In tema di imposte sui redditi, affinchè un costo sostenuto dall'imprenditore sia fiscalmente deducibile dal reddito d'impresa non è necessario che esso sia stato sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all'impresa in quanto tale, e cioè sia stato sostenuto al fine di svolgere una attività potenzialmente idonea a produrre utili


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D'ALONZO Michele - Presidente -
Dott. GRECO Antonio - rel. Consigliere -
Dott. SAMBITO Maria Giovanna - Consigliere -
Dott. BOTTA Raffaele - Consigliere -
Dott. CARACCIOLO Giuseppe - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE;
- ricorrente -
contro
L. C. DI V. C., L. M. & C. sas, nonchè i soci C.V., M.L., M.R. e R. C. & M. srl, ;
- controricorrenti -
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n.151/28/09, depositata il 14 ottobre 2009;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 marzo 2012 dal Relatore Cons. Antonio Greco;
uditi l'avvocato dello Stato Antonio Grumetto per la ricorrente e l'avv. Andrea Aliberti per controricorrenti;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Fimiani Pasquale, che ha concluso per l'accoglimento del terzo motivo del ricorso

Svolgimento del processo

L'Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione, sulla base di dodici motivi, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia che, rigettandone l'appello, ha confermato la decisione di primo grado di parziale annullamento di cinque avvisi di accertamento, relativi al periodo d'imposta 2003, emessi, rispettivamente, a carico della sas L. C. di V. C., L. M.C. per IRAP e IVA, e dei suoi soci, la srl R. C.; M. per IRPEG, nonchè M.L., M.R. e C.V. per IRPEF. Il giudice d'appello, infatti, pronunciandosi su sei contestazioni dell'ufficio, le ha ritenute non fondate.
La prima, relativa a costi asseritamente non inerenti, sostenuti per la manutenzione del giardino antistante il capannone industriale; la seconda, concernente costi non sufficientemente documentati per essere la fattura ad essi relativa priva dei requisiti prescritti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21; la terza, relativa a costi non inerenti perchè sostenuti per la riparazione di un telefono cellulare non di proprietà della società e per la pulitura di un tratto di fognatura; la quarta, con la quale si negava la strumentante o l'inerenza dei costi sostenuti per la locazione di un immobile dato in comodato a persona che svolgeva attività di vigilanza e piccola manutenzione per la società contribuente; la quinta, relativa all'importo riconosciuto ad una società consulente quale rimborso per spese sostenute per la ristorazione di persone non meglio identificate; la sesta, concernente maggiori ricavi da recuperare, per circa Euro 24.000, derivanti dalla mancata applicazione del valore normale in transazioni commerciali tra la società contribuente e la socia srl R., partecipante.
La sas L. C. ed i soci resistono con controricorso.

Motivazione

Con i dodici motivi del ricorso l'amministrazione censura le statuizioni della sentenza d'appello relative a ciascuna delle sei contestazioni dell'avviso, rispettivamente, per violazione dell'art. 75 del t.u.i.r. del 1986 e per insufficiente motivazione.
Il primo motivo, con il quale la ricorrente assume la non deducibilità, "da parte di una società che svolge attività di vendita all'ingrosso di calzature e accessori... di una spesa destinata alla manutenzione di un giardino, in mancanza di qualsiasi prova, anche solo presuntiva, della funzione strumentale rispetto all'attività d'impresa..", non coglie nel segno, rivelandosi conseguentemente infondato il secondo motivo, che denuncia vizio di motivazione sul punto.
Questa Corte ha infatti chiarito come "in tema di imposte sui redditi, affinchè un costo sostenuto dall'imprenditore sia fiscalmente deducibile dal reddito d'impresa non è necessario che esso sia stato sostenuto per ottenere una ben precisa e determinata componente attiva di quel reddito, ma è sufficiente che esso sia correlato in senso ampio all'impresa in quanto tale, e cioè sia stato sostenuto al fine di svolgere una attività potenzialmente idonea a produrre utili" (Cass. n. 16826 del 2007).
Non è quindi richiesta quella correlazione meccanica e atomistica postulata dall'amministrazione, la prova di "un rapporto diretto tra spesa e ricavo".
Il giudice d'appello ha accertato trattarsi di "costi sostenuti per la manutenzione del giardino di proprietà, antistante il capannone industriale", di una parte, cioè, del complesso immobiliare nel quale viene svolta l'attività dell'impresa, ed ha correttamente affermato, in proposito, che "il concetto di inerenza deve essere collegato all'intera attività dell'impresa, e non ai soli ricavi in senso stretto".
Sono del pari privi di pregio il settimo e l'ottavo motivo, relativi alla spesa per la locazione di una "foresteria" utilizzata da tale D.A., che per la società contribuente svolgeva "opera di vigilanza, ritiro posta e lavori di piccola manutenzione", censure in ordine alle quali il giudice d'appello ha correttamente richiamato le considerazioni, di cui si è appena detto, secondo cui "il concetto di inerenza deve essere collegato all'intera attività d'impresa e non ai soli ricavi in senso stretto".
Il terzo ed il quarto motivo, con i quali la ricorrente, denunciando anche vizio di motivazione, nega la deducibilità di costi in quanto non sufficientemente documentati, per essere, nella fattura ad essi relativa, indicate le prestazioni in termini generici, in violazione di quanto prescritto dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, sono infondati.
In sede di accertamento delle imposte sui redditi, infatti, non è certo priva di rilievo l'omessa indicazione nelle fatture dei dati prescritti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21; essa può infatti integrare quelle gravi irregolarità che, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, legittimano l'amministrazione finanziaria a ricorrere all'accertamento induttivo del reddito imponibile (cfr., tra le altre, Cass. n. 5748 del 2010, riferita ad una fattispecie in cui nelle autofatture emesse dalla contribuente, in qualità di cessionaria, era stata rilevata la mancata indicazione delle generalità del cedente).
Tuttavia, costituendo "l'irregolare tenuta delle scritture contabili mero indizio della inaffidabilità delle scritture, rimane facoltà del contribuente provarne la veridicità attraverso tutte le fonti che concorrono nell'attività d'impresa, quali fatture emesse, ricevute, bolle di consegna, estratti conto bancari, libri paga, liquidazioni periodiche di IVA, ecc." (Cass. n. 27063 del 2007).
Occorre d'altronde considerate che l'abrogazione, da parte del D.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695, art. 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 6 - il quale escludeva la deducibilità delle spese ed altri componenti negativi in caso di omessa od irregolare registrazione - ha comportato un ampliamento del regime di prova dei costi da parte del contribuente, prova che può essere fornita anche con mezzi diversi dalle scritture contabili, purchè costituenti elementi certi e precisi, come prescritto dal comma 4 dello stesso art. 75 (Cass. n. 1147 del 2010).
Il giudice di merito ha nella specie ritenuto integrata la documentazione delle spese sulla base del "dettaglio presentato dal contribuente delle opere eseguite ed elencate nell'allegato 5 del ricorso (sistemazione caditoia, verifica scolo acque piovane, ricostruzione muretto interno demolito da muletto, ecc.)", in ordine al quale, tra l'altro, l'ufficio "nulla ha eccepito in primo grado nè eccepisce in appello".
Il quinto motivo, con il quale si sostiene la non inerenza dei costi sostenuti per la riparazione di un telefono cellulare "non di proprietà della società", è invece fondato, assorbito l'esame del sesto motivo, con il quale si denuncia vizio di motivazione sul punto.
Alla stregua dei principi richiamati supra circa la nozione di inerenza dei costi, è erroneo in diritto quanto affermato sul punto dal giudice di merito, che si limita ad osservare che "l'esiguità dell'importo in contestazione (Euro 413, comprendente però un'altra voce di spesa per la quale non si controverte) permette tranquillamente di confermare quanto statuito dal giudice di prime cure, ossia che si tratti di spese di ordinaria manutenzione che correttamente la società ha contabilizzato".
L'esiguità della spesa per l'ordinaria manutenzione di un apparecchio per la telefonia di proprietà di un soggetto diverso dalla società contribuente non può evidentemente assumere alcun rilievo ai fini della valutazione dell'inerenza di quel costo rispetto all'attività dell'impresa.
Con il nono motivo l'amministrazione ricorrente assume, in relazione ad una fattura nella quale una società che aveva svolto consulenze e ricerche di mercato per la contribuente aveva indicato anche l'importo corrispondente alle spese dalla detta società sostenute per la ristorazione di "più persone non qualificate", che il giudice d'appello avrebbe erroneamente ammasso in deduzione la spesa limitatamente a tale importo, "rilevando che l'eventuale genericità della fattura si sarebbe dovuta contestare alla società che aveva svolto l'attività di consulenza", laddove avrebbe dovuto "tenersi conto della fattura formata per il rimborso, essendo questa il documento utilizzato dalla contribuente per portarne in detrazione l'importo".
Con il decimo motivo denuncia vizio di motivazione sul punto.
Entrambi i motivi sono infondati, per le considerazioni svolte supra con riguardo al terzo e quarto motivo del ricorso.
Non si ravvisa alcun errore di diritto nell'aver rilevato come quel costo, e la sua inerenza, erano provati, come evidenziato già dalla sentenza di primo grado, dalla fattura, emessa dalla consulente srl C., "formalmente e sostanzialmente regolare (e mai contestata da nessuno)", allegata alla quale era anche "un dettaglio dimostrativo che rappresentava i costi che la C. aveva sostenuto per i pasti", riaddebitandoli alla contribuente committente. Questa aveva registrato una sola fattura: quella, appunto, della C., comprendente l'intero importo convenuto più il costo di dette spese.
Con l'undicesimo motivo, con riguardo alla contestazione avente ad oggetto maggiori ricavi da recuperare, per circa Euro 24.000, derivanti dalla mancata applicazione del valore normale in transazioni commerciali tra la società contribuente e la sua stessa socia accomandante srl R., l'amministrazione ricorrente assume, sotto il profilo della violazione di legge, che anche nelle cessioni tra società appartenenti allo stesso gruppo, per la determinazione dei redditi e delle perdite, ai sensi dell'art. 9, comma 2, del t.u.i.r., i corrispettivi dovrebbero essere valutati in base al valore normale dei beni e dei servizi da cui sono costituiti, determinato ai sensi del successivo comma 3. La sentenza impugnata, ritenendo non applicabile il criterio del valore normale, in base ad argomentazioni del tutto estranee al detto criterio ed inoltre fondate su semplici opinioni, avrebbe violato le norme richiamate.
Con il dodicesimo motivo, denuncia insufficiente motivazione sul punto.
I motivi sono infondati.
Ai fini della determinazione dei redditi e delle perdite, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 9, comma 3, fissa al comma 3 la nozione di "valore normale" come "il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione", stabilendo che per la sua determinazione si faccia "riferimento, per quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi..., tenendo conto degli sconti d'uso".

Anche a voler prescindere dalla pertinenza del ricorso al criterio del "valore normale" per l'ipotesi in esame - che non sembra compresa nell'elenco contenuto nei commi 2 e 4 dell'art. 9 del t.u.i.r. del 1986, e neppure è toccata dalla disciplina antielusiva che regola il c.d. transfer pricing di cui al successivo art. 76, comma 5, il quale ha riguardo ai componenti di reddito derivanti da operazioni con società del medesimo gruppo non residenti nel territorio dello Stato, laddove le operazioni in esame sono state poste in essere fra società entrambe nazionali dello stesso gruppo -, occorre tener presente come questa Corte abbia già chiarito, in ordine alla detta nozione, che il comma 3 dell'art. 9 del t.u.i.r. "indica per la determinazione del valore normale dei beni il "riferimento (...) ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito beni o servizi (...) tenendo conto degli sconti d'uso", i quali sono da individuarsi in quelli usualmente praticati sui propri listini a per le operazioni concluse in condizioni di libera concorrenza, cioè con soggetti estranei al proprio gruppo economico e non, quindi, nelle riduzioni percentuali del prezzo praticate nei soli rapporti infragruppo" (Cass. n. 7343 del 2011).
Il giudice di merito, dopo aver evidenziato che "entrambe le società risiedono sul territorio nazionale e quindi non vi è stata sottrazione di materia imponibile", ha rilevato che "i prezzi praticati fra le due società sono prezzi all'ingrosso in quanto entrambe le società commercializzano e vendono il prodotto in contestazione", osservando essere "prassi, nel comune commercio anche fra concorrenti (ed a maggior ragione in questo caso, visto il sottostante rapporto di partecipazione) "vendersi" delle merci di cui si è rimasti sprovvisti, ad un prezzo superiore il reale prezzo d'acquisto, al fine di dividersi l'utile fra le due imprese, tenendo presente che il prezzo di mercato (per l'utilizzatore finale) deve essere allineato alla concorrenza: ecco spiegate le ragioni economiche che hanno determinato una vendita a prezzi più bassi", ed ha infine rimarcato che "non risulta che i verificatori abbiano confutato e messo a confronto i prezzi praticati alla R. con quelli praticati ad altri grossisti, ma il raffronto è stato effettuato esclusivamente con quelli relativi alla genericità dei ricavi".
Il giudice ha così correttamente escluso che nel trasferimento, per così dire "interno", della merce tra due società, entrambe residenti, facenti parte dello stesso gruppo ed operanti nella stessa fase di commercializzazione ("all'ingrosso") potesse farsi ricorso al criterio del "valore normale", vale a dire al "prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari", in quanto difettavano due dei requisiti stabiliti dal comma 3 dell'art. 9 del t.u.i.r. del 1986, le "condizioni di libera concorrenza" ed il "medesimo stadio di commercializzazione".
In conclusione, va accolto il quinto motivo del ricorso, assorbito il sesto motivo, mentre vanno rigettati gli altri motivi; la sentenza impugnata va cassata in relazione al quinto motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto in parte qua del ricorso introduttivo dei contribuenti.
Si ravvisano giusti motivi, anche in relazione alla reciproca soccombenza, per dichiarare compensate fra le parti le spese del giudizio.

PQM

La Corte accoglie il quinto motivo del ricorso, assorbito il sesto motivo, e rigetta gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta, in relazione alla contestazione di cui al quinto motivo, il ricorso introduttivo del contribuente.
Dichiara compensate fra le parti le spese dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 27 marzo 2012.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2012


 

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