REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LAMORGESE Antonio - Presidente -
Dott. VENUTI Pietro - Consigliere -
Dott. DI CERBO Vincenzo - Consigliere -
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere -
Dott. LORITO Matilde - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 18709-2012 proposto da:
A.A.;
- ricorrente -
contro
Z.E.;
- intimata -
avverso la sentenza n. 989/2012 della CORTE D'APPELLO di MESSINA, depositata il 11/06/2012 R.G.N. 1290/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/03/2015 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l'Avvocato CATALANO ROBERTO per delega ZEBITO RUGGERO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CERONI Francesca che ha concluso per:
inammissibilità in subordine accoglimento per quanto di ragione.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 3210/2010 il Giudice del lavoro del Tribunale di Messina rigettava la domanda proposta da Z.E. con ricorso depositato il 6-6-2008 con il quale l'istante, dopo avere premesso di avere lavorato come operaia agricola presso la ditta A. A. dal 2002 al 23-1-2007, aveva chiesto che venisse dichiarata la nullità del licenziamento intimatole non appena il datore di lavoro aveva avuto conoscenza del suo stato di gravidanza, con la condanna della ditta convenuta alla sua reintegra nel posto di lavoro oltre al pagamento delle retribuzioni omesse dalla data del licenziamento sino al ripristino del rapporto di lavoro.
Il giudice di primo grado fondava la decisione sulla circostanza dedotta da parte datoriale, che aveva eccepito la decadenza dall'impugnazione del licenziamento, avendo l'istante lasciato decorrere il termine di sei mesi dal licenziamento intimatole per giusta causa.

Con ricorso del 6-8-2010 la Z. proponeva appello avverso la detta sentenza, contestando l'argomentazione avversaria non potendo il termine di decadenza trovare applicazione all'ipotesi di nullità del licenziamento de qua, neppure in via analogica. L'appellante evidenziava, poi, che il licenziamento non era stato intimato per iscritto e concludeva chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento di 15 mensilità di retribuzione globale di fatto oltre al pagamento delle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento sino al compimento di un anno di età del bambino.
L' A. si costituiva assumendo che il licenziamento era stato intimato per giusta causa in considerazione della protratta e ingiustificata assenza della lavoratrice mentre nessuna comunicazione la stessa aveva dato del suo stato di gravidanza di cui il resistente assumeva avere avuto contezza solo alla fine di novembre 2007 e dopo la comunicazione alla Z.. Faceva inoltre presente che la lavoratrice era stata assente per malattia e alla fine di tale periodo non si era presentata al lavoro senza fornire comunicazione alcuna; che con lettera del 23-11-2007 aveva comunicato il licenziamento e il 17-3-2008 aveva versato alla lavoratrice l'importo dovuto in forza della busta paga del novembre 2007 mentre l'impugnativa del licenziamento gli veniva comunicata solo il 29-3- 2008 oltre il termine di 60 giorni di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6. Escludeva, poi, di avere impedito alla lavoratrice di rientrare al lavoro e, comunque, di avere avuto in precedenza comunicazione del suo stato di gravidanza. In ogni caso escludeva la applicabilità della tutela reale. Concludeva quindi chiedendo la riforma dell'impugnata sentenza e in via incidentale la condanna della ricorrente al risarcimento dei danni conseguenti all'inadempimento della stessa, con vittoria di spese.

La Corte d'Appello di Messina, con sentenza depositata l'11-6-2012, in accoglimento dell'appello, dichiarava la nullità e la conseguente inefficacia del licenziamento intimato in violazione della L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 2 e condannava la ditta A. A. al pagamento in favore della lavoratrice, a titolo risarcitorio in luogo della reintegra, di una somma corrispondente a 15 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto oltre al pagamento di tutte le retribuzioni dovutele dalla data del licenziamento e sino al compimento di un anno di età del figlio.

In sintesi la Corte territoriale, riteneva la nullità del licenziamento de quo, in quanto intimato nel periodo protetto, e la inapplicabilità, nella specie, del termine di decadenza previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6. Affermata, poi, la applicabilità della tutela reale, accoglieva la richiesta della indennità sostitutiva della reintegra, e riconosceva altresì il diritto al risarcimento pari alle retribuzioni dal licenziamento sino al compimento del primo anno di vita del bambino (data fino alla quale il rapporto doveva ritenersi giuridicamente pendente).

Per la cassazione di tale sentenza l' A. ha proposto ricorso con quattro motivi.
La Z. è rimasta intimata.

Motivazione

Con il primo motivo, premesso che la lavoratrice era rimasta assente ingiustificata per 15 giorni dal posto di lavoro (dal 14-10-2007 - data di scadenza del certificato presentato il 18-9-2007- sino al 23- 11-2007), così integrandosi la previsione di cui all'art. 69 del ccnl agricoltura (assenza ingiustificata superiore a tre giorni), il ricorrente sostiene che, ricorrendo la giusta causa prevista dalla contrattazione collettiva e sussistendo un caso di deroga al divieto di licenziamento D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 54, comma 3, lett. a), erroneamente la Corte d'Appello non ha applicato la decadenza L. n. 604 del 1966, ex art. 6 così come invece aveva fatto correttamente il primo giudice.

Con il secondo motivo, il ricorrente, denunciando violazione degli artt. 116 e 414 c.p.c., art. 2697 c.c., e L. n. 300 del 1970, art. 18 censura l'impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto applicabile nella specie la tutela reale, in base ad una testimonianza che confliggeva con le risultanze del foglio presenze (doc. n. 7) e che proveniva da una teste (l' A., sorella del datore di lavoro) che era stata ritenuta inattendibile in ordine alla questione attinente alla mancata conoscibilità della gravidanza della Z..

Con il terzo motivo il ricorrente rileva che erroneamente la Corte territoriale non ha riconosciuto "alcuna rilevanza alla condotta inadempiente della lavoratrice che dissimula il proprio stato di gravidanza significando in luogo di quest'ultima una malattia ordinaria ed omette successivamente di comunicare ..il proprio stato di gravidanza difficile al datore di lavoro", nel contempo attribuendo "una rilevanza surrogatoria dell'obbligo di certificazione de qua alla indicazione meramente labiale del coniuge della lavoratrice relativa alla esistenza della gravidanza". In sostanza il ricorrente sostiene che "dalla inosservanza del termine di comunicazione della certificazione prevista dal D.P.R. n. 1026 del 1976 e dalla contestuale assenza di elementi probatori seri precisi e concordanti sulla conoscenza da parte del datore di lavoro acquisita aliunde della gravidanza, doveva scaturire la delibazione di inesistenza del diritto della dipendente licenziata alle retribuzioni, fosse anche a titolo indennitario, dal recesso alla data di notifica del ricorso introduttivo del giudizio de quo".

Con il quarto motivo, denunciando violazione degli artt. 112 e 257 c.p.c. in relazione all'art. 24 Cost., il ricorrente in sostanza lamenta che la Corte d'Appello "nulla ha riferito in termini motivazionali sulla "richiesta di prova testimoniale de relato nella persona del sig. A.M." in ordine alla circostanza della asserita offerta, da parte della Z. nel settembre 2007, della prestazione lavorativa nonostante la malattia, senza che la lavoratrice riferisse alcunchè sulla propria gravidanza.

I detti motivi risultano in parte inammissibili e in parte infondati.

Il primo motivo è infondato.

Come è stato più volte affermato da questa Corte, "il licenziamento intimato alla lavoratrice dall'inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino in violazione della L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 2 è affetto da nullità, a seguito della pronuncia della Corte Cost. n. 61 del 1991, ed è improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente e il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall'inadempimento, in ragione dal mancato guadagno" (v. Cass. 15-9-2004 n. 18537, Cass. 10-8-2007 n. 17606).

Del resto "il divieto di licenziamento di cui alla L. n. 1204 del 1971, art. 2 opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza o puerperio e, pertanto, comporta, ai sensi del D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 54, comma 5 la nullità del licenziamento intimato nonostante il divieto" (v. Cass. 1-12-2010 n. 24349, Cass. 1- 2-2006 n. 2244).

Tanto premesso, come è stato chiarito da questa Corte "il termine di sessanta giorni per l'impugnazione del licenziamento previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 deroga al principio generale - desumibile dagli artt. 1421 e 1422 cod. civ. - secondo il quale, salvo diverse disposizioni di legge, la nullità può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse e l'azione per farla dichiarare non è soggetta a prescrizione. Ne consegue che, sotto questo profilo, la disposizione di cui al citato art. 6 legge n. 604 del 1966 è da considerarsi di carattere eccezionale e non è perciò applicabile, neanche in via analogica, ad ipotesi di nullità del licenziamento che non rientrino nella previsione della citata L. n. 604 del 1966.

E' pertanto da escludersi che il suddetto termine di sessanta giorni per l'impugnativa sia applicabile ai licenziamenti previsti dalla L. n. 7 del 1963, art. 1 (sul divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio) e dalla L. n. 1204 del 1971, art. 2 (sulla tutela delle lavoratrici madri), ai quali vanno invece applicati i principi generali di cui ai citati artt. 1421 e 1422 cod. civ." (v.Cass. 30-5-1997 n. 4809, Cass. 20-1-2000 n. 610, Cass. 27-8-2003 n. 12569).

Peraltro questa Corte ha anche precisato che "la condotta della lavoratrice gestante o puerpera, la quale - al momento dell'assunzione al lavoro con contratto a tempo determinato - non porta a conoscenza del suo stato il datore di lavoro, non può in alcun caso concretizzare una giusta causa di risoluzione del rapporto lavorativo e, più specificamente, la "colpa grave" prevista dalla L. n. 1204 del 1971, art. 2, comma 3, lett. a), atteso che un siffatto obbligo di informazione - che, peraltro, non può essere desunto dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. o da altri generali principi dell'ordinamento - finirebbe per rendere inefficace la tutela della lavoratrice madre ed ostacolerebbe la piena attuazione del principio di parità di trattamento, garantito costituzionalmente e riaffermato anche dalla normativa comunitaria (Direttive CEE n. 76/207 e 92/85)" (v. Cass. 6- 7-2002 n. 9864).

Alla luce di tali principi, ai quali si è conformata l'impugnata sentenza, il primo motivo risulta quindi infondato.

Il secondo motivo, poi, risulta inammissibile in quanto privo di autosufficienza.
Premesso che "in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità" (v. fra le altre Cass. 20-6-2006 n. 14267), come è stato più volte affermato da questa Corte, "qualora, con il ricorso per cassazione, venga dedotto il vizio di motivazione della sentenza impugnata per l'asserito omesso esame di un documento, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività del documento non valutato (o insufficientemente valutato), che il ricorrente precisi - mediante integrale trascrizione del contenuto dell'atto nel ricorso - la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l'esame diretto degli atti di causa, di delibare la decisività della risultanza stessa" (v. Cass. 4-3-2014 n. 4980, Cass. 27-2-2009 n. 4849, Cass. 17-5-2007 n. 11457).

Orbene nel caso in esame, in sostanza, il ricorrente lamenta la mancata considerazione di un foglio presenze il cui contenuto non viene minimamente riportato nel ricorso, così come neppure viene riportata la testimonianza considerata dalla Corte di merito e censurata dal ricorrente, con una censura che, peraltro, si risolve in una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio", non sussumibile nel "controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., n. 5" (v., fra le altre, Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766, Cass. 7-1-2014 n. 91).

Parimenti, poi, non meritano accoglimento il terzo e il quarto motivo.
Vero è che questa Corte ha ritenuto che il licenziamento intimato nonostante il divieto di cui alla L. n. 1204 del 1971, art. 2 "comporta, anche in mancanza di tempestiva richiesta di ripristino del rapporto, il pagamento delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto, le quali maturano a decorrere dalla presentazione del certificato attestante lo stato di gravidanza (D.P.R. n. 1026 del 1976, art. 4)" (v. Cass. 1-2-2006 n. 2244).
Tuttavia, come è stato precisato da Cass. 20-7-2012 n. 12693, "questo non significa che la presentazione del certificato sia indispensabile, anche soltanto al fine limitato del diritto alla retribuzione, e che non possa essere sostituita, a tutti gli effetti, dalla conoscenza effettiva, ottenuta anche altrimenti, che il datore di lavoro abbia avuto dello stato di gravidanza della lavoratrice" (v., in tal senso già Cass. 16-2-2007 n. 3620). Al riguardo, peraltro, va richiamata quella giurisprudenza secondo cui la certificazione "risponde ad una mera funzione probatoria, che può essere assolta anche con mezzi diversi" (Cass. 21-8-2004 n. 16505), e l'invio del certificato può trovare un equipollente "nella conoscenza dello stato di gravidanza da parte del datore di lavoro" (Cass., SU 4-3-1988 n. 2248).

Orbene nella fattispecie la Corte di merito ha accertato che "le circostanze dedotte dal datore di lavoro lasciano adito a numerose perplessità sia per la contraddittorietà delle stesse, lì dove assume che la lavoratrice aveva offerto di prestare la sua attività lavorativa durante lo stesso periodo di malattia concessole, dimostrando così di sapere le ragioni dell'allontanamento della Z., sia per la non credibilità dell'assunto suo e delle dipendenti, di cui una è la sorella e l'altra una dipendente, di non essersi accorto dello stato di gravidanza della lavoratrice giunta al sesto mese di gravidanza, ciò allo scopo di predisporre un provvedimento di licenziamento diversamente giustificato".
Tale accertamento di fatto, conforme ai principi sopra richiamati, risulta altresì congruamente motivato e resiste alle censure del ricorrente, che, del resto, parimenti, si risolvono in una inammissibile richiesta di revisione del "ragionamento decisorio" e di riesame del merito.

Peraltro, sul quarto motivo va inoltre rilevato che il ricorrente denunciando violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sull'istanza di ammissione della prova testimoniale de relato nella persona di A.M., in realtà lamenta soltanto una carenza di motivazione al riguardo, senza che il motivo, in sostanza, rechi alcun riferimento ad una nullità della decisione che possa inquadrarsi nel vizio denunciato (cfr. Cass. S.U. 24-7-2013).

Il ricorso va pertanto respinto.
Infine non deve provvedersi sulle spese non avendo l'intimata svolto alcuna attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2015.
Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2015.


 

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