REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SALME' Giuseppe - Presidente -
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere -
Dott. RUBINO Lina - Consigliere -
Dott. CIRILLO Francesco Maria - rel. Consigliere -
Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza

sul ricorso 7191/2011 proposto da:

C.P.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell'avvocato BENITO PANARITI, rappresentato e difeso da se medesimo;

- ricorrente -
contro
V.L., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da se medesimo;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 3383/2010 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 14/12/2010 R.G.N. 1374/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/07/2014 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l'inammissibilità in subordine rigetto.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Monza, accogliendo la domanda proposta dall'avv. V.L. nei confronti dell'avv. C.P.L., condannò quest'ultimo al pagamento della somma di Euro 15.000, liquidata in via equitativa, ordinando la cancellazione, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., di alcune frasi sconvenienti ed offensive inserite dall'avv. C. negli atti di quel giudizio; condannò altresì l'avv. C. al risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 96 c.p.c., nonchè al pagamento delle spese di giudizio.
La domanda traeva origine da un altro giudizio, di opposizione all'esecuzione, svoltosi davanti al Tribunale di Como, Sezione distaccata di Erba, nel corso del quale l'avv. C. aveva inserito in alcuni atti del processo una serie di osservazioni e considerazioni che l'avv. V. aveva ritenuto gravemente offensive nei suoi confronti, chiedendo il risarcimento dei danni nel separato giudizio di cui sopra.

2. La sentenza del Tribunale di Monza è stata appellata dall'avv. C. e la Corte d'appello di Milano, con sentenza del 14 dicembre 2010, ha rigettato l'appello, confermando la sentenza di primo grado e condannando l'appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.
3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Milano propone ricorso l'avv. C.P.L., con atto affidato a cinque motivi.
Resiste l'avv. V.L. controricorso.
Le parti hanno presentato memorie.

Motivazione

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 148 c.p.c., oltre ad omessa e insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi.
Osserva il ricorrente che la Corte d'appello avrebbe errato nel negare la nullità dell'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado per nullità della notifica. Sussisterebbe, infatti, una differenza sostanziale tra la relata di notifica apposta sull'originale e quella apposta sulla copia notificata; in particolare l'ufficiale giudiziario, nel dare atto del rifiuto di ricevere l'atto da parte della moglie del destinatario, si sarebbe limitato ad indicare di aver provveduto alla notifica ai sensi dell'art. 140 cit., senza fornire le dovute precisazioni circa le modalità in concreto seguite per tali adempimenti. Nè assumerebbe rilievo il fatto che l'avv. C. si sia ugualmente costituito, perchè la nullità della notifica non lo avrebbe posto in condizione di difendersi adeguatamente.

1.1. Il motivo non è fondato.
La Corte d'appello ha spiegato che nel caso in esame la compilazione della relata di notifica era avvenuta su un foglio separato rispetto a quello sul quale era scritto l'atto da notificare ed ha aggiunto che la relata redatta dall'ufficiale giudiziario aveva dato conto dell'assenza momentanea del destinatario e del rifiuto di ricevere l'atto da parte della moglie convivente dell'avv. C.. La sentenza ha poi precisato, con argomentazione in sostanza non contestata dal ricorrente, che la moglie dell'avv. C. aveva ritirato il plico presso l'ufficio postale in data 2 aprile 2004.
Ha osservato per contro il ricorrente di essersi costituito soltanto in data 5 ottobre 2004, chiedendo al giudice di rilevare la nullità della notifica; tale costituzione, avvenuta "ben oltre la prima udienza del 27 maggio 2004" (v. ricorso, pp. 6-7), avrebbe determinato un pregiudizio, peraltro non adeguatamente specificato, in danno dell'allora convenuto, il quale non avrebbe potuto svolgere domande riconvenzionali o chiamare in causa altre parti.
Rileva il Collegio, però, che, essendo stato ritirato il plico dalla moglie dell'avv. C. in data 2 aprile 2004, l'eventuale sussistenza di una qualche irregolarità nel procedimento di notificazione sarebbe da ritenere comunque sanata, tanto più che l'odierno ricorrente ha avuto a disposizione un tempo più che sufficiente per costituirsi tempestivamente in relazione alla data del 27 maggio 2004 fissata per la prima udienza, in considerazione del termine di venti giorni di cui all'art. 166 c.p.c. (v., in argomento, tra le altre, la sentenza 14 luglio 2005, n. 14817). La decisione di costituirsi soltanto il successivo 5 ottobre 2004, quindi, è da ritenere frutto di una scelta della parte, senza che sia ravvisabile alcuna nullità della notifica.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 89 e 112 c.p.c., dell'art. 2909 c.c. e dell'art. 368 c.p., oltre ad omessa e insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi.
Si sostiene, al riguardo, che, poichè la domanda risarcitoria proposta dall'avv. V. si fondava sull'attribuzione, a carico del ricorrente, dei reati di diffamazione e calunnia, una volta esclusi detti reati la domanda avrebbe dovuto essere rigettata. E, poichè lo stesso avv. V. aveva negato, nell'atto di costituzione in appello, di aver svolto alcuna domanda specifica di condanna del collega C. per diffamazione e calunnia, su tale questione si sarebbe formato il giudicato, non tenuto in considerazione dalla Corte d'appello. Si aggiunge, infine, che le accuse relative ai menzionati delitti avrebbero dovuto, comunque, essere espunte dagli atti ai sensi dell'art. 89 c.p.c..

2.1. Il motivo è evidentemente infondato.
L'oggetto di un giudizio civile per risarcimento dei danni conseguenti all'utilizzo di affermazioni sconvenienti o offensive nei confronti di un collega è diverso da quello - che peraltro non risulta essere stato mai intrapreso - di un giudizio penale finalizzato all'esistenza o meno di un determinato reato. Ne consegue che nessun giudicato poteva essersi formato circa l'inesistenza dei reati; ed è del tutto ragionevole che l'avv. V. abbia negato di aver svolto una qualche domanda volta all'accertamento dei reati di calunnia o diffamazione. Ciò non si traduce, tuttavia, nell'esistenza di un vincolo in negativo a carico del giudice civile, il quale ben poteva ritenere - come in effetti ha ritenuto - che le affermazioni utilizzate dall'avv. C. andassero oltre i limiti consentiti dal corretto svolgimento dell'attività difensiva.

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione dell'art. 89 c.p.c., oltre ad omessa e insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi.
Osserva il ricorrente che la sentenza impugnata non si sarebbe preoccupata di dare conto del perchè, "anche volendo ammettere la possibilità di proporre l'azione risarcitoria ex art. 89 c.p.c., in un separato processo, tale azione possa essere proposta anche nei confronti del difensore, anzichè esclusivamente nei confronti della parte, come invece stabilito dall'art. 89 c.p.c.". Il motivo in esame, che si svolge attraverso un ampio excursus critico della giurisprudenza di questa Corte, in sostanza rileva che delle espressioni sconvenienti ed offensive contenute negli scritti difensivi deve rispondere sempre solo la parte, anche quando le offese provengono dal difensore, non potendosi perciò avanzare alcuna pretesa risarcitoria nei confronti di quest'ultimo.

3.1. Il motivo non è fondato.
La giurisprudenza di questa Corte è ormai giunta ad approdi consolidati circa l'interpretazione dell'art. 89 c.p.c., in particolare per quello che riguarda il caso specifico, ossia la possibilità di agire per il risarcimento dei danni conseguenti all'uso delle espressioni sconvenienti o offensive anche nei confronti del difensore.

Già la sentenza 7 agosto 2001, n. 10916, aveva riconosciuto che simile responsabilità processuale ha natura "analoga a quella aquiliana" e, quindi, l'antigiuridicità dei comportamenti previsti dagli artt. 89 e 96 c.p.c., non si esaurisce nell'ambito del processo. La successiva pronuncia 26 luglio 2002, n. 11063, non è in contrasto con la precedente, perchè si limita a dare atto che, quando la domanda risarcitoria è posta all'interno del processo, essa non può rivolgersi se non nei confronti delle parti in causa, e l'avvocato difensore non è parte in causa.
La giurisprudenza successiva ha definitivamente chiarito che competente ad accertare e liquidare il danno derivante dall'uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell'art. 89 c.p.c., è di norma lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel quale sono state usate le suddette espressioni. A tale competenza, tuttavia, è necessario derogare quando il giudice non possa, o non possa più, provvedere con sentenza sulla domanda di risarcimento, il che accade, in particolare, nei seguenti casi: A) quando le espressioni offensive siano contenute in atti del processo di esecuzione, che per tale sua natura non può avere per oggetto un'azione di cognizione; B) quando siano contenute in atti di un processo di cognizione che però, per qualsiasi motivo, non si concluda con sentenza (come nel caso di estinzione del processo); C) quando i danni si manifestino in uno stadio processuale in cui non sia più possibile farli valere tempestivamente davanti al giudice di merito (come nel caso in cui le frasi offensive siano contenute nella comparsa conclusionale del giudizio di primo grado); D) quando la domanda di risarcimento sia proposta nei confronti non della parte ma del suo difensore (sentenze 9 luglio 2009, n. 16121, 3 marzo 2010, n. 5062, nonchè, in tempi recentissimi, l'ordinanza 29 agosto 2013, n. 19907, e la sentenza 12 settembre 2013, n. 20891).

In particolare, la citata ordinanza n. 19907 del 2013, emessa in un giudizio tra le stesse parti odierne, ha chiarito che il riconoscimento della competenza di un giudice diverso quando la domanda è stata proposta contro il difensore costituisce l'evidente riconoscimento che tale azione è proponibile, risultando altrimenti detta affermazione contraria alla logica ed al buon senso.
Nel caso specifico, poi, è palese che sussistevano almeno due ragioni tali da imporre che la domanda contro il difensore venisse proposta in un giudizio separato: il fatto che gli scritti offensivi erano contenuti in un giudizio di opposizione all'esecuzione e che, per di più, le affermazioni in questione erano state formulate in una memoria di replica, ossia in una fase nella quale l'oggetto del giudizio non poteva certamente essere ulteriormente ampliato.

3.2. Da tanto consegue l'infondatezza del motivo in esame, senza che sia prospettabile alcun contrasto di giurisprudenza, come il ricorrente segnala nella propria memoria di udienza.

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 1306, 2055 e 2909 c.p.c., oltre ad omessa e insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi.
Osserva il ricorrente che il Tribunale di Como aveva già emesso una pronuncia tra le medesime parti, stabilendo che la condanna di cui all'art. 89 c.p.c., poteva essere rivolta soltanto nei confronti delle parti in causa e non del difensore; tale pronuncia sarebbe passata in giudicato, sicchè il Tribunale di Monza, prima, e la Corte d'appello di Milano, poi, non avrebbero potuto emettere la sentenza di condanna in esame. E poi, anche ammettendo la possibilità di rivolgere la pretesa nei confronti del difensore, si tratterebbe comunque di responsabilità solidale ai sensi dell'art. 2055 c.c..

4.1. Il motivo non è fondato.
Le argomentazioni poste dal ricorrente sono, sul punto, in parte ripetitive di quelle già affrontate a proposito del precedente motivo di ricorso, sicchè non è necessario dilungarsi ulteriormente al riguardo.
Quanto, invece, al profilo della possibile lesione del giudicato esterno, osserva il Collegio che la sentenza impugnata, con accertamento in fatto correttamente motivato, ha dato atto che la sentenza del Tribunale di Como in altro giudizio e quella del Tribunale di Monza nell'odierno giudizio sono state rese in processi con parti diverse - essendo in comune soltanto la parte avv. V. - aventi ad oggetto differenti espressioni offensive formulate dall'avv. C. in procedimenti distinti. Il che dimostra l'evidente impossibilità di configurare un giudicato esterno. A fronte delle condivisibili affermazioni della Corte milanese - in rapporto alle quali non è prospettabile alcuna censura di vizio di motivazione - il ricorrente richiama gli artt. 1306 e 2055 c.c., ed un presunta opponibilità della sentenza resa tra il creditore e gli altri debitori in solido; ma ciò non muta i termini del problema, in quanto non supera il rilievo della Corte d'appello circa la diversità sia delle espressioni oggetto della domanda risarcitoria sia dei processi nei quali le stesse sono state rese.

5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 91, 96 e 112 c.p.c., oltre ad omessa e insufficiente motivazione su punti controversi e decisivi.
Rileva il ricorrente che la sentenza di primo grado confermata dalla Corte d'appello nonostante le proposte censure - aveva accolto la domanda di cui all'art. 96 c.p.c., in relazione a profili diversi da quelli denunciati. La domanda, infatti, era stata proposta sotto due profili: la falsa affermazione dell'avv. C. di non conoscere l'avv. V. e l'avere il primo depositato nel giudizio di danni 64 documenti risultati tutti irrilevanti, costringendo la controparte ad esaminarli. A fronte di simile domanda, i giudici di merito avrebbero accolto la richiesta di condanna a causa della palese infondatezza della totalità delle argomentazioni utilizzate dall'avv. C., cioè mutando il fondamento della domanda.
Oltre a ciò, la sentenza d'appello avrebbe omesso ogni pronuncia circa l'entità della condanna, che il Tribunale aveva determinato moltiplicando la somma di Euro 32 (diritto di disamina) per i 64 documenti prodotti ed esaminati, arrivando così alla liquidazione di Euro 1.000.

5.1. Il motivo non è fondato.
Si osserva, innanzitutto, che esso contiene una serie di censure, in parte anche ripetitive fra di loro, formulate in modo tale che non è agevole coglierne l'esatto contenuto.
Tanto premesso, il Collegio rileva che non sussiste la violazione dell'art. 112 c.p.c., perchè dalla sentenza in esame si comprende agevolmente che il Tribunale e poi la Corte d'appello, che sul punto ha richiamato e fatto propria la prima sentenza, hanno basato la condanna su una serie di elementi, tra i quali l'infondatezza delle domande, la falsità dell'affermazione dell'avv. C. di non conoscere l'avv. V. e il comportamento defatigatorio tenuto dall'odierno ricorrente attraverso la produzione di una cospicua mole di documenti rivelatasi, poi, del tutto irrilevante. Non ha senso, quindi, nè parlare di una violazione del principio della domanda, perchè le due rationes decidendi si integravano fra loro, nè contestare la liquidazione sotto il profilo del presunto errore di conteggio derivante dal numero dei documenti 64, appunto - che i giudici di merito avrebbero dovuto inutilmente esaminare.
L'accertamento dell'esistenza delle condizioni per la pronuncia della condanna per lite temeraria, infatti, è rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se immune da vizi logici e giuridici (sentenze 8 gennaio 1992, n. 126, e 8 novembre 1994, n. 9228); il fondamento di tale condanna va ravvisato nella coscienza della infondatezza della domanda e delle tesi sostenute, ovvero nel difetto della normale diligenza per l'acquisizione di detta consapevolezza (sentenza 6 giugno 2003, n. 9060).

Nella specie la Corte d'appello, sia pure richiamando per relationem la motivazione della sentenza di primo grado, ha spiegato che la condanna si fondava su tutte le circostanze di fatto e le deduzioni dell'avv. V., il che consente comunque di comprendere bene quale sia stata la ragione della condanna. Si tratta, come si percepisce con immediatezza, di una valutazione globale ed equitativa che resiste, pertanto, alle censure proposte nel ricorso.

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 17 luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2014


 

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