LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio - Presidente -
Dott. VENUTI Pietro - Consigliere -
Dott. FILABOZZI Antonio - rel. Consigliere -
Dott. BLASUTTO Daniela - Consigliere -
Dott. MANCINO Rossana - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24979/2007 proposto da:
M.E.;
- ricorrente -
contro
M.F.;
- controricorrente -
e contro
S.G., S.M.R. (quali eredi di M. A. e S.B.), M.G. D. P., D.E.(quali eredi di M.Er.);
- intimati -
avverso la sentenza n. 291/2006 della Corte d'Appello di Perugia, depositata il 28/09/2006 R.G.N. 452/2001;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/01/2013 dal Consigliere Dott. Antonio Filabozzi;
udito l'Avvocato Rizzo Carla;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte d'appello di Perugia, riformando parzialmente la sentenza impugnata, ha rigettato integralmente le domande di M.E. dirette ad ottenere il riconoscimento dei diritti derivanti dallo scioglimento della comunione tacita familiare che l'attore assumeva essere esistita tra lui, la madre C.S. e i fratelli M.G. e F. per il periodo dal 1940 al 1983, e così anche la domanda subordinata del M. tendente ad ottenere il riconoscimento del diritto al valore attuale della sua quota o alla restituzione di tutte le somme versate a favore della comunione, osservando, in sintesi, che per il periodo successivo al 1958, quando il M. aveva lasciato la casa comune per trasferirsi in altro Comune, si era verificata solo la gestione comune (tra la madre e i figli) di un'azienda agricola, nella quale non era ravvisabile l'esistenza di una comunione tacita familiare, mentre per il periodo precedente al 1958, oltre a non essere stata provata l'esistenza della comunione, doveva ritenersi che i crediti relativi allo stesso periodo di tempo fossero comunque prescritti per il decorso del termine decennale antecedente all'esercizio dell'azione giudiziaria.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.E. affidandosi a sei motivi di ricorso (anche se l'ultimo è rubricato come settimo) cui resiste con controricorso M.F.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivazione

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell'art. 230 bis c.c. anche in relazione all'abrogato art. 2140 c.c., nonchè vizio di motivazione, lamentando l'erroneità della sentenza impugnata per avere la Corte territoriale deciso la controversia sulla base di una norma (art. 2140 c.c.) non più in vigore al momento della proposizione della domanda, e chiedendo a questa Corte di stabilire se "l'abrogato art. 2140 c.c. è applicabile alle sole fattispecie interamente esauritesi sotto l'impero della disciplina precedente all'entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia" e se "a decorrere dall'entrata in vigore dell'art. 230 bis c.c. il giudice deve inquadrare la fattispecie nella disciplina di tale norma per tutta la durata del rapporto".
2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell'art. 2140 c.c., artt. 116 e 416 c.p.c., art. 111 Cost., nonchè vizio di motivazione, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che non fosse stata provata l'esistenza di una comunione tacita familiare sul rilievo della mancata prova dell'esistenza di un "comune peculio", nonostante che tale aspetto della vicenda non fosse mai stato oggetto di contestazione tra le parti, e chiedendo a questa Corte di stabilire "se ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l'altra abbia l'onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo onere probatorio"; "se il giudice possa trarre la prova dei fatti costitutivi o dei requisiti della domanda dal comportamento processuale o extraprocessuale delle parti"; "se l'applicazione di tali principi al caso di specie abbia esonerato il ricorrente dal provare l'esistenza degli elementi costitutivi della sua pretesa".
3.- Con il terzo motivo si denuncia il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata relativamente alla parte in cui la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse stata provata l'esistenza della comunione tacita familiare, incentrando la sua attenzione esclusivamente su uno degli elementi costitutivi di tale fattispecie (la formazione di un unico peculio).
4.- Con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 230 bis e 2140 c.c. in relazione agli usi vigenti nella Provincia di Terni, nonchè vizio di motivazione, relativamente alla parte in cui la Corte d'appello ha ritenuto che la comunione tacita familiare fosse cessata a far data dal 1958, epoca in cui M.E. aveva lasciato l'abitazione comune, nonostante che nella stessa sentenza fosse stato riconosciuto che l'attività comune era proseguita anche dopo il 1958, chiedendo a questa Corte di stabilire se "la comunione tacita familiare, rispetto ad un associato, si sciolga per effetto dell'allontanamento di questo dalla casa familiare, oppure richieda un atto formale di recesso ed una divisione del patrimonio vecchio e nuovo".
5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 230 bis e 2140 c.c. in relazione agli usi vigenti nella Provincia di Terni, nonchè vizio di motivazione, relativamente alla parte in cui la Corte d'appello ha negato l'esistenza di un diritto reale dell'attore su una quota dei beni immobili entrati a far parte della comunione tacita familiare, chiedendo a questa Corte di stabilire se "in tema di comunioni tacite familiari (qualora gli usi considerino che gli acquisti nomine proprio dei singoli partecipanti facciano parte della comunione), tali usi operino una lecita deroga all'art. 1350 c.c. estendendo così, ex lege, gli effetti dei separati atti d'acquisto agli altri partecipanti, indipendentemente dall'esistenza di una collaterale prova scritta della comunione da cui nasce la con titolarità".
6.- Con il sesto motivo si denuncia violazione degli artt. 230 bis e 2140 c.c. in relazione agli usi vigenti nella Provincia di Terni, degli artt. 2041, 2042 e 2944 c.c., nonchè vizio di motivazione, relativamente alla parte in cui la Corte territoriale ha affermato la prescrizione dei crediti vantati dal ricorrente per il periodo anteriore al 1958 e alla parte in cui ha rigettato la domanda diretta a far accertare l'arricchimento senza causa dei convenuti in relazione agli esborsi di denaro effettuati dal ricorrente nel corso del rapporto, chiedendo a questa Corte di stabilire se "in materia di comunione tacita familiare e di impresa familiare, ciascun partecipante abbia, prima dello scioglimento della comunione, solo una aspettativa di fatto e non un diritto soggettivo alla liquidazione della quota, per cui nessun termine prescrizionale possa iniziare a decorrere prima di tale momento"; "se il riconoscimento dell'altrui diritti abbia natura negoziale e carattere recettizio, ovvero richieda, al fine dell'interruzione della prescrizione, semplicemente una manifestazione di consapevolezza dell'esistenza del debito che non debba essere necessariamente diretta al titolare del diritto, ma posa essere rivolta anche ad un terzo o alla generalità"; "se l'organo giudicante, per stabilire quale è, al momento dello scioglimento della comunione, la quota di utili spettanti a ciascuno, debba tener conto non solo dell'apporto lavorativo di ciascuno, ma anche degli apporti di altro tipo"; "se, dopo la riforma del diritto di famiglia, il consociato può richiedere la restituzione di quanto pagato senza causa a favore della comunione ex artt. 2041 e 2042 c.c."; "se ciascun partecipante abbia, prima dello scioglimento della comunione, solo un aspettativa di fatto e non un diritto soggettivo alla restituzione delle somme corrisposte senza causa a favore della famiglia".

7.- Il primo motivo è infondato. Questa Corte ha già affermato che la disposizione dell'art. 230 bis c.c., u.c., che assoggetta la comunione tacita familiare nell'esercizio dell'agricoltura alla disciplina dell'impresa familiare ed agli usi con essa compatibili, non ha, in mancanza di espressa previsione, efficacia retroattiva, e non trova pertanto applicazione con riguardo ai rapporti di collaborazione familiare nell'ambito dell'agricoltura svoltasi in epoca anteriore all'entrata in vigore della disposizione stessa, con la conseguenza che detti rapporti ricadono nella disciplina dell'abrogato art. 2140 c.c., il quale li sottopone integralmente alla regolamentazione fissata dagli usi locali (Cass. n. 11500/92 Cass. n. 5195/85).
Nel caso di specie, la Corte territoriale, confermando sul punto la sentenza di primo grado, ha accertato che per il periodo successivo al 1958 doveva escludersi l'esistenza di una comunione tacita familiare, dato che l'allontanamento di M.E. dall'abitazione comune e l'inizio, da parte dell'appellante, di un'attività del tutto autonoma rispetto a quella gestita dal consorzio familiare, con il godimento esclusivo, da parte sua, dei relativi proventi economici, aveva fatto venire comunque meno i presupposti della comunione tacita familiare, anche ove l'esistenza di essi fosse stata riconosciuta per il periodo precedente.
Quanto al periodo anteriore al 1958, la Corte d'appello ha ritenuto corretta sia l'affermazione del Tribunale, secondo cui non vi era prova che in tale periodo si fosse instaurato tra le parti un rapporto di comunione tacita familiare, sia il rilievo che, in ogni caso, cessata la comunione nel 1958, i crediti dell'attore avrebbero dovuto considerarsi estinti per il decorso del termine prescrizionale.
Con tali statuizioni, che formano oggetto di censura, sotto altri profili, nei restanti motivi di gravame, la Corte territoriale non ha certo deciso la controversia sulla base di una norma (l'art. 2140 c.c.) che non era più in vigore al momento della proposizione della domanda e non è pertanto incorsa nelle violazioni denunciate con il primo motivo di ricorso.
Il primo motivo deve essere quindi rigettato.

8.- Il secondo motivo deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall'art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.
9.- Ai sensi dell'art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l'illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d'inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l'errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell'esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l'accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).
Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi o sia inconferente rispetto al decisum (Cass. n. 17064/2008, Cass. sez. unite n. 11650/2008), ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d'impugnazione; ovvero sia formulato in modo implicito o in modo tale da richiedere alla S.C. un inammissibile accertamento di fatto o, infine, sia formulato in modo del tutto generico (Cass. sez. unite n. 20360/2007). Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l'illustrazione del motivo deve contenere, a pena d'inammissibilità, la "chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione". Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr. ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).
10.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell'art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente - perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione - la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall'esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell'art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell'esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E' stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l'individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell'interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all'esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009).
11.- Nella fattispecie in esame, i plurimi quesiti formulati dal ricorrente in relazione al secondo motivo di ricorso, come sopra riportati, risultano del tutto astratti e privi di qualsiasi riferimento alla fattispecie concreta, risolvendosi, in sostanza, nella mera enunciazione astratta del principio invocato, senza enucleare il momento e le ragioni di conflitto, rispetto ad esso, del concreto accertamento operato dai giudici di merito, e devono pertanto ritenersi inammissibili.

12.- Anche le censure svolte sotto il profilo del vizio di motivazione con il terzo motivo di ricorso devono ritenersi inammissibili.
Questa Corte ha già affermato (cfr. ex plurimis Cass. n. 2909/90) che la comunione tacita familiare prevista dall'art. 2140 c.c. (abrogato dalla L. n. 151 del 1975, art. 205, sulla riforma del diritto di famiglia) è caratterizzata, oltre che dalla comunanza di lucri, di perdite, di mensa e di tetto, dalla formazione di un "unico peculio", gestito senza particolari formalità ed obblighi di rendiconto, destinato indivisibilmente a fornire i mezzi economici necessari ai bisogni della comunità familiare.
Ed ha precisato (cfr.ex plurimis Cass. n. 4324/87) che, anche se i requisiti di detto istituto possono subire attenuazioni anche rilevanti, non può mai mancare l'elemento fondamentale della comunanza di vita, di lavoro e di interessi, sì che non può ravvisarsi una comunione tacita nella costituzione di un fondo comune per effetto degli apporti di ciascun familiare, derivanti da redditi autonomamente percepiti come frutto di attività lavorative diverse, mancando in tal caso l'elemento essenziale costituito da una comune attività di lavoro, ravvisabile solo in presenza di un lavoro associato di tutti i partecipanti alla comunione. Le valutazioni del giudice di merito in ordine all'esistenza di tali elementi, ed in particolare in ordine all'esistenza del comune peculio e all'intenzione di destinare alla sua formazione i profitti dell'impresa, sono incensurabili in sede di legittimità, in mancanza di vizi logico-giuridici (Cass. n. 2909/90 cit.).
13.- Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto di dover escludere, con adeguata motivazione, sia l'esistenza di una comunanza di vita e di lavoro, sia quella di un "comune peculio" tra i partecipanti alla comunione, osservando che la situazione rappresentata dall'attore, anche attraverso l'elencazione delle spese sostenute per la gestione o l'incremento dell'azienda, era idonea a configurare soltanto l'esistenza di un'attività di gestione comune di un'azienda agricola, attività che, in assenza degli elementi sopra indicati, non era sufficiente a dar luogo ad una comunione tacita familiare. A fronte di una sentenza così motivata, il ricorrente si è limitato a riproporre argomenti già presi in esame dai giudici di merito ed a formulare una serie di rilievi critici che, a prescindere dalla loro mancanza di decisività, si risolvono sostanzialmente nella contestazione diretta della valutazione delle prove fatta dalla Corte d'appello, ovvero in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione di merito operata dal giudice di merito, inidonea a radicare un deducibile vizio di motivazione di quest'ultima; dovendo ricordarsi, al riguardo, che, come è stato più volte affermato da questa Corte, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta al suo esame, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito. Ciò comporta che il controllo sulla motivazione non può risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata debba giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito, ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da risultare sostanzialmente incomprensibile o equivoca. Il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, ricorre, dunque, soltanto quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre tale vizio non si configura allorchè il giudice di merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato diversi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr. ex plurimis Cass. n. 10657/2010, Cass. n. 9908/2010, Cass. n. 27162/2009, Cass. n. 16499/2009, Cass. n. 13157/2009, Cass. n. 6694/2009, Cass. n. 42/2009, Cass. n. 17477/2007).
E tutto ciò a prescindere dalla considerazione che, come questa Corte ha pure ripetutamente affermato, in tema di prova spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istnittorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (cfr. ex plurimis, Cass. n. 16499/2009).
14.- Nella specie, il ricorrente, lungi dal denunciare lacune o effettive contraddizioni logiche nella motivazione che sorregge l'accertamento di fatto sul quale è fondata la decisione impugnata, si è limitato a prospettare - inammissibilmente - una diversa ricostruzione dei medesimi fatti, proponendone un giudizio valutativo parimenti diverso (per quanto riguarda, in particolare, l'esistenza del comune peculio e di una struttura associativa caratterizzata dalla comunanza di lucri e perdite); nè ha riportato nel ricorso il contenuto integrale dei documenti e delle deposizioni testimoniali che sarebbero state erroneamente o non adeguatamente valutate dal giudice di merito ai fini della qualificazione del rapporto, limitandosi a richiamare, peraltro non nella sua interezza, solo il contenuto di alcune delle deposizioni testimoniali che sarebbero state trascurate dallo stesso giudice (con violazione, quindi, del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, in forza del quale il ricorrente che deduca l'omessa o insufficiente motivazione della sentenza impugnata per mancata o erronea valutazione di alcune risultanze probatorie ha l'onere di specificare, trascrivendole integralmente, le prove non o male valutate, nonchè di indicare le ragioni del carattere decisivo delle stesse: cfr. ex plurimis Cass. n. 4205/2010, Cass. n. 3507/2010). Di qui l'inammissibilità del terzo motivo.

15.- Il quarto motivo, che riguarda la statuizione con cui la Corte territoriale ha ritenuto che la comunione tacita familiare, se pur esistente nel periodo anteriore al 1958, fosse comunque venuta meno nel periodo di tempo successivo, è infondato.
16.- Non sussiste anzitutto il denunciato vizio di insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sia perchè è ben possibile che nella comunione tacita familiare il recesso di uno dei partecipanti determini, rispetto al medesimo, la cessazione del rapporto associativo (cfr. Cass. n. 9677/90), sia perchè la Corte territoriale ha, in ogni caso, escluso che nella prosecuzione dell'attività di gestione comune dell'azienda dopo il 1958 fossero riscontrabili gli elementi che caratterizzano la comunione tacita familiare.
17.- Non sussiste, parimenti, la denunciata violazione di norme di diritto, posto che la Corte territoriale ha accertato, in fatto, che l'allontanamento del ricorrente dalla casa comune ha comportato, oltre alla formazione di un autonomo nucleo familiare, anche l'inizio di un'attività autonoma, estranea a quella gestita dal consorzio familiare, con il godimento esclusivo, da parte del ricorrente medesimo, dei relativi proventi economici, sicchè restava comunque ininfluente, ai fini che interessano la presente causa, che egli avesse continuato a partecipare anche alla gestione comune dell'azienda agricola, ed in particolare a sostenere alcune delle spese della stessa gestione, dovendo ritenersi ormai non più esistente, quanto meno dal 1958, la comunione tacita familiare.
Tale ultima statuizione è pienamente conforme ai principi espressi da questa Corte in materia di comunione tacita familiare e deve essere pertanto confermata.
Si è affermato, infatti (cfr. ex plurimis Cass. n. 1688/87), che la comunione tacita familiare non è una comunione a scopo di godimento, ma l'esercizio di un'impresa in collaborazione reciproca fra vari membri della stessa famiglia, che cumulano, per le esigenze dell'impresa, i loro apporti lavorativi, e di cui sono elementi caratteristici un patrimonio indiviso, la comunanza di lucri, di perdite, di mensa e di tetto. Per la partecipazione alla comunione non è necessario che tali apporti confluiscano direttamente nell'impresa, essendo sufficiente lo svolgimento di lavori strumentali e sussidiali, purchè, tuttavia, tali attività siano riferibili all'impresa come conseguenza di una divisione dei compiti in seno alla comunione. Deve escludersi, pertanto, che ricorra l'istituto della comunione tacita familiare quando manchi il presupposto dello svolgimento in comune di un'attività economica e voglia farsi conseguire la comunione da un apporto in danaro, in lavoro e in interessamento al buon andamento della famiglia (nello stesso senso, vedi anche Cass. n. 4324/87, nonchè Cass. n. 6129/82).
Corretta e conforme ai principi di diritto enunciati da questa Corte in materia di comunione tacita familiare è anche l'affermazione della Corte territoriale secondo cui il recesso di uno dei partecipanti alla comunione tacita familiare non richiede particolari requisiti di forma, così come non li richiede la sua costituzione, che è legata invece alla sussistenza di una determinata situazione di fatto.
E' stato, infatti, affermato (Cass. n. 1696/84) che, poichè la comunione tacita familiare sorge naturalmente e spontaneamente per facta concludentia e non già in forza di convenzione espressa, non è necessario l'atto scritto per la sua costituzione, anche se nella comunione sono presenti beni immobili. E, allo stesso modo, che, essendo la nascita e l'estinzione della comunione tacita familiare collegate al sorgere ed al venir meno del vincolo associativo, senza alcuna diretta incidenza sulla costituzione e sullo scioglimento della eventuale comunione di diritti reali su beni determinati, al fine dello scioglimento della comunione tacita familiare non è necessario alcun atto scritto a norma dell'art. 1350 c.c., n. 11 (Cass. n. 4703/81).
Anche il quarto motivo deve essere pertanto rigettato.

18.- Il quinto e il sesto motivo, nella parte in cui presuppongono l'accertamento positivo dell'esistenza della comunione tacita familiare, restano assorbiti dal rigetto dei precedenti motivi di impugnazione. Quanto alle censure svolte nella seconda parte dell'ultimo motivo di ricorso, è decisivo il rilievo della Corte di merito, secondo cui gli esborsi di denaro effettuati dal ricorrente (e dagli altri fratelli) nel corso del rapporto, trovano causa nell'esistenza di una gestione associata dei fondi agricoli, sì che i diritti nascenti dalla partecipazione a tale gestione comune, ivi compreso, ove esistente, il diritto alla restituzione dei versamenti effettuati, avrebbero dovuto essere fatti valere mediante l'esercizio delle tipiche azioni poste a tutela dei diritti del singolo associato (art. 2253 c.c., e segg.), restando esclusa in radice la possibilità di esercitare l'azione generale di indebito arricchimento (art. 2041 c.c.).
19.- Il ricorso va, dunque, rigettato con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto tutte le censure non espressamente esaminate.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente nei confronti della parte costituita e vengono liquidate facendo riferimento alle disposizioni di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 e alla tabella A ivi allegata, in vigore al momento della presente decisione (artt. 41 e 42 D.M. cit.). Non deve provvedersi in ordine alle spese nei confronti degli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della parte costituita delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge. Nulla per le spese nei confronti degli intimati.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2013


 

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