REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI APPELLO DI NAPOLI
TERZA SEZIONE CIVILE
riunita in camera di consiglio nelle persone dei magistrati:
dr.ssa Rosa Giordano Presidente
dr.ssa Maria Teresa Mondo Consigliere rel./est.
dr. Giulio Cataldi Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 1281/2015 R.G.A.C. . posta in decisione all’udienza collegiale del 30-9-2015, con termini sino al 9-11-2015 ai sensi dell’art. 190 C.P.C. e vertente
TRA
(A)
APPELLANTE
E
(B) spa (già C spa)
APPELLATO
Oggetto: appello avverso la sentenza n. 2056/2011 del Tribunale di Torre Annunziata.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione innanzi a questa Corte di appello, notificato alla (C) spa il 17-3-2015, (A) impugna la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata che, accogliendo parzialmente l’opposizione da lui proposta avverso il di n. 35/2011 emesso dallo stesso Tribunale su istanza della (C) spa, ha poi condannato lo stesso (A) al pagamento, in favore della (C) spa, della somma di euro 2.250,46.
Argomentando motivi a sostegno del gravame, chiede la riforma della sentenza impugnata, con declaratoria di estinzione del debito residuo contratto da (A) per euro 2.250,46 e condanna della (C) spa al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, con attribuzione in favore dei procuratori, anticipatari.

La (B) spa si costituisce in virtù di atto di scissione parziale avente ad oggetto il ramo organizzato per le attività di credito al consumo e cessione del quinto dello stipendio da (C) spa in favore di (B) spa. in detta qualità, resiste al gravame, eccependone, in via preliminare, l’inammissibilità per intervenuta decorrenza del termine di cui all’art. 327 c.p.c. deduce, poi, l’inammissibilità dell’appello per contrasto con l’art. 348 bis c.p.c.; in via subordinata, nel merito, ne rileva l’infondatezza e ne chiede il rigetto, con vittoria di spese del grado.
All’udienza in epigrafe trascritta le parti hanno precisato le conclusioni e la causa è stata riservata a sentenza, con concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali.

Motivazione

§ 1. In via preliminare, va verificata la tempestività dell’appello.
Come eccepito dalla parte appellata, l’appello proposto con atto trasmesso per la notifica il 12-3-2015, risulterebbe tardivo rispetto alla data di deposito della sentenza 9-6-2014.
Deve, però tenersi conto del fatto che, nel caso in esame, si è verificata una significativa separazione temporale dei due passaggi in cui si articola la procedura di pubblicazione della sentenza (deposito da parte del giudice e presa d'atto del cancelliere).
Infatti, la sentenza oggetto di gravame è stata depositata il 9-6-2014, come risulta dal timbro della cancelleria recante l’attestazione della data di deposito ed il timbro del funzionario, ____.
Tuttavia, al deposito non fece seguito il compimento delle operazioni previste a carico della cancelleria, poiché la comunicazione di avvenuto deposito avvenne solo in data 12-8-2014, come pacifico e documentato dall’appellante, mediante la copia della pubblicazione della sentenza trasmessagli via Pec.
In tale iter processuale si riscontra una grave patologia che ha inficiato l’iter fissato dall’art. 133 c.p.c. per la pubblicazione e comunicazione della sentenza e che deve indurre a diversa considerazione circa la decorrenza del termine lungo per la proposizione del gravame.
In merito non si ignora che la S.C., con la sentenza Sez. U, n. 13794 del 01/08/2012, ha ritenuto che, ove sulla sentenza siano state apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra di pubblicazione, tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza decorrono già dalla data del suo deposito.
La questione, tuttavia, è stata affrontata anche dalla Corte Costituzionale nella pronuncia num. 0003 del 2015, con la quale la Consulta, investita dalla stessa Cassazione della questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, primo e secondo comma, e 327, primo comma, del codice di procedura civile, nel testo anteriore alla modifica apportata dall'art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), come interpretati dalla Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con la citata sentenza n. 13794 del 1 agosto 2012, ha ritenuto che La separazione temporale dei due passaggi in cui si articola la procedura di pubblicazione della sentenza (deposito da parte del giudice e presa d'atto del cancelliere), comprovata dall'apposizione di date differenti, costituisce una patologia gravemente incidente sulle situazioni giuridiche degli interessati, riflettendo il tardivo adempimento delle operazioni previste dalla pertinente disciplina legislativa e regolamentare (tra le quali, l'inserimento nell'elenco cronologico delle sentenze, con l'attribuzione del relativo numero identificativo), nonché dalle disposizioni sul processo telematico.
Ciò in ragione del fatto che solo con il compimento delle operazioni prescritte dalla legge può dirsi realizzata quella pubblicità alla quale è subordinata la titolarità, in capo ai potenziali interessati, di puntuali situazioni giuridiche, come il potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia.
La Corte costituzionale ha, quindi, ritenuto che alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata del censurato diritto vivente, per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, che, in presenza di una seconda data, deve ritenersi di regola realizzato esclusivamente in corrispondenza di quest'ultima. Il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, rende così inoperante la dichiarazione dell'intervenuto deposito, pur se formalmente rispondente alla prescrizione normativa; qualora ciò accada, può soccorrere l'istituto della rimessione in termini per causa non imputabile, quale doveroso rimedio ad uno stato di fatto contra legem che, in quanto addebitabile alla sola amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul fondamentale diritto all'impugnazione.

I principi richiamati dalla Consulta sono pienamente condivisibili e possono indurre ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni in commento, seppur diversa da quella suggerita dalla Corte Costituzionale.
La grave patologia da cui è stato caratterizzato il procedimento di pubblicazione della sentenza determinerebbe, laddove dovesse farsi decorrere il termine lungo per l’impugnazione della sentenza dalla data di deposito della sentenza non accompagnata dai contestuali provvedimenti necessari a renderla nota alle parti, una evidente violazione del diritto di difesa ( e specificamente del fondamentale diritto all’impugnazione), posto che la parte si troverebbe a usufruire di un termine per impugnare inferiore a quello fissato dall’art. 327 primo comma c.p.c. per la proposizione dell’impugnazione o, addirittura, a non godere affatto di tale termine, a causa di un fatto addebitabile alla sola amministrazione giudiziaria.
Di seguito all’intervento della Consulta la Corte di Cassazione ha reso, in merito, pronunzie contrastanti.
Talora ha ritenuto di applicare l’istituto della rimessione in termini nei confronti della parte che abbia proposto l'impugnazione nel termine "lungo" decorrente non dalla data di deposito, ma dalla successiva data di pubblicazione, subordinando tale rimessione ad una valutazione discrezionale, quale quella della verifica che dagli atti emergesse, anche per implicito, che dall'attestazione del deposito non era derivata la conoscenza della sentenza ( Cass. sez. 6 - 2, Sentenza n. 10675 del 22/05/2015.)
Tal’altra, in ipotesi di apposizione nella sentenza di due date, una di deposito e l'altra di pubblicazione, ha ritenuto di avere riguardo - secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2015 - alla seconda annotazione, cui consegue l'effettiva pubblicità della sentenza con il compimento delle operazioni prescritte dall'art. 133 cod. proc. civ., quali misure volte a garantire la conoscibilità della decisione, essenziale per l'esercizio del diritto di difesa ( Cass. Sez. 6 – L. Ordinanza n. 6050 del 25/03/2015).

Il contrasto evidenziato nasce, invero, dallo stesso tenore della pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale, laddove indica il rimedio atto a garantire il rispetto dell’enunciato diritto di difesa.
Infatti, la Consulta, da un lato, afferma che, per costituire dies a quo del termine per l'impugnazione, la data apposta in calce alla sentenza dal cancelliere deve essere qualificata dalla contestuale adozione delle misure volte a garantirne la conoscibilità e solo da questo concorso di elementi consegue tale effetto, ritenendo quindi che, in presenza di una seconda data, il deposito deve ritenersi realizzato esclusivamente in corrispondenza di quest'ultima. Dall’altro, ritiene che, nel caso di ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione, debba farsi ricorso all'istituto della rimessione in termini, in tal modo presupponendo, in contraddizione con quanto in precedenza affermato, l’individuazione del dies a quo dell’impugnazione in forza del solo deposito del provvedimento, pur non seguito dalle comunicazioni di rito.
Se è vero, invece, che, come sottolinea la Consulta, il ritardato adempimento, attestato dalla diversa data di pubblicazione della sentenza, rende inoperante la dichiarazione dell'intervenuto deposito, deve accedersi alla diversa interpretazione, secondo la quale solo dal momento della adozione, da parte del cancelliere, delle misure volte a garantire la conoscibilità della sentenza deve ritenersi completato l’iter stabilito dall’art. 133 c.p.c. e, conseguentemente, iniziano a decorrere i termini per procedere all’impugnazione della sentenza.
Ciò in considerazione del fatto che, seppure il procedimento di pubblicazione deve compiersi, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l'apposizione, in calce al documento, della firma e della data del cancelliere e della comunicazione alle parti prevista dall’art. 133, II comma c.p.c., laddove tale iter si sia svolto in modo anomalo, con l’esecuzione delle attività volte a rendere pubblica la sentenza in un momento successivo alla data di deposito della stessa sentenza, tale disfunzione rende inoperante la dichiarazione di avvenuto deposito resa dal cancelliere e impone di considerare, ai fini della decorrenza del termine lungo per l’impugnazione, solo la data in cui le attività in cui si sostanzia il deposito della sentenza siano state effettivamente completate.

Non convince, d’altra parte, la diversa interpretazione, che, continuando ad ancorare il termine per la proposizione dell’impugnazione alla data di deposito della sentenza, nonostante la grave irregolarità verificatasi, ritiene applicabile, al fine di garantire il rispetto del diritto alla difesa in relazione all’art. 327 c.p.c., l’istituto della rimessione in termini.
Tale istituto, invero, comporta l’emissione di un provvedimento da assumere solo all’esito della verifica in concreto della sussistenza della lesione del diritto di difesa e quindi, una discrezionalità del giudice.
Ciò lascerebbe spazio alla valutazione, da parte del giudice, dell’idoneità o meno del termine in concreto a disposizione della parte per impugnare la sentenza, ciò che porterebbe con sé la negazione del diritto della stessa parte ad utilizzare nella loro interezza i termini di decadenza previsti per la proposizione dell’impugnazione.

In ragione dei principi richiamati, non deve ritenersi possibile, invece, operare alcuna valutazione in merito alla congruità del tempo di cui ha eventualmente disposto la parte per proporre il gravame, dovendo garantirsi il suo diritto a disporre dell’intero termine lungo, concesso dal codice di rito per la proposizione del gravame.
Né potrebbe, d’altra parte, ritenersi il giudice obbligato a detta rimessione in termini, escludendo così ogni discrezionalità, poiché in tal modo si introdurrebbe un automatismo che è estraneo all’istituto della rimessione in termini. La rimessione in termini, infatti, presuppone, da un lato, il verificarsi di una decadenza e, dall’altro l’accertamento che tale decadenza si è verificata per causa non imputabile alla parte, laddove, nel caso in esame, è lo stesso grave vizio che caratterizza il procedimento di deposito della sentenza ad impedire che la stessa sia resa pubblica contestualmente al deposito, con ciò incidendo sul compimento dell’iter prescritto dal codice di rito senza che vi sia spazio alcuno per una valutazione dell’effettiva compressione del diritto di difesa.

La soluzione cui questa Corte ritiene di aderire, invece, ancorando la decorrenza del dies a quo dell’impugnazione ad un elemento oggettivo, quale la data di compimento delle operazioni che l’art. 133 c.p.c. pone a carico del cancelliere, non determina quella incertezza che, invece, si verificherebbe allorché volesse subordinarsi la tempestività dell’appello proposto nei sei mesi dalla data di compimento di dette attività ad un provvedimento di rimessione in termini ed evita di attribuire al giudice poteri discrezionali che dovrebbero essere circoscritti alle sole ipotesi di stretta previsione legislativa.
In forza delle considerazioni che precedono, l’appello intervenuto nel termine di sei mesi dalla data di comunicazione di avvenuto deposito della sentenza deve, nella specie, ritenersi tempestivo.

§ 2. Prima di procedere all’esame dell’appello, devono farsi alcune precisazioni in merito alle statuizioni coperte dal giudicato.
Il primo giudice ha accertato il credito vantato dalla (C) in dipendenza dei due contratti di finanziamento erogati dalla (D) ( poi ceduti alla (C)) al (A) nelle seguenti misure: a) euro 2.775,63 per il finanziamento n.4061989, comprensivo degli interessi di mora convenzionalmente pattuiti ed al netto della voce “Saldo spese e altri addebiti” che ha ritenuto non giustificata; 2) euro 5.164,57 per il finanziamento n. 4061313, comprensivo della sola sorta capitale erogata.
Il (A) impugna la sentenza esclusivamente nella parte in cui, nel detrarre da tali somme quelle da lui pagate, non ha tenuto conto dell’ulteriore importo di euro 3810,12 che egli aveva dimostrato di aver pagato con bonifico bancario.
La (B) s.p.a. resiste al gravame deducendo, quanto al merito: a) che il piano di ammortamento per entrambi i contratti era del tipo c.d. “alla francese”, per cui tutto quanto pagato dal (A) fino al 15-7-2003 era tale e sufficiente ad estinguere una maggior quota di interessi corrispettivi, rispetto alla misura del capitale così come previsto nel piano di ammortamento; b) che due degli assegni corrisposti dal (A) erano risultati impagati.

§ 3. Entrambe le deduzioni della appellata non possono essere esaminate, giacché propongono questioni coperte dal giudicato.
Infatti, poiché la sentenza impugnata contiene l’accertamento delle somme ancora dovute dal (A) in relazione ai due contratti di finanziamento, la (C) avrebbe dovuto impugnare, con autonomo appello, la statuizione del primo giudice ed offrire argomenti idonei a ribaltarla, non limitandosi a riproporre le deduzioni già svolte in primo grado, senza, peraltro, nemmeno spiegare a quale diverso risultato, quanto alla somma dovuta, dovrebbe giungersi in considerazione dell’indicato piano di ammortamento.

Analoga considerazione va fatta con riferimento alla seconda deduzione proposta dalla (B) s.p.a.
Il primo giudice, dando atto dell’avvenuto deposito di documentazione comprovante il versamento, da parte del (A), della complessiva somma di euro 5.689,74 e del fatto che tale pagamento non era stato contestato dalla odierna appellata, ha accertato, nei termini richiamati, l’ammontare della somma già corrisposta dall’appellante.
Anche tale statuizione avrebbe, quindi, dovuto essere oggetto di specifica impugnativa.

In mancanza di gravame le deduzioni, svolte per la prima volta in appello dalla (B) spa in merito al mancato buon fine di alcuni dei pagamenti effettuati con gli assegni esaminati dal primo giudice, peraltro fondate su documentazione prodotta per la prima volta in sede di gravame, restano inammissibili.

§ 4. L’unico motivo di gravame proposto dal (A) è fondato.
Sin dall’atto di citazione innanzi al primo grado, con il quale aveva proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso in favore della (C) s.p.a., il (A) aveva eccepito l’estinzione di ogni obbligazione a suo carico, in forza dell’avvenuto pagamento dell’intero importo dovuto, mediante i due assegni emessi in data 15-7-2003 per complessivi euro 1946,00 e mediante non meglio indicati assegni postali.
Successivamente, nella memoria depositata nel secondo termine di cui all’art. 183,6° comma c.p.c., lo stesso (A), confermando l’eccezione di avvenuto pagamento, precisò che il pagamento residuo era stato effettuato con bonifico bancario di euro 3870,12, di cui allegava la distinta bancaria. In merito nulla rilevava la (C) ( e per essa oggi la (B) s.p.a.) che, anche in sede di gravame, si limita a proporre le deduzioni esaminate in merito ai pagamenti accertati dal primo giudice, ma nulla deduce sull’ulteriore pagamento risultante dal bonifico in atti.
Le critiche che l’appellante muove alla sentenza impugnata sono, quindi, fondate, dal momento che il primo giudice, nel detrarre dall’importo dovuto alla (C) i pagamenti effettuati dal (A), non ha affatto considerato il bonifico in atti, che pure era stato documentato con la bancale depositata tempestivamente.
In detta bancale si riscontra l’imputazione del pagamento, poiché il bonifico reca la causale “chiusura pratica (D) 4061989”.

§ 5. La sentenza impugnata va, quindi, riformata nella sola parte appellata, laddove non ha tenuto conto dell’avvenuta
prova del pagamento di tale ulteriore somma, con la conseguenza che nessun credito residua in capo alla odierna appellata.
In riforma della sentenza impugnata, ferma la revoca del decreto ingiuntivo opposto, va, quindi, rigettata la domanda proposta dalla (C) s.p.a. nei confronti di (A).
§ 6. Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo in base alla natura e al valore della controversia e all’entità ed al numero delle questioni trattate, quelle di appello secondo i nuovi parametri fissati dal DM 140/2012, seguono la soccombenza, con attribuzione alle procuratrici rispettivamente dichiaratesi anticipatarie.

PQM

La Corte di Appello, definitivamente pronunciando, sull’appello proposto da (A) avverso la sentenza n. 2056/2014 del Tribunale di Torre Annunziata, così provvede:
1) Accoglie l’appello e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, rigetta la domanda proposta dalla (C) s.p.a. nei confronti di (A);
2) condanna la (C) s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio che liquida, per il primo grado, in € 132,00 per esborsi ed euro 1100,00 per competenze professionali e, per il secondo grado, in € 185,61 per esborsi ed € 1830,00 per compensi professionali, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, con attribuzione, quanto a quelle del primo grado, in favore dell’avv. ___ e, quanto a quelle del secondo grado, alle avvocatesse ____ e ___, anticipatarie.
Così deciso in Napoli, il 30 settembre 2015.
IL CONSIGLIERE EST.
dott. Maria Teresa Mondo
IL PRESIDENTE
dott. Rosa Giordano
Depositato il 18 novembre 2015


 

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