. 6700). In base alla prospettazione del T.A.R. Toscana, invece, lo straniero che beneficia delle misure di accoglienza non dovrebbe, pur in presenza di condotte altrettanto gravi, nemmeno allegare la condizione di “persona vulnerabile”, ovvero di minore non accompagnato;

b) rispetto al più grave regime sanzionatorio previsto dai paragrafi da 1 a 3 dell’art. 20 della Direttiva, non essendo di agevole comprensione le ragioni della diversità di disciplina rispetto alle fattispecie contemplate dal parag. 4 (e in specie, per quanto qui interessa, alla fattispecie dei “comportamenti gravemente violenti”), considerata la rilevanza sul piano ordinamentale dei beni/interessi tutelati dalle norme che vengono in questione.

4. Da ultimo, questo Giudice ritiene preferibile l’opzione interpretativa che comprende tra le condotte punibili con “sanzioni” ai sensi dell’art. 20, parag. 4, della Direttiva, anche i comportamenti posti in essere al di fuori del centro di accoglienza, sempreché connotabili come “gravemente violenti”, per ragioni di ordine sia letterale, che teleologico:

a) dal punto di vista letterale, perché il testo dell’art. 20, parag. 4, della Direttiva sembra da intendere nel senso ora visto, stabilendo esso, come si è detto, che gli Stati membri possono prevedere sanzioni da applicare “alle gravi violazioni delle regole dei centri di accoglienza, nonché ai comportamenti gravemente violenti”: qui, infatti, i comportamenti gravemente violenti sembrano ipotesi autonoma e distinta rispetto a quella delle violazioni delle regole dei centri di accoglienza, dunque riscontrabile pur in presenza di condotte poste in essere al di fuori di tali centri. Di tenore ben più equivoco è, però, la norma interna – l’art. 23, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 142/2015 –, che assoggetta a sanzione la “violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti”, perché qui il testo si presta a una lettura che rende sanzionabili detti comportamenti solo se commessi all’interno del centro di accoglienza (e tali, dunque, da rappresentare violazione grave delle regole del centro stesso);

b) dal punto di vista teleologico, perché può difficilmente revocarsi in dubbio che i “comportamenti gravemente violenti”, anche se commessi al di fuori del centro di accoglienza, possano, specialmente se risaputi, incidere in modo assai negativo sul buon funzionamento della struttura.

F. FORMULAZIONE DEL QUESITO E RINVIO ALLA CORTE

1. In conclusione, il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale solleva questione di pregiudizialità invitando la Corte di Giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., a pronunciarsi sul seguente quesito:

“se l’art. 20, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, osti ad una normativa nazionale che preveda la revoca delle misure di accoglienza a carico del richiedente maggiore di età e non rientrante nella categoria delle “persone vulnerabili”, nel caso in cui il richiedente stesso sia ritenuto autore di un comportamento particolarmente violento, posto in essere al di fuori del centro di accoglienza, che si sia tradotto nell’uso della violenza fisica ai danni di pubblici ufficiali e/o incaricati di pubblico servizio, cagionando alle vittime lesioni tali da rendere per le stesse necessario il ricorso alle cure del Pronto Soccorso locale”.

2. Ai sensi delle “Raccomandazioni all’attenzione dei Giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale” 2012/C 338/01 pubblicate nella G.U.C.E. del 6 novembre 2012, vanno trasmessi in copia alla cancelleria della Corte, mediante plico raccomandato, i seguenti atti:

1) il provvedimento impugnato con il ricorso di primo grado, cioè il decreto della Prefettura di Firenze – Ufficio Territoriale del Governo – Area IV, prot. n. 0-OMISSIS-, con cui sono state revocate al sig. -OMISSIS- le misure di accoglienza disposte in suo favore ai sensi dell’art. 23, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 142/2015;

2) il ricorso di primo grado;

3) la sentenza del T.A.R. per la Toscana appellata;

4) l’atto di appello e le memorie difensive dell’appellato;

5) la presente ordinanza;

6) la copia delle seguenti norme nazionali: a) artt. 14, 17 e 23 del d.lgs. n. 142/2015; b) artt. 4, comma 3, e 26, comma 7-bis, del d.lgs. n. 286/1998; c) art. 444 c.p.p.; d) art. 380, commi 1 e 2, c.p.p.; e) artt. 473 e 474 c.p.; f) titolo III, capo III, sezione II, della l. 22 aprile 1941, n. 633 (recante norme a tutela del diritto di autore); g) art. 1 del d.lgs. 22 gennaio 1948, n. 66 (recante norme per assicurare la libera circolazione sulle strade ferrate e ordinarie e la libera navigazione); h) art. 24 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico di Pubblica Sicurezza); i) artt. 3, 6 e 21-octies della l. n. 241/1990; l) art. 29 del

d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25.

3. Il presente giudizio viene sospeso nelle more della definizione dell’incidente eurounitario, e ogni ulteriore decisione, anche in ordine alle spese, è riservata alla pronuncia definitiva.

PQM

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), non definitivamente pronunciando sul ricorso come in epigrafe proposto (ricorso n. 3633/2020), così provvede:

1) dispone a cura della Segreteria, la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 T.F.U.E., nei sensi e con le modalità di cui in motivazione, e con copia degli atti ivi indicati;

2) dispone la sospensione del presente giudizio;

3) riserva alla decisione definitiva ogni ulteriore statuizione in rito, in merito e in ordine alle spese.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ed all’art. 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti e della dignità dell’interessato, manda alla Segreteria di procedere ad oscurare le generalità, nonché qualsiasi altro dato idoneo ad identificare lo straniero appellato.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 12 novembre 2020, tenutasi, ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, mediante collegamento da remoto in videoconferenza, con l’intervento dei magistrati:

Michele Corradino, Presidente
Giulio Veltri, Consigliere
Giovanni Pescatore, Consigliere
Solveig Cogliani, Consigliere
Pietro De Berardinis, Consigliere, Estensore

L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Pietro De Berardinis Michele Corradino

IL SEGRETARIO


 

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