REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. RORDORF Renato - Presidente -
Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Consigliere -
Dott. MERCOLINO Guido - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
P.S.M., elettivamente domiciliato in Roma, al viale delle Milizie n. 1, presso l'avv. CIROTTI VITTORIO, unitamente all'avv. GAETANO MARTELLUCCI, dal quale è rappresentato e difeso in virtù di procura speciale a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO DELL'AMMINISTRAZIONE CONDOMINI S.R.L.;
- intimato -
avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 5321/05, pubblicata il 7 dicembre 2005;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 dicembre 2013 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;
udito l'avv. Dell'Orso per delega del difensore del ricorrente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. - Il curatore del fallimento dell'Amministrazione Condomini S.r.l. convenne in giudizio i soci P.S.M. ed S. A., chiedendo la condanna di entrambi al pagamento dell'importo di L. 25.662.499 e del solo P. al pagamento dell'importo di L. 34.032.555, oltre interessi e rivalutazione.
A fondamento della domanda, espose che la prima somma era stata versata ai convenuti, a titolo di fondo cassa della società, contestualmente all'acquisto delle loro quote da C.G. e C.V., avvenuto il ____, mentre la seconda, corrispondente ai saldi attivi giornalieri registrati dal 20 gennaio al 9 febbraio 1982 ed alla giacenza di cassa esistente all'atto dell'insediamento del P., era stata da quest'ultimo riscossa e non versata alla società.
Si costituirono i convenuti, i quali resistettero alla domanda, chiedendo in via riconvenzionale la restituzione di somme da loro versate al precedente amministratore della società ed ai soci C. e Ce.

1.1. - Con sentenza del 17 luglio 2001, il Tribunale di Viterbo accolse la domanda principale e rigettò quella riconvenzionale.
2. - L'impugnazione proposta dal P. è stata rigettata con sentenza parziale del 7 dicembre 2005, con cui la Corte d'Appello di Roma ha disposto la separazione di quella proposta dalla S., in ordine alla quale ha provveduto per la prosecuzione del giudizio.
Premesso che ai fini del recupero delle somme indebitamente percepite dai convenuti il curatore aveva esercitato le azioni di cui agli artt. 2392 e 2393 c.c., ed alla L. Fall., art. 146, la Corte ha osservato che lo stesso P. aveva ammesso di aver svolto funzioni di amministratore di fatto della società, ed ha ritenuto irrilevante, ai fini dell'accertamento della responsabilità, la circostanza che il convenuto avesse acquistato le quote sociali da terzi e le avesse rivendute ad altri, trattandosi di una vicenda riguardante esclusivamente i rapporti negoziali tra acquirenti delle quote ed inidonea a determinare la liberazione dalle obbligazioni derivanti dall'attività gestoria. Ha inoltre rilevato che il P. non aveva smentito i fatti addebitatigli, i quali emergevano con chiarezza dagli accertamenti compiuti dai periti in sede sia penale che civile, aggiungendo che non era stato fornito alcun elemento in ordine all'avvenuto impiego delle somme percepite nell'interesse della società.
3. - Avverso la predetta sentenza il P. propone ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. Il curatore del fallimento non ha svolto attività difensiva.

Motivazione

1. - Con il primo motivo d'impugnazione, il ricorrente denuncia l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto ammesso che egli aveva svolto funzioni di amministratore della società, aveva ricevuto il fondo cassa e si era appropriato delle somme riscosse. Afferma infatti di aver sostenuto che le funzioni di amministratore erano state sempre svolte dal C., nei confronti del quale soltanto egli avrebbe dunque dovuto rispondere, in caso di appropriazione delle predette somme, in quanto la riscossione delle stesse non risultava sufficiente ai fini dell'assunzione della veste di amministratore, mancando un formale atto d'investitura ed avendo la società mantenuto i suoi organi ordinari. Premesso inoltre che la sentenza impugnata ha omesso di verificare la sussistenza dell'autorizzazione all'esercizio dell'azione di responsabilità, non risultante dai documenti prodotti, osserva che, ai fini dell'accertamento in ordine all'avvenuto trasferimento del fondo cassa, la Corte di merito si è limitata a dare atto dell'emissione di un assegno a firma del C. e del Ce. in favore di esso ricorrente, senza tener conto della mancanza di ricevute, della non riferibilità dell'assegno alla società e dell'intestazione dello stesso anche alla S.
La sentenza impugnata ha fatto altresì rientrare tra le attività finanziarie della società, trasmesse ad esso ricorrente, anche la somma di L. 1.000.000, in mancanza di qualsiasi supporto probatorio, e, nell'accertare l'avvenuta riscossione di somme da parte di esso ricorrente, ha fatto riferimento esclusivamente alla relazione del c.t.u. nominato nel corso del giudizio, che richiamava a sua volta la relazione depositata in sede penale dal Dott. L., senza considerare che quest'ultimo era stato successivamente nominato curatore del fallimento e che il procedimento penale si era concluso con il proscioglimento di tutti gl'imputati in istruttoria.
2. - Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2393 e 2949 c.c., sostenendo che la Corte d'Appello ha omesso di esaminare o comunque rigettato tacitamente l'eccezione di prescrizione dell'azione di responsabilità, sollevata da esso ricorrente nella comparsa conclusionale, in considerazione del tempo trascorso tra la cessazione dalla carica di amministratore (9 febbraio 1982) e la proposizione della domanda (14 dicembre 1992).
3. - Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2383, 2384, 2385, 2393, 2475 e 2487 c.c., osservando che, nell'affermare che egli aveva svolto le funzioni di amministratore dal 20 gennaio al 9 febbraio 1982 ed aveva prelevato quotidianamente il saldo di cassa, la Corte di merito ha omesso d'indicare la fonte del proprio convincimento. Essa ha desunto lo svolgimento di fatto delle funzioni di amministratore dalle quietanze da lui rilasciate per la riscossione di quote condominiali, senza considerare che l'amministrazione di fatto postula l'esercizio diretto di tutti i poteri propri dell'amministratore o un'ingerenza sistematica nella direzione dell'impresa sociale, attraverso il compimento di attività gestorie a carattere continuativo e protratte nel tempo.
4. - Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione degli artt. 61, 100, 116 e 191 c.p.c., e degli artt. 1992 e 2472 c.c., affermando che, nel ritenere provato il trasferimento del fondo cassa e delle altre attività, la Corte di merito ha fondato il proprio giudizio esclusivamente sulla relazione del c.t.u., il quale si era limitato a riportare gli accertamenti compiuti dal perito nominato nel procedimento penale, senza visionare la necessaria documentazione. Nel desumere il predetto trasferimento da un assegno a firma del C. e del Ce., essa non ha considerato che il titolo era stato tratto su un conto corrente non intestato alla società, la quale doveva pertanto considerarsi estranea al rapporto negoziale intercorso con i traenti.

5. - Prioritario, rispetto all'esame di ogni altra questione, è quello della censura riguardante il difetto di legittimazione del curatore, proposta con il primo motivo d'impugnazione, il cui accoglimento comporterebbe la dichiarazione d'inammissibilità della domanda. Sostiene il ricorrente che, nel riconoscere la legittimazione del curatore all'esercizio dell'azione di responsabilità, la Corte di merito ha omesso di rilevare d'ufficio la genericità dell'autorizzazione rilasciata dal Giudice delegato, nella quale si faceva riferimento esclusivamente al recupero delle somme riscosse dai convenuti, senza alcuna menzione della predetta azione.
La censura è inammissibile, avendo ad oggetto una questione di fatto che non risulta trattata nella sentenza impugnata e che non può quindi trovare ingresso in questa sede, non avendo il ricorrente precisato in quale fase processuale ed in quale atto l'abbia precedentemente sollevata. L'autorizzazione a promuovere un'azione giudiziaria, conferita dal giudice delegato al curatore, si estende infatti, senza bisogno di specifica menzione, a tutte le possibili pretese ed istanze strumentalmente pertinenti al conseguimento dell'obiettivo del giudizio cui si riferisce; mentre la sua mancanza è rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio, trattandosi di un atto integrativo della capacità del curatore e quindi attinente alla sua legittimazione processuale, l'individuazione dei suoi eventuali limiti, in rapporto all'azione effettivamente esercitata, si risolve nell'interpretazione di un atto processuale, rimessa al giudice di merito e censurabile in cassazione soltanto per incongruenza o illogicità della motivazione (cfr. Cass., Sez. 1^, 13 maggio 2011, n. 10652; 5 novembre 2010, n. 22540; 11 gennaio 2005, n. 351). La proponibilità della relativa questione in sede di legittimità è pertanto subordinata alla deduzione della stessa nel giudizio di merito, nella specie rimasta indimostrata, non risultando che la legittimazione del curatore, riconosciuta dalla sentenza impugnata esclusivamente in riferimento alla titolarità dell'azione di cui agli artt. 2392 e 2393 c.c., fosse stata contestata anche sotto il profilo dei limiti previsti dall'autorizzazione.

6. - E' parimenti inammissibile la questione concernente la prescrizione dell'azione di responsabilità, proposta con il secondo motivo.
La precisazione del ricorrente, secondo cui la relativa eccezione è stata sollevata soltanto in comparsa conclusionale, è di per sè sufficiente, infatti a far escludere il dovere della Corte d'Appello di pronunciarsi in ordine alla prescrizione, avuto riguardo alla funzione meramente illustrativa del predetto atto, che, in quanto successivo alla chiusura dell'istruttoria, non consente la rituale proposizione o riproposizione di eccezioni non rilevabili d'ufficio (cfr. Cass., Sez. 3^, 14 marzo 2006, n. 5478; 5 agosto 2005, n. 16582; Cass., Sez. 1^, 16 luglio 2004, n. 13165). E' pertanto irrilevante la circostanza che nel presente giudizio, instaurato in epoca anteriore all'entrata in vigore della L. 26 novembre 1990, n. 353, trovi applicazione il testo previgente dell'art. 345 c.p.c., che al secondo comma ammetteva la proposizione di nuove eccezioni in grado d'appello: tale disposizione, così come quella dell'art. 346, doveva essere infatti letta in collegamento con quella dettata dall'art. 342 c.p.c., che, prescrivendo il requisito della specificità dei motivi di gravame, allo scopo di delimitare l'estensione del riesame ed indurre l'appellante ad indicarne le ragioni, poneva a carico dell'appellante l'onere di sollevare nell'atto d'appello le proprie eccezioni, la cui proposizione costituiva manifestazione del potere d'impugnazione (cfr. Cass., Sez. 3^, 17 luglio 2007, n. 15883; 10 aprile 2003, n. 5673; Cass., Sez. 3^, 14 dicembre 2005, n. 27574). La preclusione derivante dall'inadempimento del predetto onere esclude poi la proponibilità di tali eccezioni nel giudizio di legittimità, nel quale non possono essere dedotte questioni nuove che coinvolgano accertamenti di fatto (cfr. con specifico riferimento alla prescrizione, Cass., Sez. 1^, 26 marzo 2003, n. 4457; 14 dicembre 1993, n. 12304).

7. - Sono invece fondate le altre censure proposte dal ricorrente.
Benvero, ai fini dell'accertamento dell'obbligo del P. di restituire le somme da lui asseritamente sottratte, deve riconoscersi un rilievo piuttosto marginale alla mancata dimostrazione dell'avvenuto esercizio in via di fatto delle funzioni di amministratore della società. Il fatto costitutivo della pretesa restitutoria è infatti rappresentato dal mancato versamento nelle casse sociali della somma consegnatagli dai precedenti amministratori e di quelle quotidianamente percepite per conto della società nel periodo indicato, la cui appropriazione, pur configurandosi come inadempimento dei doveri previsti dall'art. 2392 c.c., se posta in essere da chi rivesta la qualità di amministratore, non è intrinsecamente collegata a tale posizione, con la conseguenza che la condanna alla restituzione non postula necessariamente la prova dell'assunzione anche di fatto delle funzioni gestorie, il cui esercizio costituisce il presupposto della sola azione di responsabilità contemplata dall'art. 2393 c.c. (cfr. Cass., Sez. 1^, 6 marzo 1999, n. 1925). Pertanto, indipendentemente dalla contestazione della qualificazione giuridica attribuita alla domanda dal curatore e dalla stessa sentenza impugnata, può prescindersi, nella specie, dal riferimento al principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui le norme che disciplinano la responsabilità degli amministratori delle società di capitali sono applicabili anche a coloro i quali, come amministratori di fatto, si siano ingeriti nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, a condizione che lo svolgimento delle funzioni gestorie non si sia esaurito nel compimento di atti di natura eterogenea ed occasionale, ma abbia avuto carattere di sistematicità e completezza, sì da condizionare le scelte operative dell'ente (cfr. Cass., Sez. 1^, 5 dicembre 2008, n. 28819; 12 marzo 2008, n. 6719; 14 settembre 1999, n. 9795).

7.1. - Tanto premesso, occorre tuttavia rilevare che, nell'accertamento dell'obbligo di restituzione dell'importo asseritamente ricevuto a titolo di trasferimento delle attività finanziarie, la sentenza impugnata è incorsa nella medesima incongruenza da essa ascritta alla difesa del ricorrente, avendo desunto l'appropriazione della predetta somma dalla mera consegna della stessa da parte dei precedenti amministratori, dei quali il P. aveva acquistato le quote di partecipazione alla società, senza indagare in ordine alla provenienza del denaro ed all'assunzione da parte del ricorrente dell'obbligo di riversarlo alla società, ed avendo in tal modo confuso tra il rapporto intercorrente con quest'ultima e quello negoziale inerente alla cessione delle quote. Essa, inoltre, ha ritenuto provata l'avvenuta trasmissione dell'importo detenuto dai precedenti amministratori a titolo di fondo cassa ed il prelievo dei saldi giornalieri di cassa della società sulla base di un generico riferimento agli accertamenti contabili compiuti nel procedimento penale e nel giudizio civile, omettendo di verificare a quale titolo fossero stati effettuati tali prelievi, e limitandosi a rilevare che non era stata fornita la dimostrazione dell'avvenuto reimpiego dei fondi prelevati nell'interesse della società. Ai fini dell'accertamento dei fatti, la sentenza impugnata ha ritenuto infine decisiva la mancata contestazione del ricorrente, astenendosi dal prendere i esame le censure da quest'ultimo specificamente formulate nell'atto di appello e riportate testualmente nel ricorso per cassazione, ed attribuendo una portata significativa alla condotta processuale dell'appellante, in assenza dei presupposti richiesti dalla legge; nei giudizi instaurati anteriormente all'entrata in vigore della L. n. 353 del 1990, non trova infatti applicazione il nuovo testo dell'art. 167 c.p.c., comma 1, che impone al convenuto di prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda; pertanto, affinchè il fatto allegato da una parte possa considerarsi pacifico, sì da poter fondare la decisione ancorchè non provato, non è sufficiente la mancata contestazione, occorrendo invece che la controparte ammetta il fatto esplicitamente o che imposti il sistema difensivo su circostanze e argomentazioni logicamente incompatibili con la sua negazione (cfr. Cass., Sez. 2^, 16 novembre 2012, n. 20211; Cass., Sez. 3^, 8 giugno 2004, n. 10815).
8. - Il ricorso va pertanto accolto parzialmente, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata, nei limiti segnati dai motivi accolti, e la causa va rinviata alla Corte d'Appello di Roma, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie parzialmente il primo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte d'Appello di Roma, anche per la liquidazione delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 4 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2014


 

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