REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ODDO Massimo - Presidente -
Dott. NUZZO Laurenza - Consigliere -
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere -
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere -
Dott. FALASCHI Milena - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso (iscritto al N.R.G. 2123/09) proposto da:
AVV.TO P.R., rappresentato e difeso da se stesso ex art. 86 c.p.c., ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv.to Benedetta Pellegrino-Cocchi in Roma, via dei Faggella n. 4/d;
- ricorrente -
contro
COMUNE DI FRATTAMINORE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti DI MONTE VINCENZO e Adele Di Lorenzo del foro di Napoli, in virtù di procura speciale apposta a margine del controricorso, ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'Avv.to Piergiorgio Villa in Roma, via Donatello n. 23;
- controricorrente -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Milano n. 3708 depositata il 29 novembre 2007;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica dell'11 giugno 2014 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
udito l'Avv.to Vincenzo Di Monte, per parte resistente;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa CARESTIA Antonietta, che ha concluso per l'inammissibilità ed, in subordine, per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 24 ottobre 2000, dinanzi al Tribunale di Napoli, l'Avv. P.R. esponendo di avere, a seguito di regolare procura conferitagli dal Commissario Prefettizio del Comune di Frattaminore, proposto appello dinanzi al Consiglio di Stato per l'annullamento e/o la riforma della sentenza del T.A.R. Campania n. 459 del 2.2.1993, la quale in accoglimento del ricorso di n. 43 dipendenti del Comune, aveva annullato le delibere di rideterminazione del trattamento economico dei predetti per un periodo limitato rispetto alle richieste, provvedimento peraltro annullato dal CO.RE.CO., gravame accolto dal Consiglio con sentenza n. 1909 del 15.11.1999, e nonostante l'articolata ed intensa attività professionale svolta avesse comportato per il Comune un vantaggio economico consistente nel risparmio economico di alcuni miliardi, l'Ente pretendeva di corrispondergli onorari al minino, per cui chiedeva venisse ingiunto all'Amministrazione locale il pagamento della somma di L. 95.720.448, istanza che veniva accolta con l'emissione del decreto n. 5640 del 18.12.2000.

Avverso detto decreto proponeva opposizione, con atto di citazione notificato il 23 febbraio 2001, l'Ente intimato, deducendo la erronea individuazione del valore della causa che doveva ritenersi di valore indeterminabile e comunque la spesa complessiva prevista nelle delibere de quibus ammontava a L. 107.409.045 e non a due miliardi di lire, come assunto dal professionista, non vincolante il parere di congruità del Consiglio dell'Ordine, non spettanti i diritti di procuratore in assenza di attività preparatoria ed istruttoria nei giudizi innanzi alle Magistrature superiori, nè le spese per le trasferte a Roma essendo unico l'Albo speciale per gli avvocati, il Tribunale adito, nella resistenza dell'opposto, in parziale accoglimento dell'opposizione, revocava il decreto ingiuntivo opposto e condannava il Comune al pagamento di compensi per la complessiva somma di Euro 7.958,60, da cui andava detratto l'acconto corrisposto di Euro 2.065,83, compensate fra le parti le spese del giudizio di opposizione.
In virtù di rituale appello interposto dall'avv. P., con il quale insisteva per l'accoglimento integrale delle proprie richieste, la Corte di appello di Napoli, nella resistenza dell'Amministrazione locale, respingeva il gravame.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava che il gravame riguardava esclusivamente la determinazione del valore della controversia con la relativa individuazione della fascia tariffaria, nonchè l'eventuale applicazione di maggiorazione dei massimi degli onorari. Al riguardo osservava che andava condiviso l'assunto secondo cui trattandosi di annullamento di atti amministrativi, a prescindere degli importi eventualmente spettanti ai dipendenti ed al vantaggio goduto dal Comune stesso, il giudizio andava considerato di valore indeterminabile, non modesto ma rilevante, da non considerare gli eventuali riflessi economici delle pronunce giurisdizionali, essendo i conteggi elaborati dal professionista del tutto ipotetici e svincolati dall'effettivo oggetto del contendere.
Nè potevano spettare le spese connesse al parere del Consiglio dell'Ordine, come affermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, non accoglibile peraltro l'istanza avanzata circa l'ordine di esibizione di documenti ex art. 210 c.p.c., essendo superfluo l'approfondimento istruttorie Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Napoli agisce l'avv. P., sulla base di un unico motivo, cui replica il Comune con controricorso, illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivazione

L'esame delle singole censure, nelle quali si articola l'unico motivo di ricorso, deve essere preceduto da quello della pregiudiziale eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dall'Amministrazione resistente, sotto il profilo del difetto di specificità e chiarezza dei motivi di ricorso, in considerazione vuoi della proposizione con unico motivo di plurime censure, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, o anche in relazione al n. 5, stesso art. 360 c.p.c., vuoi, anche, della "frammentazione" del quesito di diritto, che ex art. 366 bis c.p.c., prima parte (applicabile ratione temporis alla sentenza all'esame) deve corredare il singolo motivo, in una pluralità di quesiti, anche laddove è stata formulata un'unica censura di violazione di legge.
L'eccezione è infondata alla luce del principio, convalidato dalle SS.UU. di questa Corte (sentenza 31 marzo 2009 n. 7770), secondo cui nessuna prescrizione è rinvenibile nelle norme processuali, che ostacolino la duplice denunzia con unico mezzo, di vizi di violazione di legge e di motivazione in fatto (cfr. anche Cass. 18 gennaio 2008 n. 976), fermo restando che in tale caso il motivo si deve concludere - come, del resto, è avvenuto nella specie - con una pluralità di quesiti, ciascuno dei quali contenga un rinvio all'altro, al fine di individuare su quale fatto controverso vi sia stata, oltre che un difetto di motivazione, anche un errore di qualificazione giuridica del fatto. In particolare - anche qualora il ricorso sia formulato con riferimento solo all'art. 360 c.p.c., n. 3 o al n. 4, - la formulazione di distinti e plurimi quesiti di diritto non può ritenersi contrastante, di per sè, con la disposizione dell'art. 366 bis c.p.c., per il solo fatto che questa esige che il motivo si concluda, a pena di inammissibilità, con "un quesito"; e ciò non solo, perchè il motivo di ricorso può essere articolato con riferimento a diverse e concorrenti violazioni di legge, con la conseguenza che il quesito deve rispecchiare ciascuna di tali articolazioni, potendo ben assumere una forma, anche dal punto di vista grafico, separata (Cass. 9 giugno 2010 n. 13868) - essendo, anzi, necessario che il motivo formalmente unico, ma in effetti articolato in profili autonomi e differenziati di violazioni di legge diverse, si concluda con la formulazione di tanti quesiti per quanto sono i profili fra loro autonomi e differenziati in realtà avanzati (Sez. Unite 9 marzo 2009 n. 5624) - ma anche perchè la funzione del quesito, di sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, non può dirsi elusa, quando esso sia formulato per più punti e questi consistano in più proposizioni, intimamente connesse, che, per la loro funzione unitaria, sotto il profilo logico e giuridico, risultino complessivamente idonee, pur sovrapponendosi parzialmente, a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere alla Corte di affermare un principio di diritto contrario a quello posto a base della decisione impugnata (Cass. 6 novembre 2008 n. 26737).
L'eccezione di inammissibilità nei termini sopra precisati va, dunque, rigettata.

Venendo all'esame del ricorso, con l'unico motivo il P. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2233 c..c, comma 2, artt. 9, 10 e 11 c.p.c., e art. 429 c.p.c., comma 2, R.D. n. 383 del 1934, art. 228, D.M. n. 585 del 1994, art. 5, comma 3, e art. 6, commi 1 e 4, nonchè vizio di motivazione, per non avere la corte di merito tenuto conto - in fatto - che l'adeguamento delle retribuzioni disposto dalla sentenza T.A.R. aveva comportato la condanna del Comune alla corresponsione dei maggiori importi e non la rimozione di un provvedimento specificamente individuato della p.a. ritenuto inficiato di vizi di legittimità. Del resto la materia in discorso, successivamente al D.L. n. 80 dei 1998, è interamente passata nella giurisdizione del giudice del lavoro. A conclusione dell'illustrazione del motivo viene formulato il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se nel giudizio dinanzi al Consiglio di Stato, avente ad oggetto indennità e spettanze di lavoro a dipendenti pubblici esattamente indicati e specificati dai singoli, nel quale, in definitiva si discute se agli stessi spetti o meno la complessiva somma, comprensiva di sorta capitale e interessi maturati, ammontante a complessive L. 1.712.590.153, il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari, deve essere determinato in applicazione dell'art. 10 c.p.c., o deve essere ritenuto di valore indeterminabile".

Il ricorso è infondato e va rigettato.
La doglianza, che concerne la determinazione del valore della controversia nella liquidazione della competenze nei confronti del cliente, porta alle seguenti considerazioni: il D.M. n. 585 del 1994, art. 6, comma 1 disciplinando la liquidazione delle spese processuali a carico del soccombente, prevede che il valore della controversia si determina con riferimento alla domanda nel momento in cui la stessa è proposta, tenuto conto del richiamo di cui agli artt. 10 e 14 c.p.c., (sicchè non possono essere considerati a tal fine gli importi per interessi, rivalutazione monetaria e danni maturati successivamente); il comma 2, della norma citata stabilisce che, nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile; secondo il cit. art. 6, comma 4 - sempre con riferimento alla liquidazione degli onorari a carico del cliente -, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti. In proposito va osservato che il comma 2, detta il principio di adeguatezza e di proporzionalità degli onorari rispetto all'attività prestata dal legale che costituisce la regola generale nella liquidazione degli onorari e che, perciò, trova applicazione anche per quanto riguarda gli onorari a carico del soccombente quando non vi sia coincidenza fra il disputatum e il decisum (Cass. SS.UU. n. 19014 del 2007).

Pertanto, nel caso della liquidazione degli onorari a carico del cliente l'indagine, che di volta in volta il giudice di merito deve compiere, è quella di verificare l'attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all'effettivo valore della controversia.

Nella specie, la decisione impugnata ha considerato, ai fini del valore della controversia, che oggetto della controversia era la richiesta di annullamento di atti amministrativi nella parte in cui limitavano la rideterminazione del trattamento di n. 43 dipendenti dell'Amministrazione al periodo dal 31.12.1971 al 31.12.1974. E' evidente che si trattava di controversia rientrante nella giurisdizione generale di legittimità, il cui petitum e causa petendi era la rimozione di provvedimenti specificamente individuati dalla pubblica amministrazione, ritenuti inficiati da vizi di legittimità. In assenza di diritti soggettivi fatti valere dai dipendenti comunali, non potevano essere apprezzati, ai fini della determinazione del valore della controversia, i riflessi economici dell'interesse che aveva legittimato i medesimi ricorrenti all'impugnazione degli atti.

La Corte d'appello si è dunque correttamente attenuta al principio, enunciato da questa Corte e condiviso dal Collegio, per cui "ai fini della determinazione degli onorari di avvocato, in base alla tariffa approvata con D.M. 24 novembre 1990, n. 392, va considerata di valore indeterminabile la controversia introdotta innanzi al giudice amministrativo per l'annullamento di un atto, qualora la causa petendi della domanda è la illegittimità dell'atto e petitum la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda" (Cass. n. 12178 del 2003).

Le censure contenute nel ricorso, del resto, non appaiono idonee ad inficiare la soluzione adottata dalla Corte territoriale. In particolare, le argomentazioni svolte nel ricorso con riferimento ai diversi commi del D.M. n. 585 del 1994, artt. 5 (comma 3) e 6 (commi 1 e 4) - ratione temporis applicabile al caso di specie - non colgono la effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale, proprio dopo aver escluso la determinabilità del valore della controversia amministrativa sulla base dell'interesse sostanziale che riceve tutela attraverso la sentenza (art. 6, comma 3) ovvero del valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti (art. 6, comma 4), ha correttamente fatto applicazione della disposizione di cui al medesimo art. 6, comma 5, il quale stabiliva che "qualora, secondo i criteri di cui ai precedenti commi, il valore della controversia non sia suscettibile di determinazione, si applicano gli onorari minimi previsti per le cause di valore da oltre L. 50 milioni a L. 100 milioni e gli onorari massimi previsti per le cause di valore fino a L. 1 miliardo (tab. A - parag. VI) tenuto conto dell'oggetto e della complessità della controversia, delle questioni trattate e della rilevanza degli effetti di qualunque natura che possano conseguire alla declaratoria della illegittimità dell'atto amministrativo o del comportamento dell'amministrazione".
Sul punto, si deve solo rilevare che nel ricorso non è svolta alcuna censura sulla rispondenza della somma in concreto liquidata nei giudizi di merito al criterio ora indicato.
Per le medesime ragioni, deve escludersi la sussistenza del vizio di omessa pronuncia in ordine al motivo di gravame con il quale l'appellante aveva inteso denunciare l'erronea applicazione del D.M. n. 585 del 1994, artt. 5 e 6, atteso che la risposta alla censura emerge con evidenza dalle argomentazioni in base alle quali la Corte d'appello ha escluso di poter determinare il valore della causa alla luce dei criteri di cui al medesimo art. 6, commi 3 e 4.
Nè può essere condivisa la pretesa del ricorrente che la liquidazione degli onorari avvenisse assumendo a riferimento il criterio del valore dell'adeguamento delle retribuzioni dei dipendenti o quanto meno il valore dell'utile che l'Amministrazione ha ricavato in termini di risparmio rispetto agli importi liquidati dalla sentenza T.A.R.. Le controversie amministrative, come esattamente rilevato dalla Corte d'appello, avevano quale causa petendi la asserita illegittimità delle decisione del Coreco - n. 150 del 25.10.1988 e n. 182 del 4.12.1988 che avevano annullato le delibere del Consiglio comunale n. 184 del 29.9.1988 e n. 240 del 21.11.1988 - e quale petitum la richiesta di annullamento di detti atti, mentre il possibile risvolto economico del giudizio amministrativo (relativo alla rideterminazione del trattamento economico dei dipendenti ricorrenti) è stato ritenuto dalla Corte d'appello, con apprezzamento in sè corretto e non censurato dal ricorrente, non determinabile atteso l'oggetto della controversia.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di Cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese forfettarie ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2014


 

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