REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido - Presidente -
Dott. BANDINI Gianfranco - Consigliere -
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - Consigliere -
Dott. LORITO Matilde - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 18569/2012 proposto da:
P.G., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUCREZIO CARO 38, presso lo studio dell'avvocato PERAINO ANTONINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti e da ultimo domiciliato presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
- ricorrente -
contro
ISTITUTO NEUROTRAUMATOLOGICO ITALIANO S.P.A. (già INI - ISTITUTO NEUROTRAUMATOLOGICO ITALIANO S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell'avvocato MARAZZA MAURIZIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DOMENICO DE FEO, MARCO MARAZZA, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 8823/2011 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 10/02/2012 R.G.N. 6513/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2014 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l'Avvocato PERAINO ANTONINO;
udito l'Avvocato MARAZZA MAURIZIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 1745 del 2009 il Giudice del lavoro del Tribunale di Velletri rigettava le domande avanzate da P.G. nei confronti dell'Istituto Neurotraumatologico Italiano - INI - s.r.l., aventi ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato in data 15-10-1999 perchè irrituale e privo di giusta causa o giustificato motivo, con l'ordine alla società di reintegrarlo nel posto di lavoro e di corrispondergli le retribuzioni globali di fatto dal licenziamento alla reintegra, nonchè il risarcimento del danno biologico, alla immagine, professionale ed esistenziale complessivamente ammontante ad Euro 350.000,00 o ad altra soma ritenuta di giustizia.

Il P. con ricorso 2-7-2010 proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l'accoglimento delle domande formulate in primo grado.
L'INI si costituiva e resisteva al gravame.
La Corte d'Appello di Roma, con sentenza depositata il 10-2-2012, respingeva l'appello e condannava l'appellante al pagamento delle spese.
In sintesi la Corte territoriale, ritenuta tempestiva anche la seconda contestazione del 22-9-1999, e non solo la prima (costituente anche diffida) del 9-11-1998, giacchè lo svolgimento durante l'orario di lavoro, con apparecchiature proprie, di prestazioni private a malati oncologici, intra moenia, con relativi compensi percepiti direttamente dai pazienti, senza specifica autorizzazione dell'INI ed in palese contrasto con le previsioni contrattuali, aveva richiesto i necessari accertamenti presso i pazienti o i parenti dei pazienti, accertava la sussistenza effettiva dei fatti contestati, e li giudicava senz'altro gravi e sufficienti ad integrare la giusta causa di licenziamento, in ragione della delicata funzione e della responsabilità in capo al P., nonchè dell'elemento soggettivo accertato (anche per la reiterazione dei fatti dopo la diffida) e del disvalore ambientale della condotta tenuta dallo stesso.
Per la cassazione di tale sentenza il P. ha proposto ricorso con tre motivi.
L'INI s.p.a. (già INI s.r.l.) ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivazione

Preliminarmente va rilevato che il ricorso risulta formulato in gran parte con la "tecnica dell'assemblaggio" e che in sostanza soltanto nelle pagine da 139 a 146 vengono, poi, sviluppati direttamente i motivi dell'impugnazione, i quali, al loro interno, contengono, in qualche modo, anche una sintetica esposizione dei relativi fatti.
Una tale formulazione, in effetti, non sembra soddisfare il requisito richiesto dall'art. 366 c.p.c., n. 3 (cfr. Cass. S.U. 11-4-2012 n. 5698).
A parte ciò va comunque rilevato che tutti e tre i motivi risultano infondati.

Con il primo motivo, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 3 e 4, il P. deduce la "sostanziale coincidenza delle due contestazioni disciplinari e la completa ammissione dei fatti contenuta nelle giustificazioni prodotte dal ricorrente con lettera del 9-11-1998", di guisa che non erano necessarie "ulteriori e lunghe indagini dal momento che la casa di cura, anche se non in possesso di idonea documentazione probatoria, aveva comunque ricevuto la piena confessione del dipendente". D'altra parte la circostanza (riferita dalla Corte territoriale come da accertare) concernente lo svolgimento delle prestazioni elettromedicali durante l'orario di lavoro, non era stata oggetto di contestazione disciplinare in sede di rinnovazione della stessa in data 12-10-1999, e l'INI era a conoscenza dei fatti contestati "almeno dalla data in cui gli stessi avevano formato oggetto del primo procedimento disciplinare, ossia dal 4-11-1998, sicchè la seconda contestazione di addebiti doveva essere ritenuta senz'altro tardiva".

Il motivo è infondato.
Innanzitutto, come risulta chiaramente dal tenore letterale delle due contestazioni disciplinari ed è stato evidenziato dai giudici di merito, la prima contestazione conteneva, oltre ad una espressa diffida, anche un generico addebito ("la scrivente è venuta a conoscenza del fatto che lei...effettuerebbe") di svolgimento di "attività privata all'interno dell'INI durante l'orario di lavoro" per prestazioni elettromedicali a pagamento, mentre la seconda, oltre a far riferimento a circostanze accadute anche dopo la prima contestazione fino a comprendervi i primi mesi del 1999, conteneva un elenco preciso delle prestazioni libero professionali contestate e si concludeva espressamente nell'addebito di aver "fatto uso dell'impiego ai fini di interessi personali illecitamente ed illegittimamente" ed in particolare - "approfittando della buona fede dei pazienti - malati oncologici - che si sono rivolti a questa struttura al fine di ottenere tutte le cure necessarie, ai quali era ed è dovuta assistenza completa e gratuita, alcuni in stato di ricovero, approfittando del loro stato gravissimo di necessità" - di aver "presentato ingiustamente e richiesto rimborsi, senza alcuna autorizzazione in merito, a fronte di trattamenti terapeutici" e di aver "percepito direttamente dagli stessi gli importi relativi".
La Corte di merito ha poi accertato sulla base delle risultanze della prova testimoniale che "nel lasso di tempo intercorso tra la prima e la seconda contestazione la casa di cura si è adoperata per reperire i pazienti che avevano avuto contatti con il Dott. P. per prestazioni libero professionali" ed ha effettuato accurate indagini su tali prestazioni in concreto svolte, al fine di verificarne l'entità e le modalità (considerato anche che il P. aveva contestato lo svolgimento durante l'orario di lavoro).
Considerata la necessità di tali indagini, rivolte altresì all'accertamento del proseguimento del comportamento del P., nonostante la formale diffida contenuta nella prima contestazione, legittimamente e con congrua motivazione la Corte di merito ha ritenuto tempestiva la contestazione del 22-9-1999.

Come è stato, infatti, più volte affermato da questa Corte, "nel licenziamento per giusta causa, il principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito deve essere inteso in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, quando l'accertamento e la valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore", in specie "quando (come nel caso in esame) il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un'unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria". "In ogni caso, la valutazione della tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato" (v. fra le altre, Cass. 8-3-2010 n. 5546, Cass. 22-3-2010 n. 6845, Cass. 17-12- 2008 n. 29480, Cass. 22-10-2007 n. 22066, Cass. 6-9-2006 n. 19159).
Il primo motivo va pertanto respinto.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell'art. 654 c.p.c., il ricorrente lamenta che la Corte di merito avrebbe escluso ogni rilevanza alle risultanze di cui alla sentenza penale n. 4722 del 18- 1-2003 del Tribunale di Roma, con la quale egli era stato assolto dal reato ascrittogli "perchè il fatto non sussiste", essendo, tra l'altro, emerso in quella sede che egli era stato autorizzato dalla amministratrice unica fin dal 1997 "a continuare a svolgere la sua attività utilizzando il materiale di sua proprietà", circostanza questa del tutto trascurata ai fini della verifica della tempestività della contestazione.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta che la Corte territoriale avrebbe "omesso di fornire adeguata motivazione in ordine alle ragioni per le quali si è ritenuto di escludere la tardività della contestazione disciplinare nonostante il preciso ed inequivoco accertamento effettuato in sede penale in merito al periodo in cui la casa di cura era venuta a conoscenza dei fatti successivamente contestati, peraltro già sostanzialmente ammessi con le prime giustificazioni del 9-11-1998.

Anche tali motivi, strettamente connessi fra loro, risultano infondati.
In base al principio più volte affermato da questa Corte, che va qui ribadito, "poichè nel nuovo codice di procedura penale non è stata riprodotta la disposizione di cui all'art. 3, comma 2, del codice abrogato, si deve ritenere che il nostro ordinamento non sia più ispirato al principio dell'unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, essendo stato dal legislatore instaurato il sistema della quasi completa autonomia e separazione tra i due processi, nel senso che, ad eccezione di alcune e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art. 75 c.p.p., comma 3, da un lato il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere influenzato dal processo penale e, dall'altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità (civile) con pienezza di cognizione, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale" (v. Cass. 18-1-2007 n. 1095, Cass. 25-3-2005 n. 6478, Cass. 29-12-2009 n. 27494, Cass. 17-6-2013 n. 15112).

Orbene nella specie la Corte di merito, nell'ambito dell'autonomo accertamento dei fatti, dopo aver verificato, in base all'istruttoria compiuta sia in sede penale sia in sede civile (in primo grado), che il P. era stato sì autorizzato "ad acquistare in proprio le apparecchiature elettromedicali ed utilizzarle all'interno della casa di cura, ma ovviamente nei limiti e secondo le norme contrattuali in vigore" (al di fuori, cioè, dell'orario di lavoro e con l'obbligo "di concordare le tariffe, la quota a carico della azienda, e quindi ricevere il compenso, mediante debita fatturazione, non dai pazienti, ma dal datore di lavoro" e senza alcuna "acquiescenza ad una qualunque condotta....anche al di fuori delle regole contrattuali e delle prassi seguite presso l'INI"), ha accertato che lo stesso P. ha effettivamente svolto attività intra moenia percependo direttamente i proventi dai pazienti, e ciò anche dopo che era stato formalmente diffidato dal proseguire in detta illecita attività ed invitato a comunicare alla casa di cura i proventi ricevuti (in effetti giammai comunicati), il tutto approfittando della sua delicata funzione di responsabilità e delle condizioni psicologiche dei pazienti oncologici (ed in special modo di quelli ricoverati).
Anche tale accertamento di fatto, conforme a diritto e sorretto da congrua motivazione, resiste alle censure del ricorrente, avendo peraltro la Corte di merito altresì evidenziato la necessità delle indagini ulteriori al fine di accertare l'entità e le effettive modalità delle prestazioni intra moenia effettuate (peraltro anche successivamente alla diffida), al di là delle generiche conoscenze pregresse.
Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente, in ragione della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese in favore della società controricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla società controricorrente le spese liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 6.000,00 per compensi, oltre spese generali e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2014


 

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