Le false attestazioni contenute in dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000 non possono considerarsi, per se stesse, false attestazioni contenute in un atto pubblico." /> Le false attestazioni contenute in dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000 non possono considerarsi, per se stesse, false attestazioni contenute in un atto pubblico.." /> Le false attestazioni contenute in dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000 non possono considerarsi, per se stesse, false attestazioni contenute in un atto pubblico." />
 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI PALERMO
GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
In persona del giudice Giuliano Castiglia;
nel procedimento indicato a margine del presente foglio;
a seguito di richiesta di emissione di decreto penale;
Pronuncia la seguente
SENTENZA
Nei confronti di M.K., ____________ -IMPUTATA-
Del reato di cui all'art. 76 D.P.R. 28.12.2000 n. 445, in relazione all'art. 483 c.p. perché, nella dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, presentata al Comune di Palermo Settore Servizi alle Imprese e Sportello Unico per le Attività Produttive, al fine dell'utilizzazione del posteggio n. 2 del mercato rionale denominato Viale (...) rilasciava dichiarazioni mendaci attestando, contrariamente al vero, di essere in regola con i pagamenti T. O.S.A.P..
In Palermo, il 23.03.2012

Motivazione

Il 19.11.2012 il Pubblico Ministero depositava richiesta di decreto penale di condanna alla pena di Euro 3.750,00 di multa nei confronti di M. K. per la commissione, in data 23.3.2012, del reato previsto e punito dal'art. 483 c.p., in ipotesi integrato dalla condotta di cui all'imputazione.
Ciò posto, in punto di fatto deve rilevarsi che, dall'esame del fascicolo trasmesso ai sensi dell'art. 459 comma 1 c.p.p. e, in particolare, dalla nota del Comune di Palermo prot. n. 392739/P del 24.5.2012 e dai relativi allegati, la condotta oggetto dell'imputazione (consistente nell'attestazione resa dall'imputato e nella falsità della medesima) risulta senz'altro dimostrata.

Tuttavia, per le ragioni che diranno di seguilo indicale, il Tribunale ritiene che detta condotta non integri il reato contestato all'imputata né alcun altra fattispecie penale, sicché deve essere pronunciata, ai sensi degli artt. 459 comma 3 e 129 comma 1 c.p.p., sentenza di proscioglimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

Epurata dagli elementi concreti, la condotta dell'imputata consiste nella falsa attestazione di un privato contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà resa ai sensi dell'art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Si tratta di verificare, allora, se la falsa attestazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio resa ai sensi del predetto articolo (o anche la falsa attestazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva di certificazione resa ai sensi dell'art. 46 dello stesso D.P.R. n. 445 del 2000) integra il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.).

Ritiene il Tribunale che, nonostante il consolidato contrario orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione, la condotta qui considerata, in sé esclusivamente considerata, non integra gli estremi del reato previsto e punito dall'art. 483 del codice penale.

Innanzi tutto, deve evidenziarsi come non sia condivisibile l'affermazione secondo cui "il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 76, comma 1, ... descrive direttamente la condotta penalmente rilevante come quella di "chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente testo unico, rimandando quindi, per la sanzionabilità di tale condotta, al codice penale ed alle leggi speciali in materia" (così, in motivazione, Cass. pen., 10 maggio 2006, n. 20570).
Stando all'assunto appena richiamato, il primo comma dell'art. 76 del D.P.R. n. 445 del 2000 delineerebbe autonomamente "la condotta penalmente rilevante", facendo rinvio al codice penale ed alle leggi speciali al solo fine dell'individuazione della sanzione applicabile.
Di contro, però, deve rilevarsi che l'art. 76, comma 1, del D.P.R. n. 445 del 2000 stabilisce che "chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal presente decreto è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia".
Non è chi non veda come tale disposizione contenga non un'autonoma norma incriminatrice bensì una norma di mero rinvio alle fattispecie incriminatrici previste dal codice penale e dalle leggi speciali.
In altri termini, premesso che la norma in commento ha una portata generale e non limitata alle dichiarazioni sostitutive, per quanto riguarda queste ultime il significato della disposizione non può che essere il seguente: le dichiarazioni mendaci rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000 costituiscono reato (solo) quando e alle condizioni alle quali sono previste come reato da specifiche disposizioni del codice penale o delle leggi speciali e, in tali casi, sono punite con le pene stabilite da tali disposizioni.

Se così non fosse, peraltro, il rinvio tout court al codice penale ed alle leggi speciali in materia sarebbe talmente generico che la norma non potrebbe sottrarsi ad una censura di illegittimità costituzionale per difetto di tassatività e sufficiente determinatezza della fattispecie, quantomeno con riferimento alla pena applicabile.
In questo senso si è recentemente espressa anche la Corte di cassazione (v. Cass. pen., Sez. V, 26 novembre 2009, n. 2978, nella quale, in motivazione, si legge: Occorre prendere le mosse dal testo dell'art. 76 T. U. n. 445 del 2000, citato nel capo di imputazione, norma che prevede che chiunque rilascia dichiarazioni mendaci, forma atti falsi o ne fa uso nei casi previsti dal testo unico, è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia. Al comma 3 dello stesso articolo è anche stabilito che le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 ... sono considerate come fatte a pubblico ufficiale. Discende dalle lettera della legge (...) che il rinvio, contenuto nel detto articolo del T. U. in materia di documentazione amministrativa, alle norme del codice penale non prevede una espressa delimitazione al solo trattamento sanzionatorio codicistico ma deve ritenersi formulato in maniera tale da richiedere all'interprete l'adattamento della fattispecie integrata dalla falsa dichiarazione in una delle ipotesi previste dalle norme del codice penale. Diversamente, il rinvio risulterebbe di difficilissima se non impossibile applicazione posto che le norme sulle falsità in atti sono numerose e non sarebbe chiaro ed oggettivo il criterio per la selezione del precetto contenente il trattamento sanzionatorio da applicare al caso concreto).

Ciò posto, affinché la falsa attestazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio possa essere ricondotta alla fattispecie delineata dall'art. 483 c.p., occorre che essa presenti gli elementi oggettivi previsti da tale articolo.
Orbene, l'art. 483 c.p., come è noto, punisce con la reclusione fino a due anni "chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità".
Sul piano oggettivo, dunque, per la sussistenza del reato previsto dall'art. 483 c.p. è necessario:
1) che il privato renda una falsa attestazione;
2) che tale attestazione sia resa ad un pubblico ufficiale;
3) che sia altresì resa in un atto pubblico;
4) che quest'ultimo sia destinato a provare la verità del fatto attestato.

Ora, al Tribunale pare innegabile che il requisito sub 3) non sia presente nel caso di dichiarazione falsa contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio.
Invero, cha la dichiarazione sostituiva di atto notorio sia un atto pubblico e che, pertanto, la falsa attestazione in essa contenuta possa ritenersi "in un atto pubblico", non risulta mai apertamente affermato neppure dalla Corte di cassazione.
Più volte la Corte ha fatto riferimento al "valore pubblicistico dell'atto risultante dalla presentazione della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà" (così anche nella sentenza n. 2978 del 2009, sopra richiamata) ma neppure in questi casi risulta affermato, apertis verbis, che tale "valore pubblicistico" fa della dichiarazione in questione un atto pubblico.
D'altra parte, gli elementi dai quali discenderebbe detto valore - ossia, come si legge nella stessa sentenza del 2009, "la natura del soggetto ricevente (pubblico ufficiale)" e l'esistenza "di una specifica previsione normativa che conferisca valore de veritate all'attestazione del privato resa al medesimo pubblico ufficiale" - non sono affatto sufficienti, come le osservazioni che seguono chiariranno meglio, a fare dell'atto che ne sia contrassegnato un "atto pubblico".
In passato, peraltro, la stessa giurisprudenza di legittimità non ha mancato di rilevare come quelle in questione siano "dichiarazioni rese bensì a un pubblico ufficiale, ma non in un atto pubblico" (Cass. pen., 24 febbraio 1983, n. 4135).
Ciò non ha impedito, tuttavia, di ritenere applicabile l'art. 483 c.p. nelle ipotesi di dichiarazioni sostitutive contenenti false attestazione.
Tale conclusione ha trovato giustificazione ora ritenendo che la dichiarazione "diviene atto pubblico per il solo fatto della sottoscrizione autenticata dal funzionario preposto a ricevere l'atto" (da ultimo, in tal senso, Cass. pen., 11 luglio 2005, n. 35163), ora considerando che essa è comunque destinata ad essere trasfusa o riprodotta in un atto pubblico (in tal senso, di recente, Cass. pen., 9 maggio 2006, n. 22888; nello stesso senso anche Cass. pen., 24 febbraio 1983, n. 4135, sopra richiamata).
Le soluzioni indicate dalla Corte di legittimità, tuttavia, non appaiono condivisibili in quanto, nella sostanza, finiscono con l'affermare la sussistenza del reato di falsità ideologica del privato in atto pubblico anche quando non risulta integrato uno degli elementi oggettivi della fattispecie.

Come si è visto, infatti, l'art. 483 c.p. esige espressamente che l'attestazione (falsa) del privato sia fatta "in un atto pubblico", sicché per stabilire quando tale elemento ricorre è necessario interrogarsi su come debba essere intesa l'espressione "atto pubblico" contenuta in detto articolo.
Come è noto, nella definizione delle fattispecie penali il legislatore può servirsi di elementi descrittivi o di elementi normativi.
Pertanto, delle due l'una: o la locuzione "atto pubblico" inserita nell'art. 483 c.p. è un elemento descrittivo della fattispecie ovvero è un elemento normativo della medesima.
Al riguardo, non pare possano esserci dubbi nell'affermare che la nozione di atto pubblico non è indicativa di una realtà dell'esperienza sensibile.
Conseguentemente, deve escludersi che essa possa essere ritenuta elemento descrittivo e deve convenirsi sul fatto che la medesima rappresenta un elemento normativo (giuridico) della fattispecie.
Se è così, la nozione di atto pubblico, agli effetti di cui all'art. 483 c.p., non può che essere individuata attraverso il riferimento alle norme che definiscono detta nozione e ne regolano la portata, ossia, precisamente, agli artt. 2699 e 2700 del codice civile.
In tal senso, del resto, è significativo ricordare quanto affermato dalle Sezioni unite nella sentenza del 15 dicembre 1999, n. 28, nella cui motivazione si legge che con l'art. 483 c.p. "è stata rafforzata la tutela probatoria accordata all'atto di natura pubblica dall'art. 2700 c.c. e si è voluto garantire il bene giuridico della pubblica fede documentale riconosciuta agli atti pubblici".
In proposito, peraltro, giova rilevare che non sembra riferibile all'art. 483 c.p. l'ampia produzione giurisprudenziale - formatasi principalmente con riferimento agli artt. 476 e 479 c.p. - secondo la quale, in tema di falsità in atti, il concetto di atto pubblico sarebbe più ampio di quello desumibile dagli artt. 2699 e 2700 cod. civ. e comprenderebbe qualsiasi documento formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni.
Gli artt. 476 e 479, infatti, non contengono - se non nella rubrica, che, come è noto, è estranea al precetto - un riferimento al concetto di atto pubblico ma semplicemente all'atto formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni che, come è evidente, è nozione ben più ampia di quella delineata dagli artt. 2699 e 2700 del codice civile.
Diversamente, l'art. 483 c.p. fa espresso riferimento al concetto di atto pubblico e, ai fini della punibilità dell'agente, esige espressamente che la falsa attestazione del privato sia resa, appunto, "in un atto pubblico".
Orbene, è del tutto evidente che, in questa prospettiva, l'attestazione fatta dal privato in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (o di certificazione) non può essere considerata un'attestazione fatta "in un atto pubblico" e non può integrare, pertanto, il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.

Del resto, anche a volere accedere alla più ampia nozione di atto pubblico elaborata dalla giurisprudenza con riferimento agli artt. 476 e 479 c.p., intendendo cioè per atto pubblico, come si è visto, ogni documento formato da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, la falsa attestazione del privato contenuta in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio (o di certificazione) non potrebbe comunque ritenersi contenuta "in un atto pubblico".
Infatti, ancorché resa nell'ambito di un procedimento amministrativo, la dichiarazione sostitutiva di un atto notorio (o di una certificazione) è formata dal privato e non dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, il quale, semmai, rappresenta il mero destinatario della stessa.
Né il requisito dell'attestazione "in un atto pubblico" richiesto dall'art. 483 c.p., come osservato dalla più attenta giurisprudenza di merito (Trib. Camerino, 8 ottobre 2004, in Riv. pen. 2005, 326), può ritenersi soddisfatto dall'equiparazione tra dichiarazione sostitutiva e dichiarazione resa a pubblico ufficiale operata dal comma 3 dell'art. 76 del D.P.R. n. 445 del 2000.
Infatti, dal tenore letterale dell'art. 483 c.p. risulta inequivocabilmente che, da un lato, l'essere l'attestazione fatta "al pubblico ufficiale" e, dall'altro, l'essere la medesima fatta "in un atto pubblico" costituiscono due distinti elementi che devono concorrere affinché la fattispecie possa ritenersi integrata.
Del resto, che si tratti di due dati diversi e che l'attestazione contenuta "in un atto pubblico" rappresenti un quidpluris rispetto all'essere semplicemente fatta "ad un pubblico ufficiale", è reso palese dal confronto tra i reati di cui agli artt. 495 e 496 c.p., nella formulazione antecedente alle modifiche apportate ad essi apportate con il decreto legge n. 92 del 2008 (conv., con modif., nella legge n. 125 del 2008): entrambi presentavano, come elemento costitutivo, una dichiarazione resa al pubblico ufficiale ma il secondo, a differenza del primo, non richiedeva anche che la dichiarazione fosse resa in un atto pubblico.
Dunque, il rilievo che, agli effetti penali, ai sensi dell'art. 76 comma 3 del D.P.R. n. 445 del 2000, le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 (dichiarazioni sostitutive di certificazioni) e 47 (dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà) del predetto decreto si considerano rese "al pubblico ufficiale", non è in alcun modo sufficiente per considerare tali dichiarazioni rese "in un atto pubblico".
Per di più, l'impossibilità di assimilare l'attestazione contenuta in una dichiarazione sostitutiva resa nell'ambito di un procedimento amministrativo all'attestazione contenuta in un atto pubblico, è dimostrata dal fatto che, in passato, allorquando le dichiarazioni in questione erano soggette all'autenticazione della firma da parte di pubblico ufficiale, parte della giurisprudenza, come si è già detto, giustificava l'applicazione dell'art. 483 c.p. affermando che la dichiarazione sostitutiva "diviene atto pubblico per il solo fatto della sottoscrizione autenticata dal funzionario preposto a ricevere l'atto" (v. Cass. pen., V, 11 luglio 2005, n. 35163).
Orbene, ammessa e non concessa la validità di tale argomento, oggi esso non è comunque spendibile, atteso che per le dichiarazioni sostitutive la legge non richiede più l'autenticazione della sottoscrizione.

Né è dato comprendere, in quest'ottica, l'idea secondo cui nulla sarebbe sostanzialmente mutato a seguito dell'abrogazione della legge 4 gennaio 1968, n. 15, attuata dall'art. 77 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, in seguito alla quale la sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva di atto notorio non deve più essere autenticata dal pubblico ufficiale, in quanto "quel che rileva, ai fini della sussistenza del delitto in questione, è la destinazione e lo scopo della falsa dichiarazione del privato e gli effetti di essa sul piano giuridico" (così, tra le altre, Cass. pen., 24 gennaio 2003, n. 9527).
Infatti, senza soffermarsi sulla fallacia dei riferimenti alla "destinazione", allo "scopo" e agli "effetti" della (falsa) dichiarazione - cosa che esula dalle esigenze proprie del presente provvedimento-, è sufficiente osservare che l'affermazione della Cassazione da ultimo riportata potrebbe valere per ritenere sussistente il requisito della destinazione dell'atto alla prova della verità del fatto attestato ma non certo per ritenere che la dichiarazione sia resa "in un atto pubblico".

In altri termini, quel che rileva, sotto il profilo ora considerato, è che per l'integrazione del reato punito dall'art. 483 c.p. è necessario che la falsa attestazione alla quale esso fa riferimento sia contenuta in un atto pubblico. Rispetto a tale elemento oggettivo e formale, i profili funzionali concernenti la "destinazione", lo "scopo" e gli "effetti" dell'attestazione sono del tutto irrilevanti.
D'altra parte, neppure può valere, al fine de quo, l'argomento - non di rado impiegato dalla giurisprudenza (in tal senso, di recente, v. Cass. pen., I, 9 maggio 2006, n. 22888) -, della destinazione della dichiarazione ad essere "trasfusa" in un atto pubblico: una cosa, infatti, è che la dichiarazione sia resa in un alto pubblico; altra cosa, ben diversa, è che essa sia destinata ad essere trasfusa in un atto pubblico.
Ciò è tanto vero che, allorché il legislatore ha inteso punire anche questa seconda tipologia di dichiarazioni, ossia ha inteso assimilare alla dichiarazione resa in un atto pubblico la dichiarazione destinata ad essere trasfusa in un atto di tal genere, lo ha espressamente stabilito.
Così, ad esempio, l'art. 495 c.p., nella versione antecedente alle modifiche apportate con decreto legge n. 92 del 2008 (conv., con modif., nella legge n. 125 del 2008), dopo avere previsto al comma 1 come reato la condotta di "chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, l'identità o lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona", al comma 2 equiparava espressamente a tale condotta quella di "chi commette il fatto in una dichiarazione destinata a essere riprodotta in un atto pubblico".
Deve affermarsi, pertanto, che in mancanza di una siffatta equiparazione, la dichiarazione destinata ad essere riprodotta in un atto pubblico non può essere assimilata, ai fini della identificazione di un fatto come reato, alla dichiarazione resa in un atto pubblico.
Orbene, come si è visto, l'art. 483 c.p. fa riferimento esclusivamente alla falsa attestazione fatta "in un atto pubblico" e, in mancanza di espressa equiparazione a tale ipotesi di quella costituita dalla dichiarazione destinata ad essere riprodotta in un atto pubblico, tale ultima fattispecie non può essere ricondotta alla previsione del suddetto articolo, pena l'evidente violazione del principio di stretta legalità, cardine essenziale dell'ordinamento penale.
Dunque, le false attestazioni contenute in dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445 del 2000 non possono considerarsi, per se stesse, false attestazioni contenute in un atto pubblico.
Conseguentemente, esse non possono integrare il reato di cui all'art. 483 c.p. e la punizione di esse con la pena prevista da tale articolo sarebbe evidentemente contraria al principio penalistico di stretta legalità e si risolverebbe, al limite, in una non consentita applicazione analogica della legge penale (artt. 25 comma 2 Cost., 7 C.e.d.u,, 1 c.p. e 14 disposizioni sulla legge in generale).

Venendo al caso di specie, alla stregua di quanto precede deve affermarsi che la falsa attestazione contenuta nella dichiarazione sostitutiva resa dall'imputata non integra il reato di cui all'art. 483 c.p. di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico.
Deve escludersi, inoltre, che essa integri il reato di cui all'art. 495 c.p. perché non attiene alla identità, allo stato o ad altre qualità del dichiarante o di altre persone bensì semplicemente ad un fatto, quale è l'essere o meno in regola coni il pagamento di un'imposta; per lo stesso motivo deve altresì escludersi che la condotta dell'imputata integri il reato di cui all'art. 496 del codice penale; deve escludersi, infine, che il fatto integri il reato di cui all'art. 485 c.p. - per il quale, peraltro, mancherebbe la richiesta condizione di procedibilità - considerato che le falsità cui fa riferimento tale ultimo articolo sono, per incontrastata opinione, di carattere materiale e non, come quella per cui è processo, ideologico.
Nei confronti dell'imputata, pertanto, deve essere pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.

PQM

Visti gli artt. 483 c.p., 47 e 76 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, nonché 459, comma 3, e 129, comma 1, c.p.p., assolve M. K. dall'imputazione a lei ascritta perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Così deciso in Palermo, il 20 febbraio 2014.
Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014.


 

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