§11. Il dies ad quem e la c.d. revoca della non contestazione
Una delle questioni più complesse e più rilevanti in tema di onere di contestazione è quella relativa al dies ad quem (cioè al termine fino al quale è possibile contestare) e alla eventuale revoca della contestazione. A me per la verità non pare corretto parlare di «revoca», visto che in caso di non contestazione avremmo la revoca di un non-atto, mentre in caso di contestazione generica non si avrebbe tecnicamente una revoca bensì una specificazione. Sarebbe allora meglio parlare di «contestazione tardiva» e, in caso di contestazione generica, di «contestazione tardivamente specificata». Ad ogni modo, per comodità, farò riferimento anch’io alla revoca.
Queste le domande che ci dobbiamo porre: «esiste un termine entro il quale va fatta la contestazione? Se esiste, qual è questo termine? E cosa accade se la parte contesta dopo questo termine? È ammessa a provare il fatto contrario a quello che non ha contestato? E cosa succede se dall'istruttoria emerge un fatto contrario a quello non contestato? Come si deve comportare il giudice?»
L’art. 115, primo comma, c.p.c., così come modificato dalla l. 69/2009, non stabilisce entro quale termine la parte è tenuta a contestare i fatti ex adverso allegati, né dà una risposta agli altri quesiti. Si limita a prevedere che il giudice deve porre a fondamento della decisione i fatti non contestati specificatamente. Occorre allora stabilire se esiste comunque un termine entro il quale le parti hanno l'onere di effettuare la contestazione.
In proposito, nel rito ordinario si possono ipotizzare diverse soluzioni:
(a) la contestazione deve essere tempestiva, cioè fatta con la prima difesa utile;
(b) la contestazione deve intervenire entro la fissazione del thema decidendum e dunque in udienza ovvero, in caso di concessione dei termini, al più tardi con la prima memoria «del 183», ovvero entro la seconda qualora l’esigenza sorga dalla prima o dalle domande ed eccezioni nuove introdotte in udienza;
(c) la contestazione deve avvenire al più tardi con la seconda memoria «del 183»;
(d) la contestazione deve avvenire al più tardi con la terza memoria «del 183»;
(e) la contestazione deve avvenire entro l'udienza di PC;
(f) la contestazione deve avvenire prima che il giudice emetta la sentenza e quindi anche con le memorie conclusionali.
Di queste sei ipotesi in dottrina ne sono state formulate cinque. Anticipo subito la mia opinione: la contestazione dei fatti allegati deve avvenire con la prima difesa utile, conformemente all'insegnamento della Cassazione che, in effetti, su un dato è sempre stata coerente e cioè sulla necessità che la contestazione sia tempestiva. Dubito fortemente che essa possa ritornare sui suoi passi visto che:
(a) la modifica dell’art. 115 non ha modificato i termini della questione, ma ha semplicemente positivizzato l'esistenza dell'onere di contestazione;
(b) le norme vanno interpretate alla luce della ragionevole durata del processo; una contestazione tardiva si riverbera o rischia di riverberarsi fatalmente sull'andamento e sulla regolare progressione del processo;
(c) il processo ha una struttura dialettica a catena che impone alle parti un continuo «botta e risposta»;
(d) non esiste alcun interesse meritevole di tutela tale da rendere possibile, sempre e comunque, la contestazione in un momento successivo del processo, salvi ovviamente i casi di rimessione in termini per fatti sopravvenuti o per mancanza di allegazione per errore scusabile.
Forse si potrebbe estendere questo limite alla prima memoria «del 183», ma di certo non oltre.
Perché non possiamo accettare le opinioni che ammettono la revoca dopo la prima memoria ex art. 183? Prendiamo ad esempio la tesi di chi sostiene che la contestazione possa validamente intervenire sino alla terza memoria «del 183». Questo comporta che, ad esempio, l'attore avrà l'onere di articolare sempre e comunque i propri mezzi istruttori nell'eventualità che la contestazione del convenuto sopraggiunga con la terza memoria (dopo, quindi la scadenza del termine per l’articolazione e la produzione della prova diretta). Detta soluzione – indubbiamente perfettamente logica e coerente laddove riconduce la contestazione al thema probandum - ci pare però in contrasto con l'esigenza superiore di semplificazione e di accelerazione.
Ancora meno condivisibile la tesi che vorrebbe possibile la contestazione anche dopo la terza memoria. Si è infatti affermato che non esistono limiti temporali all’onere di contestazione, fatto salvo il potere-dovere del giudice di rimettere nei termini la parte che ne faccia richiesta. Come dire che la contestazione può essere mossa anche in comparsa conclusionale, con l’effetto di far ritornare indietro il processo alla fase istruttoria. Si tratta, a mio parere, di una soluzione non accettabile e che viola gran parte dei principi sottesi al principio in esame. La ragione di questa soluzione si fonda sulla disciplina della contumacia che, altrimenti, sarebbe più vantaggiosa per la parte costituita. Certo, lascia perplessi il vantaggio indubbio del contumace sulla parte costituita ma non mi sembra un argomento tale da giustificare un esercizio ad libitum della contestazione.

Ma vi è anche un altro argomento: se siamo tutti d'accordo sul fatto che la contestazione deve essere specifica, il che significa che deve consistere nell'allegazione di circostanze di fatto contrarie, incompatibili rispetto ai fatti allegati dall’altra parte; se siamo d'accordo sul fatto che la prima memoria «del 183» rappresenta l'ultimo momento utile per allegare i fatti, salva l'eccezione per le repliche alle domande ed eccezioni nuove svolte in udienza, ovvero ai fatti nuovi correttamente introdotti con la prima memoria, se ne ricava che salvo casi eccezionali non si possono introdurre nuovi fatti dopo la prima memoria; pertanto non si vede perché la contestazione specifica possa intervenire addirittura dopo la terza memoria o peggio con le memorie conclusionali.
Io ritengo che alla prima udienza di trattazione il giudice debba sapere cosa è contestato e cosa non lo è, naturalmente con riferimento ai fatti già allegati.
Alla luce di quanto detto, sono quindi del parere che:
a) il convenuto ha l’onere di contestare i fatti allegati dall’attore con la comparsa di costituzione e risposta;
b) l’attore ha l’onere di contestare i fatti allegati dal convenuto alla prima udienza ovvero con la prima memoria ex art. 183;
c) nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, l'opponente ha l'onere di contestare nell'atto di citazione i fatti allegati dal ricorrente;
d) le parti hanno l’onere di contestare i fatti allegati in udienza con la prima memoria «del 183», ovvero entro il secondo termine;
e) i terzi intervenuti o chiamati hanno l’onere di contestare i fatti nella memoria di intervento.


§11.1 Gli effetti della contestazione tardiva
Definiti i tempi della contestazione resta da stabilire quali siano gli effetti di una contestazione tardiva, ovvero di una contestazione tardivamente specificata, dovendosi la contestazione generica, come più volte detto, equiparare alla mancata contestazione. A tal riguardo è possibile in astratto prospettare diverse soluzioni:
(a) la contestazione tardiva pone sempre nel nulla la precedente non contestazione;
(b) la contestazione tardiva rende il fatto incontrovertibilmente provato, con la conseguenza che non è necessario e possibile dimostrare un fatto contrario;
(c) la contestazione tardiva dispensa l'altra parte dall'onere della prova (se un onere aveva, altrimenti rileva quale comportamento sleale e come argomento di prova), ma non impedisce alla controparte di provare un fatto contrario o al giudice di ritenere inesistente quel fatto.
Ipotesi (a): affermare che la contestazione tardiva pone sempre nel nulla la non contestazione significa dire che non esiste un termine per contestare e questa ipotesi è già stata scartata per i motivi che abbiamo già spiegato.
Ipotesi (b): è quella che condivido meno ed è quella della assimilazione alla prova legale. A mio parere sia la contestazione tardiva, sia la contestazione generica, sia l'omessa contestazione non vincolano mai il giudice e dunque siamo al di fuori dal campo delle prove legali. Nulla autorizza a sostenere che con la modifica dell'art. 115 c.p.c. sia stata introdotta una prova legale, anzi risulta una piena equivalenza tra prove e non contestazione, fermo il libero convincimento del giudice. Come è stato già ricordato, la non contestazione è una presunzione di verità che può e deve essere confrontata con tutto il materiale probatorio acquisito nel processo. Né possono trarsi argomenti dalle parole della S.C. la quale, è vero, in molte circostanze è andata un po' oltre, parlando di «effetti vincolanti» per il giudice ma non mi risulta che lo abbia fatto stabilendo il maggior valore della non contestazione rispetto ad altre prove contrarie. Anzi, talora ha stabilito il diverso principio secondo cui il giudice è sempre libero di accertare ex officio l'esistenza o l'inesistenza di un fatto, pur a fronte del comportamento non contestativo della parte. In altra circostanza, ancora, la S.C. ha addirittura ritenuto tamquam non esset la non contestazione solo perchè la parte che avrebbe potuto beneficiarne aveva comunque chiesto di procedersi con la prova.
Dunque, chi voglia fondare il proprio assunto sulle parole della Cassazione trova un terreno tutt'altro che solido.
Ipotesi (c): a mio avviso la soluzione corretta è la terza ipotesi, ma occorre una precisazione. Ritengo, cioè, che la contestazione intempestiva aziona il meccanismo della relevatio ab onere probandi, con la conseguenza che l'attore, a fronte della non contestazione da parte del convenuto con la prima difesa utile dei fatti costitutivi o degli elementi della fattispecie costitutiva, sia dispensato dall'onere della prova.
Pertanto dopo la comparsa di costituzione e fino alla prima memoria «del 183» non parliamo di irrevocabilità della non contestazione, bensì di irreversibilità degli effetti della non contestazione. Ritengo cioè che nel momento in cui il convenuto non contesta o contesta genericamente i fatti allegati dall’attore con la prima difesa utile, il meccanismo della relevatio ab onere probandi si è definitivamente realizzato e l’attore non avrà più l’onere di provare i fatti non contestati, fermo restando che il convenuto potrà dimostrare un fatto contrario, purché lo alleghi entro la prima memoria «del 183». Dopo la prima memoria «del 183» il fatto è invece da ritenere definitivamente non contestato, per cui è possibile parlare di irrevocabilità della non contestazione.
Facciamo un esempio.
L’attore invoca una responsabilità extracontrattuale, dunque ha l’onere di provare:
- che si è verificato un certo fatto;
- che questo fatto è opera del convenuto;
- che nel compiere o nel non aver impedito quel fatto, al convenuto va mosso un rimprovero (almeno) a titolo di colpa;
- che quel fatto ha prodotto un danno risarcibile.
L’attore ad esempio sostiene che la mancata manutenzione della strada ha generato un pericolo occulto (buca), a causa della quale è caduto e ha riportato danni. Il convenuto nella comparsa di costituzione e risposta contesta genericamente la domanda, affermando che l’onere della prova spetta all’attore. Nella prima memoria ex art. 183 il convenuto afferma per la prima volta che la buca era talmente piccola che non può aver provocato la caduta e che comunque l’attore è in realtà caduto due metri prima. Seguendo il ragionamento della Cassazione dovremmo dire che ormai quel fatto è stato espunto dal thema probandum. Tuttavia, entro il termine per la fissazione del thema decidendum il convenuto ha affermato due circostanze specifiche: l’inidoneità causale (la buca è piccola) e l’inesistenza causale (l’attore è caduto prima).
Quid juris? Possiamo ammettere il convenuto a provare quei fatti? A mio avviso la risposta è affermativa. Va rimarcato il fatto che la novella non ha in nessun modo inciso sul meccanismo di definizione del thema decidendum e probandum delineato dal codice nell’art. 183, dunque appare azzardato sostenere che in caso di non contestazione tempestiva o di contestazione generica sarebbe sempre preclusa la possibilità di allegazione e prova contraria.
Ciò significa anche che il giudice non può negare la concessione del triplo termine solo perché il convenuto non ha contestato il fatto o lo ha contestato genericamente, potendo allegare e dimostrare circostanze diverse con le memorie di cui al sesto comma. Difatti, il potere del giudice di ritenere raggiunta la prova di un fatto e di rigettare quindi le richieste di prova, non arriva al punto di poter impedire alla parte di allegare e provare un fatto. Questo non toglie, però, che il giudice possa rigettare le richieste di prova contraria, ma ciò è un effetto che deriva dal discutibile orientamento della Suprema corte secondo cui il giudice, una volta che ha maturato il convincimento circa la prova del fatto, non è obbligato a permettere l’assunzione o l’acquisizione di prove di segno contrario. Si tratta, a mio modo di vedere, di un orientamento incompatibile con l’art. 111 della Costituzione, in quanto in stridente contrasto con i canoni del giusto processo e con l’art. 24 della Cost.


§11.2 Gli effetti della non contestazione, della contestazione generica e della contestazione tardiva in caso di contrasto con il risultato dell'attività istruttoria
Ho già anticipato la mia opinione in proposito: qualora la parte non abbia contestato tout court per tutto il corso del giudizio, ovvero abbia contestato solo genericamente, detto comportamento può essere valutato dal giudice alla stregua delle altre prove. Non si hanno dunque effetti vincolanti.
Vediamo allora come si deve comportare il giudice allorquando nel corso dell’istruttoria emerga un fatto contrario rispetto a quello non contestato o contestato genericamente.
Le ipotesi possibili sono queste: (a) prevale sempre il risultato della prova acquisita; (b) prevale sempre la non contestazione, salvo che la prova contraria derivi da prova legale; (c) il giudice è libero di valutare tutto il materiale raccolto, compreso l'atteggiamento non contestativo, secondo il suo prudente apprezzamento.
La soluzione (a), prevalenza della prova assunta o prodotta, comporterebbe una degradazione della non contestazione rispetto alle altre prove liberamente valutabili. La soluzione (b) finirebbe per attribuire carattere di prova legale alla non contestazione.
In realtà dall’esame dell’art. 115 risulta una perfetta parificazione tra prove proposte dalle parti e fatti non contestati. Pertanto, il giudice dovrà valutare caso per caso, secondo il suo prudente apprezzamento ai sensi dell’art. 116, primo comma.
Potrà certamente accadere che il giudice ritenga prevalenti degli indizi sulla non contestazione. Immaginiamo che il convenuto non contesti la dinamica del sinistro descritta dall’attore, il quale sostiene che stava procedendo a velocità moderata prima dell’impatto. Supponiamo, però, che all'esito dell'attività istruttoria risultino tracce di frenata del veicolo attoreo per 50 metri: il giudice dovrà davvero prescindere da questo dato contrario alla versione fornita, solo perché il convenuto non ha contestato la velocità tenuta dall’attore o l’ha contestata genericamente? Ritengo certamente di no. O ancora. Il medico convenuto contesta genericamente l’esistenza di un nesso di causalità tra evento dannoso ed evento lesivo lamentato dal paziente; disposta la consulenza medico-legale, il CTU accerta che effettivamente le lesioni denunciate dall’attore non sono causalmente riconducibili al fatto posto in essere dal medico convenuto. Mi pare evidente che debbano prevalere le risultanze della CTU ad onta della contestazione generica del medico.


§12. La contestazione in appello
Allorquando iniziai a condurre le prime riflessioni sull’onere di contestazione, ritenni un falso problema la questione della revoca in appello, atteso che l'oggetto del giudizio d'appello non è la controversia di primo grado, bensì la sentenza impugnata. L'appello, infatti, non introduce un novum judicium bensì si sostanzia in una revisio prioris istantiae che impone all'appellante di muovere specifiche censure alla sentenza appellata. Pertanto, una volta emessa la sentenza, l'esistenza o l'inesistenza del fatto è accertata dal provvedimento giudiziale ed è contro quell'accertamento che l'appellante deve rivolgere le proprie specifiche censure. La circostanza che l'appellante contesti per la prima volta in appello i fatti allegati in primo grado è del tutto irrilevante; oltretutto l'introduzione in appello di nuovi fatti deve considerarsi inammissibile.
Non avevo però riflettuto su un aspetto diverso e cioè quello relativo all’allegazione nel secondo grado di nuovi fatti integranti eccezioni in senso lato. Si pensi ad esempio alla parte che, rimasta contumace in primo grado, alleghi per la prima volta in appello di avere estinto l’obbligazione mediante pagamento e l’altra parte non contesti detta circostanza. Quid juris? Ebbene, la S.C. (sent. 23142/2009) ha recentemente affrontato questo caso stabilendo il principio secondo cui anche in appello si applica il principio di non contestazione. Ecco le motivazioni:
- non è necessaria l’ulteriore prova dei fatti allegati da una parte a sostegno di una domanda, di una eccezione o di una difesa, che non siano stati adeguatamente e tempestivamente contestati dalla controparte, secondo le regole della scansione delle attività difensive dettate per i vari modelli processuali disciplinati dal codice di rito (cfr. Cass. S.U. n. 761/2002; Cass. 11107/2007, 12231/2007, 27596/2008);
- il principio di non contestazione è applicabile anche in appello, sia perché ne è stata rilevata dalla giurisprudenza una valenza generale nel processo (cfr. Cass. n. 12636/2005), sia, più specificamente, perché ragioni analoghe a quelle alla base dell’onere di contestazione operante nella fase introduttiva del giudizio di primo grado sono rilevanti anche nella fase introduttiva del giudizio di appello.
- In quest’ultimo, ferma la non modificabilità della domanda, vi può essere l’esigenza delle parti di fare nuovamente il punto sui fatti rilevanti ai fini della decisione della causa, continuano ad operare i principi sulla valorizzazione della leale cooperazione delle parti, e il giudice può essere chiamato a valutazioni anche discrezionali circa l’ammissione di nuove prove (tanto più nel rito del lavoro, in cui le prove sono ammissibili anche d’ufficio), sicché la previa trasparente presa di posizione delle parti sui fatti dedotti è funzionale all’operatività del principio di economia processuale e può rilevare anche ai fini delle valutazioni che il giudice deve adottare.
- D’altra parte, l’allegazione di pagamenti non può ritenersi preclusa in appello, poiché essa non comporta l’introduzione nel giudizio di domande o eccezioni in senso stretto nuove, né una loro modifica, ma si riferisce a un fatto estintivo operante di diritto e rilevabile anche d’ufficio (eccezione in senso lato).
Il ragionamento è persuasivo ed ha una sua coerenza, ma si pone in contrasto con l’altro orientamento giurisprudenziale in base al quale il potere di rilevazione della eccezione in senso lato presuppone che la parte abbia tempestivamente allegato il fatto in giudizio. Il fatto, dunque, deve essere già «entrato» nel processo entro i termini di preclusione previsti per ciascun tipo di procedimento (nel rito del lavoro questo termine coincide con gli atti introduttivi; nel rito ordinario con la prima o con la seconda memoria ex art. 183, sesto comma, c.p.c., a seconda del tipo di eccezione). Alla luce di questa impostazione, pertanto, in appello non è possibile allegare nuovi fatti, ma solo sollecitare il giudice a rilevare gli effetti giuridici di un fatto già tempestivamente allegato in primo grado.

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