REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME' Giuseppe - Presidente -
Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere -
Dott. RAGONESI Vittorio - Consigliere -
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere -
Dott. SCALDAFERRI Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24669 - 2012 proposto da:
RAFFAELLO E MICHELANGELO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Via P. DA PALESTRINA 47, presso l'avvocato BASILE GAETANO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato PAMPALONI RODOLFO, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
FALLIMENTO RAFFAELLO E MICHELANGELO S.P.A., in persona del Curatore Dott. C.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIAN GIACOMO PORRO 8, presso l'avvocato GROSSO ANDREA, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 1501/2012 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 20/09/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/02/2014 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI;
udito, per il controricorrente, l'Avvocato ANSELMO CARLEVARO, con delega, che si riporta;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Su richiesta del Pubblico ministero il Tribunale di Torino, con sentenza 3 maggio 2012, dichiarava il fallimento della Raffaello e Michelangelo s.p.a., società immobiliare facenti parte del cd. "gruppo CALLEGARO".
Il successivo reclamo era respinto dalla Corte d'appello di Torino con sentenza in data 20 settembre 2012.
La corte territoriale motivava.
- che, pacifica la sussistenza dei requisiti oggettivi e dimensionali di cui alla L.Fall., artt. 1 e 15, la società aveva contestato solo lo stato di insolvenza;
- che questa invece emergeva dal debito fiscale, gravato di sanzioni per ritardo nel pagamento di rate scadute, eseguito del resto con denaro proveniente da altra società del gruppo, e suscettibile di ulteriore incremento a seguito di avvisi di accertamento relativi agli anni 2007 e 2008 notificati alla curatela nell'imminenza della camera di consiglio;
- che mancava la prova di un piano di rientro con gli istituti di credito che vantavano crediti ingenti nei confronti della società;
- che era infondata la censura di sottovalutazione del patrimonio immobiliare, stimato in Euro 44.580,000,00 da periti incaricati della stessa società, secondo il valore di mercato, e comunque la sussistenza di cespiti patrimoniali non eliminava l'incapacità di adempiere regolarmente le obbligazioni.
Avverso la sentenza notificata in data 27 settembre 2012, la Raffaello e Michelangelo s.p.a. proponeva ricorso per cassazione, notificato il 26 ottobre 2012.
La curatela resisteva con controricorso.
All'udienza del 20 febbraio 2014 il Procuratore generale ed il difensore del fallimento della Raffaello e Michelangelo s.p.a precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.

Motivazione

Le censure dedotte dalla ricorrente senza un chiaro ordine numerico ed una distinta e puntuale distinzione tra violazioni di legge e vizi della motivazione - spesso accomunati, ai limiti della inammissibilità - possono essere riassuntivamente ricondotte all'inosservanza dei principi in tema di successione delle leggi nel tempo e alla violazione della L.Fall., art. 5, ed alla carenza di motivazione nell'accertamento dello stato di insolvenza.
Sotto il primo profilo si deduce, in particolare, l'omessa applicazione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 33, (cd. decreto Sviluppo), convertito con modificazioni il L. 7 agosto 2012, n. 147.

Il motivo è infondato.
In sostanza, la censura, riproducente per esteso anche una sentenza penale di questa Corte non pertinente al thema decidendum, si riduce alla mancata concessione di un termine per la formalizzazione di una proposta di accordo di ristrutturazione L.Fall., ex art. 182 bis, (senza alcuna precisazione delle condizioni e delle prospettive concrete di accettazione da parte del ceto creditorio), sul presupposto erroneo che l'istituto possa essere retroattivamente applicato in ipotesi di fallimento già dichiarato.
Premesso che il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, non ha efficacia retroattiva, in applicazione del principio generale di cui all'art. 12 disposizioni sulla legge in generale ed in assenza di alcuna espressa disposizione contraria, si osserva come lo strumento concordatario e più in generale qualunque ipotesi di composizione negoziale della crisi di impresa incontrino un limite preclusivo nella dichiarazione di fallimento: oltre la quale l'unico strumento lato sensu negoziale residuo è il concordato fallimentare. Nè riveste alcuna rilevanza, in contrario, la pendenza del reclamo L.Fall., ex art. 18, dinanzi la Corte d'appello di Torino, che non consentiva certo la remissione in termini, previa revoca della dichiarazione di fallimento, ai fini di una ipotesi concorsuale alternativa (L.Fall., art. 160 e art. 182 bis), così da evitare la condizione di procedibilità per il delitto di bancarotta fraudolenta (L.Fall., art. 216), come correttamente statuito dalla corte territoriale.
Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, L. Fall. art. 161, comma 10, è di univoca lettura, laddove consente la concessione di un termine per il deposito del piano e della documentazione richiesti per l'ammissione al concordato preventivo "quando pende il procedimento per la dichiarazione di fallimento": formula, che "a contrario" vale ad escluderne la possibilità quando il fallimento sia già stato dichiarato.
In realtà, la disposizione presuppone, anzi, che sia già avvenuto il deposito del ricorso contenente la domanda di concordato, unitamente ai bilanci relative gli ultimi tre esercizi; e il termine dilatorio, in pendenza dell'istruttoria prefallimentare, contenuto in sessanta giorni (prorogabili, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta), riguarda solo il completamento della produzione documentale.
E' pacifico che nessuna proposta in tal senso sia mai stata presentata dalla Raffaello e Michelangelo s.p.a.; e ancora oggi, del resto, le ipotesi di risanamento della crisi prospettate nel presente ricorso hanno mero contenuto ipotetico ed astratto.
Ne consegue l'infondatezza della denunziata violazione di legge.
Anche la parte della censura che concerne l'iniziativa del pubblico ministero è manifestamente infondata. L'omessa presentazione di ricorsi per fallimento da parte dei creditori privati non esclude di per sè lo stato di insolvenza, motivato congruamente nella sentenza impugnata e non suscettibile di riesame, nel merito, in questa sede.
Al riguardo si osserva che proprio le inadempienze fiscali poste a base della pronunzia di fallimento possono dare conto della mancata presentazione di ricorsi da parte di creditori privati, evidentemente soddisfatti con preferenza rispetto all'erario.
Per quanto riguarda invece tutte le doglianze concernenti la violazione della L.Fall., art. 5, e la carenza di motivazione della sussistenza dello stato di insolvenza, la società ricorrente si dilunga in una serie di argomentazioni di merito, che concernono addirittura la valutazione dei cespiti immobiliari e dei comportamenti penalmente rilevanti nell'ambito di svariate operazioni infragruppo, e perfino di possibili vantaggi compensativi ad esse riconducibili, del tutto estranei all'ambito del giudizio di legittimità. Non senza rilevare, in linea di principio, che connotato essenziale dello stato di insolvenza è l'incapacità di soddisfare regolarmente le obbligazioni: onde, se si identifica, come si deve, l'impresa con l'attività economica svolta - elemento di natura dinamica - non si può poi analizzare l'insolvenza secondo un parametro di tipo patrimoniale, statico, quale il valore dei cespiti immobiliari.
In sostanza, le varie doglianze si riducono, dunque, ad una contestazione delle pretese fiscali (suscettibili, peraltro, di esecuzione forzata) e ad una diversa e maggiore stima del patrimonio della società (che si spinge fino alla correzione dei bilanci d'esercizio), senza addurre critiche davvero pertinenti sotto il profilo dedotto della violazione della L.Fall., art. 5, o del vizio di motivazione.
Il ricorso dev'essere dunque rigettato, con la conseguente condanna alla rifusione delle spese processuali, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni trattate.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per compenso, oltre gli accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2014.
Depositato in Cancelleria il 10 giugno 2014


 

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