REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRUNO Paolo Antonio - Presidente -
Dott. PEZZULLO Rosa - Consigliere -
Dott. MICHELI Paolo - Consigliere -
Dott. PISTORELLI Luca - rel. Consigliere -
Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.R.;
avverso la sentenza del 12/1/2012 del Tribunale di Forlì;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Luca Pistorelli;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. MAZZOTTA Gabriele che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito per la parte civile l'avv. Iuliano Francesco, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso;
udito per l'imputato l'avv. Antonio Salvatore, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 12 gennaio 2012 il Tribunale di Forlì, su appello della parte civile, in riforma della pronunzia di primo grado affermava la responsabilità di M.R. per il reato di diffamazione commesso nei confronti di F.R. mediante la spedizione al suo datore di lavoro di un fax contenente apprezzamenti lesivi della sua reputazione e la condannava al risarcimento del danno patito da quest'ultima.
2. Avverso la sentenza ricorre l'imputata a mezzo del proprio difensore articolando tre motivi. Con il primo deduce l'errata applicazione dell'art. 599 c.p., comma 2, rilevando come il Tribunale abbia escluso la sussistenza dell'esimente senza considerare che ai fini della sua configurabilità non sarebbe necessario che la provocazione integri gli estremi dell'illecito penale o civile, potendo invece consistere anche in un comportamento contrario alle regole della civile convivenza quale quello attribuito dall'imputata alla persona offesa. Con il secondo motivo la ricorrente lamenta vizi motivazionali della sentenza impugnata, la quale avrebbe sostanzialmente ignorato le dichiarazioni del teste V. (marito dell'imputata) dalle quali era emerso come la F. avesse tra l'altro invitato l'imputata, di origine meridionale, a recarsi in un altro negozio in "_____". Con il terzo ed ultimo motivo vengono svolte analoghe censure in merito all'entità del risarcimento, liquidato dal Tribunale anche in ragione della ritenuta sussistenza di un nesso eziologico tra la trasmissione del fax da parte dell'imputata e il successivo licenziamento della persona offesa di cui, invece, non vi sarebbe prova alcuna in atti.
3. Con memoria trasmessa via fax il 13 marzo 2014 il difensore della parte civile invoca il rigetto del ricorso, evidenziando come per la configurabilità dell'esimente della provocazione sia necessario che il fatto altrui risulti ingiusto secondo una valutazione oggettiva e non in forza di una mera percezione soggettiva dell'agente. Non di meno il rilevante lasso di tempo intercorso tra la presunta provocazione e l'incriminata reazione impedirebbe comunque la possibilità di riconoscere la suddetta esimente. Con riguardo alle doglianze attinenti la liquidazione del danno la memoria osserva come la transazione intervenuta tra la persona offesa e il datore di lavoro non interferisce con la determinazione del primo, attesa la diversità del titolo che ha giustificato le due diverse prestazioni patrimoniali. Nè per la parte civile potrebbe essere messo in dubbio il nesso eziologico esistente tra la condotta illecita contestata e il licenziamento patito dalla F.

Motivazione

1. Il ricorso è inammissibile.
2. Quanto ai primi due motivi deve osservarsi innanzi tutto che il comportamento provocatorio, anche quando non integrante gli estremi di un illecito codificato, deve comunque potersi ritenere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l'agente. Non è dunque sufficiente che questi si sia sentito provocato, ma è necessario che egli sia stato oggettivamente provocato. In tal senso l'attribuzione alla persona offesa di - per di più - generici atteggiamenti scortesi tenuti nei suoi confronti certamente non può costituire una valida piattaforma su cui fondare la valutazione della condotta dell'imputata in termini di reazione giustificabile ai sensi dell'art. 599 c.p., come correttamente ritenuto nella sentenza impugnata. Nè maggiore specificità aggiunge il richiamo operato dalla ricorrente alla presunta discriminazione territoriale che la F. avrebbe effettuato, atteso che sul punto il vizio denunciato è quello del travisamento della prova (per omessa considerazione della stessa), senza però che siano state rispettate le regole individuate da questa Corte per la deducibilità dello stesso. In proposito, infatti il ricorso si limita a riportare un brano delle dichiarazioni rese dal teste V., dimenticando che, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l'onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani, giacchè così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l'effettiva portata del vizio dedotto (Sez. 4 n. 37982 del 26 giugno 2008, Buzi, rv 241023; Sez. F., n. 32362 del 19 agosto 2010, Scuto ed altri, Rv. 248141).

3. Generico e manifestamente infondato risulta altresì il terzo motivo, atteso che la ricorrente non si è premurata di spiegare perchè l'intervenuta transazione tra la persona offesa e il suo datore di lavoro in merito all'eventuale ingiustizia del licenziamento operato da quest'ultimo dovrebbe assorbire in sè il danno causato dall'imputata. E' infatti evidente l'autonomia dei fatti illeciti in discussione, mentre la confutazione della ritenuta relazione causale tra reato e danno prospettato si risolve nella mera sollecitazione di questa Corte ad una inammissibile rivisitazione del compendio probatorio di riferimento ovvero nella contestazione generica e congetturale di alternative dinamiche che avrebbero portato all'adozione del provvedimento disciplinare.

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue ai sensi dell'art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende, nonchè alla refusione alla parte civile delle spese sostenute nel grado che si liquidano in complessivi Euro 2.000 più accessori come per legge.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende, nonchè alla refusione delle spese sostenute nel grado che si liquidano in complessivi Euro 2.000 oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 18 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2014


 

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