REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARASCA Gennaro - Presidente -
Dott. BEVERE Antonio - Consigliere -
Dott. OLDI Paolo - rel. Consigliere -
Dott. SETTEMBRE Antonio - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. B.P.O.;
2. B. B.;
avverso la sentenza del 29/12/2011 della Corte di appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Paolo Oldi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. DI POPOLO Angelo che ha concluso chiedendo declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 29 dicembre 2011 la Corte d'Appello di Milano, in ciò parzialmente confermando la decisione assunta dal Tribunale di Monza (invece riformata in ordine ad altro reato), ha riconosciuto B.B. e B.P.O. responsabili del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale in relazione al fallimento della società SIA s.r.l., della quale la prima era stata amministratrice formale e il secondo amministratore di fatto.
1.1. Secondo l'ipotesi accusatoria, recepita dai giudici di merito, negli ultimi esercizi antecedenti il fallimento la società aveva effettuato acquisti di beni estranei all'oggetto sociale, non rinvenuti dal curatore, dei quali gli imputati non avevano spiegato la destinazione. La contabilità non era più stata tenuta nell'anno 2000 e ciò aveva impedito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.
2. Hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione gli imputati, per il tramite del comune difensore, affidandolo a quattro motivi.
2.1. Col primo motivo i ricorrenti contestano la legittimità del criterio, cui si sono attenuti i giudici di merito, secondo cui l'omesso rinvenimento di beni appartenuti alla società fallita fa presumere la distrazione di essi ad opera dell'amministratore, se questi non ne giustifichi la destinazione; sostengono essere insita in tale linea argomentativa un'indebita inversione dell'onere della prova, avversata dalla migliore dottrina e da un parte della giurisprudenza.
2.2. Col secondo motivo i ricorrenti contestano la sussistenza dell'elemento psicologico del reato, che sostengono dover consistere nel dolo specifico: sia per la bancarotta per distrazione, sia per quella documentale, sia infine - così aggiungono nell'illustrare il motivo - per l'aggravamento del dissesto ex art. 217, L. Fall., relativamente al quale è stato disposto il proscioglimento per prescrizione.
2.3. Il terzo motivo, riferito specificamente alla posizione di B.B., insiste sulla totale estraneità di costei ai fatti oggetto di imputazione, per essersi trattato di semplice prestanome, mai ingeritasi nella gestione della società.
2.4. Col quarto motivo i ricorrenti lamentano l'eccessività della pena e impugnano il giudizio di equivalenza, anzichè di prevalenza, delle attenuanti generiche sulla recidiva e sull'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta.

Motivazione

1. Il primo motivo di ricorso è destituito di fondamento.
1.1. Contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, è principio ormai definitivamente consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità quello per cui, una volta provato dall'accusa che un determinato bene appartenente all'impresa - poi fallita - sia entrato nella disponibilità dell'amministratore, se ne presume la distrazione se l'autore del fatto non provi di avervi dato legittima destinazione; basti, in proposito, richiamarsi alla - sia pur risalente - pronuncia in tal senso del massimo organo di nomofilachia (Sez. U, n. 2 del 25/01/1958, Mezzo, Rv. 98002), cui sono seguite numerosissime enunciazioni conformi da parte di questa stessa sezione (v. per tutte Sez. 5, n. 8786 del 14/06/1983, Nenna, Rv. 160829; Sez. 5, n. 178 del 26/02/1991, Mattia, Rv. 186949; Sez. 5, n. 2876 del 10/06/1998 - dep. 03/03/1999, Vichi, Rv. 212606; Sez. 5, n. 30818 del 24/04/2003, Pizzone, Rv. 225804; Sez. 5, n. 3400 del 15/12/2004 - dep. 02/02/2005, Sabino, Rv. 231411; Sez. 5, n. 7048 del 27/11/2008 - dep. 18/02/2009, Bianchini, Rv. 243295).
1.2. Il menzionato principio, correttamente applicato dalla Corte di merito, non implica alcuna inversione dell'onere della prova in quanto non esige dall'imputato un'attività probatoria, ma soltanto assertiva, essendo poi compito del giudice l'accertamento della veridicità o meno di quanto affermato; nè viola i criteri normativamente fissati per la valutazione della prova indiziaria, basandosi il ragionamento presuntivo sulla convergenza di una pluralità di fatti noti - la cui logica coordinazione conduce all'accertamento del fatto ignoto - che sono costituiti: dall'accertato possesso, da parte dell'amministrazione della società, dei beni o delle attività cui l'addebito si riferisce (nel caso di specie, di merci acquistate al di fuori di un'effettiva correlazione con l'oggetto sociale); dal mancato loro rinvenimento nel patrimonio della società all'atto del fallimento; dalla mancanza di qualsiasi indicazione che possa dar conto della loro destinazione in modo conforme agli scopi sociali.

2. Privo di fondamento è anche il secondo motivo. Non ha pregio giuridico, invero, la tesi secondo la quale ad integrare i delitti contestati ai ricorrenti sarebbe richiesta la sussistenza del dolo specifico.
2.1. Per quanto si riferisce alla bancarotta fraudolenta patrimoniale, basti considerare che l'art. 216, comma 1, n. 1), L. Fall., richiede lo scopo di recare pregiudizio ai creditori soltanto con riferimento all'ipotesi descritta per ultima - separata dalle precedenti attraverso la disgiuntiva "ovvero" - e riguardante il fatto di chi abbia esposto o riconosciuto passività inesistenti; al di fuori di tale ipotesi, che qui non ricorre, ad integrare la fattispecie criminosa è sufficiente il dolo generico, il quale consiste nella coscienza e volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. 5, n. 11899 del 14/01/2010, Rizzardi, Rv. 246357; Sez. 5, n. 34584 del 06/05/2008, Casillo, Rv. 241350).
2.2. Neppure il tipo descrittivo della bancarotta fraudolenta documentale richiede la sussistenza del dolo specifico: lo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto, o di recare pregiudizio ai creditori, è elemento essenziale del reato soltanto nell'ipotesi di sottrazione, distruzione o falsificazione delle scritture contabili, descritta nella prima proposizione dell'art. 216, comma 1, n. 2) L. Fall.. La mancata od irregolare tenuta delle scritture - che è l'illecito qui contestato - è invece punita in presenza del dolo generico, a concretare il quale basta la consapevolezza che la condotta incriminata impedirà, o potrà impedire, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (Sez. 5, n. 21872 del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247444; Sez. 5, n. 1137 del 17/12/2008 - dep. 13/01/2009, Vianello, Rv. 242550).
2.3. E' poi del tutto eccentrico, oltre che confliggente col tenore del dato normativo, l'assunto secondo cui il dolo specifico sarebbe richiesto anche per la configurabilità del delitto di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto, di cui all'art. 217, comma 1, n. 4) della più volte citata L. Fall.; trattasi, invero di illecito del quale il legislatore ha espressamente previsto la punibilità anche a titolo di colpa (sia pur grave).

3. Parimenti da rigettare è il terzo motivo di ricorso. Pacifico essendo che B.B. abbia esercitato la carica di amministratore formale della società SIA s.r.l., consequenziale è l'assunzione da parte sua di una posizione di garanzia, tale da obbligarla a impedire la consumazione degli illeciti verificatisi sotto la sua gestione; in proposito la Corte d'Appello ha opportunamente richiamato la responsabilità derivante dal disposto dell'art. 40 cod. pen.
3.1. Il fatto che l'odierna ricorrente si sia astenuta dal gestire la società, lasciando campo libero al figlio B.P.O., non la esime certamente da responsabilità per quanto concernente la tenuta delle scritture contabili, la cui regolare compilazione e conservazione è dovere specifico dell'amministratore, anche quando si presti a svolgere la funzione di mero prestanome; e ciò in quanto l'abdicazione alla funzione di controllo contabile comporta l'accettazione in via preventiva del rischio che l'amministratore di fatto ponga in essere le omissioni e le irregolarità contabili: come per l'appunto, nel caso di specie, risulta essersi verificato.

3.2. Per quanto attiene agli illeciti distrattivi, la penale responsabilità è legata alla consapevolezza dell'operato altrui.
Nel caso specifico di cui ci si occupa la Corte di merito ha ravvisato la prova di tale consapevolezza nel fatto che la B. intrattenesse i rapporti con le banche, deducendone che, cosi operando, non potevano esserle sfuggiti i movimenti e i flussi di denaro: e ciò a maggior ragione in quanto essa sola era legittimata ad emettere assegni. Siffatta linea argomentativa si rivela esente da vizi logici e giuridici, onde resiste al controllo di legittimità.

4. Inammissibile, infine, è il quarto motivo, col quale i ricorrenti lamentano l'eccessività della pena irrogata e il diniego della prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate.
4.1. In proposito va rimarcato che tanto la modulazione della pena quanto il giudizio di bilanciamento fra circostanze sono statuizioni che l'ordinamento rimette alla discrezionalità del giudice di merito, per cui non vi è margine per il sindacato di legittimità quando la decisione sia motivata in modo conforme alla legge e ai canoni della logica. Nel caso di specie la Corte d'Appello non ha mancato di motivare la propria decisione sui punti in questione, valorizzando la capacità a delinquere dimostrata dai precedenti penali di ambedue gli imputati. Siffatta linea argomentativa non presta il fianco a censura, rendendo adeguatamente conto delle ragioni della decisione adottata; d'altra parte non è necessario, a soddisfare l'obbligo della motivazione, che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., essendo invece sufficiente l'indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono eminente rilievo.
5. Conclusivamente, il ricorso congiunto degli imputati deve essere rigettato. Ne consegue la condanna di entrambi, singolarmente, al pagamento delle spese processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 17 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2014


 

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