REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MACIOCE Luigi - Presidente -
Dott. D'ANTONIO Enrica - Consigliere -
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere -
Dott. GHINOY Paola - rel. Consigliere -
Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 3966-2012 proposto da:
T.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TEREZIO 21 SCALA C INT. 2, presso lo studio dell'avvocato CARLETTI GAETANO, rappresentato e difeso dall'avvocato MARCUCCIO MARCELLO, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
BELLO CARBURANTI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BELSIANA 71, presso lo studio dell'avvocato DELL'ERBA GIUSEPPE, rappresentata e difesa dall'avvocato NISI SALVATORE, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 2451/2011 della CORTE D'APPELLO di LECCE, depositata il 17/11/2011 r.g.n. 3885/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/11/2014 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY;
E' comparso l'Avvocato URSO MARCELLO; udito l'Avvocato NISI SALVATORE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA MARIO, che ha concluso per l'inammissibilità in subordine rigetto.

Svolgimento del processo

T.L. adiva il Tribunale di Lecce esponendo di avere lavorato dal 16.4.1980 al 30.6.2003 alle dipendenze del medesimo datore di lavoro, dapprima denominato ditta Bello Luigi, successivamente Bello Carburanti s.n.c. ed infine s.r.l. Bello Carburanti, società delle quali era socio, pur venendo formalmente assunto solo a far data dal 1.9.2001 e venendone licenziato con raccomandata del 30.6.2003 per giusta causa, a seguito di contestazione con la quale gli si addebitava il compimento di atti di violenza nei confronti della moglie, anch'ella socia della società.
Chiedeva il pagamento di differenze retributive, nonchè l'annullamento del licenziamento, con le conseguenze di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 ed il risarcimento dei danni.

Con la sentenza n. 2451 del 2011 la Corte d'Appello di Lecce, riformando parzialmente quella di primo grado, condannava la società al pagamento del t.f.r. per il periodo di lavoro subordinato dal 1.9.2001 al 30.3.2003 e rigettava le ulteriori domande. Quanto al periodo di lavoro precedente il 1.9.2001, la Corte argomentava che l'appellante non aveva dato la dimostrazione di avere svolto una prestazione di lavoro subordinato con il vincolo della soggezione gerarchica, considerato che le prestazioni erano consistite prevalentemente nella pesatura di carburante per conto terzi ed a titolo di favore. Per il periodo di lavoro successivo, formalizzato come dipendente, non risultava inoltre - ad avviso della Corte di merito - che egli avesse percepito una retribuzione inferiore a quella spettantegli.
Argomentava poi che il licenziamento era giustificato in quanto i reiterati atti di violenza commessi dal T. nei confronti della moglie, sebbene non strettamente inerenti la prestazione lavorativa, avevano comportato il venir meno del rapporto fiduciario in quanto svolti anche all'interno dell'azienda in presenza di estranei ed avevano avuto come vittima uno dei soci.
Per la cassazione della sentenza T.L. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la s.r.l. Bello Carburanti con controricorso. Sono state depositate le memorie ex art. 378 c.p.c.; quella di T.L. è sottoscritta dal nuovo difensore ivi nominato.

Motivazione

1. Deve preliminarmente dichiararsi la nullità della procura in calce alla memoria ex art. 378 c.p.c. e pertanto l'inammissibilità di quest'ultima.

Questa Corte, con riferimento all'art. 83 c.p.c. nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2009, ha infatti ribadito in più occasioni che "nel giudizio di cassazione, la procura speciale non può essere rilasciata a margine o in calce ad atti diversi dal ricorso o dal controricorso, atteso il tassativo disposto dell'art. 83 c.p.c., comma 3, che implica la necessaria esclusione dell'utilizzabilità di atti diversi da quelli suindicati. Pertanto, se la procura non è rilasciata contestualmente a tali atti, è necessario il suo conferimento nella forma prevista dall'art. 83, comma 2 cioè con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l'indicazione delle parti e della sentenza impugnata" (Cass. n. 9462 del 2013).

Nè può applicarsi il nuovo testo dell'art. 83 c.p.c., comma 3 quale risulta per effetto della modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 9, lett. a, - che prevede la possibilità di apporre la procura speciale nella memoria di nomina di nuovo difensore - in quanto essa non è operante ratione temporis nel presente procedimento, che è stato instaurato in primo grado anteriormente all'entrata in vigore della legge citata.

2. Come primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di legge (artt. 2097 e 2697 c.c.) nonchè vizio di motivazione ed addebita alla Corte di avere respinto la domanda di accertamento del rapporto di lavoro subordinato per il periodo precedente al 1.9.2001, in contrasto con le risultanze dell'estratto conto contributivo, degli atti di trasformazione delle società - che dimostrerebbero le vicende attinenti l'originaria impresa individuale - e delle prove testimoniali escusse.

2.1. Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
Sotto il profilo della violazione di legge, si rileva che non risulta dalla sua formulazione in che senso le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le richiamate norme regolatrici, considerato che viene censurata piuttosto la ricostruzione fattuale delle emergenze processuali e si prospetta quindi un vizio di motivazione.

2.2. Sotto questo secondo profilo, si rileva che l'estratto contro contributivo non risulta menzionato nella sentenza d'appello.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo il quale qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare "ex actis" la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione. Nel giudizio di cassazione infatti, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell'ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti. (Cass. n. 23675 del 2013, Cass. n. 4787 del 2012, Cass. n. 3664 del 2006). Non è possibile pertanto in questa sede esaminare - per la prima volta a quanto consta - i suddetti estratti conto, riprodotti alle pagine 7 e 8 del ricorso ma dei quali non viene detto se e come siano stati prodotti nelle fasi di merito.

2.3. Le deposizioni testimoniali (che vengono in parte riprodotte nel ricorso), sono state invece puntualmente esaminate dalla Corte d'appello, che risulta averne valutato il contenuto (pg. 2 e 3 della motivazione) ed averlo ritenuto insufficiente ai fini della dimostrazione della tesi patrocinata dall'attore. Occorre qui ribadire che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (pur nella formulazione vigente ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta con il D.L. n. 83 del 2012, conv. nella L. n. 134 del 2012), non equivale a revisione del ragionamento decisorio, ossia dell'opzione del giudice del merito per una determinata soluzione della questione esaminata, posto che essa equivarrebbe ad un giudizio di fatto, risolvendosi in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità: con la conseguente estraneità all'ambito del vizio di motivazione della possibilità per questa Corte di procedere a nuovo giudizio di merito attraverso un'autonoma e propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 5024 del 2012, Cass. n. 6694 del 2009).

Sicchè, per la configurazione di un vizio di motivazione su un asserito fatto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle risultanze fondanti il convincimento del giudice, onde la ratio decidendi appaia priva di base, ovvero che si tratti di elemento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (Cass. n. 18368 del 2013, Cass. n. 16655 del 2011; Cass. (ord.) n. 2805 del 2011).

2.4. Nel caso, il ricorrente si limita a proporre la propria lettura degli atti e dei documenti che sono già stati esaminati dalla Corte d'appello: in tal modo, si chiede a questa Corte di riesaminare tutte le risultanze richiamate, cercando in esse i contenuti che potrebbero essere rilevanti nel senso voluto patrocinato. Quello che si richiede in sostanza è una nuova completa valutazione delle risultanze di causa, inammissibile in questa sede, considerato che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l'attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi dando così prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge" (così da ultimo tra le tante Cass. n. 27197 del 2011).

3. Come secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione di legge (artt. 1564, 2104, 2106, 2118 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione all'art. 2119 c.c.) e del CCNL del settore del commercio ed il vizio di motivazione, in relazione alla parte della sentenza che ha ritenuto la legittimità del licenziamento. Argomenta che gli episodi di violenza nei confronti della moglie che gli sono stati addebitati erano di scarsa importanza e comunque estranei al rapporto di lavoro. Lamenta altresì la tardività del licenziamento, considerato che il fatto addebitato era del 12.5.2003 e il licenziamento del 30.6.2003.

3.1. Il motivo in parte è infondato ed in parte inammissibile.
L'incidenza delle condotte addebitate sul rapporto fiduciario è stata puntualmente esaminata dalla Corte d'appello la quale ha osservato che dovesse in primo luogo revocarsi in dubbio che i comportamenti fossero da considerarsi solo extralavorativi, considerato che gli atti di violenza non erano solo quelli esaminati nella sentenza penale la cui motivazione è stata parzialmente trascritta alle pg. 13-15 del ricorso, ma erano più numerosi, come si ricava dal contenuto della contestazione parimenti trascritto, e sono stati realizzati nei confronti della moglie che comunque era socia della società ed anche all'interno del luogo di lavoro.

3.2. Inoltre, l'incidenza sul rapporto di lavoro delle condotte extralavorative non potrebbe comunque essere esclusa, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte. Si è difatti rilevato che l'obbligo di fedeltà a carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall'art. 2105 cod. civ., dovendo integrarsi con gli artt. 1175 e 1375 cod. civ., che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extralavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro (cfr. Cass. n. 14176 del 2009) e che, in tema di licenziamento per violazione dell'obbligo di fedeltà, il lavoratore deve astenersi dal porre in essere non solo i comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi al suo inserimento nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa, ivi compresa la mera preordinazione di attività contraria agli interessi del datore di lavoro potenzialmente produttiva di danno (Cass. n. 6957 del 2005; Cass. n. 2474 del 2008). Infatti gli artt. 2104 e 2105 cod. civ., richiamati dalla disposizione dell'art. 2106 relativa alle sanzioni disciplinari, non vanno interpretati restrittivamente e non escludono che il dovere di diligenza del lavoratore subordinato si riferisca anche ai vari doveri strumentali e complementari che concorrono a qualificare il rapporto obbligatorio di durata e si estenda a comportamenti che per la loro natura e per le loro conseguenze appaiano in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa (Cass. n. 3822 del 2011).

3.3. Nel caso, la Corte d'appello risulta avere fatto applicazione di tali principi, laddove ha ritenuto che la condotta realizzata, per la sua natura violenta, la reiterazione, la qualità della vittima ed i suoi rapporti con la compagine societaria, il luogo nel quale è stata realizzata, la presenza di clienti, ripercuotesse irrimediabilmente i suoi effetti sul vincolo fiduciario che deve presiedere al rapporto di lavoro subordinato.

3.4. Quanto alla dedotta violazione del CCNL di settore, essa non è adeguatamente illustrata, nè è corredata dal testo del contratto collettivo, sicchè consegue inevitabile una censura di inammissibilità per violazione delle puntuali e definitive disposizioni contenute nell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

3.5. In relazione poi all'asserita tardività della contestazione, non essendo stata la questione esaminata dalla Corte d'appello, il ricorrente avrebbe dovuto esplicitare in che sede ed modo l'abbia dedotta nel giudizio di merito, il che non ha fatto.

4. Come terzo motivo T.L. deduce la violazione di legge e di CCNL, dell'art. 36 Cost. ed il vizio di motivazione nei quali sarebbe incorsa la Corte di merito non riconoscendo le differenze retributive rispetto alla retribuzione dovuta, inferiore rispetto a quella risultante dalle buste paga.

4.1. Il motivo è inammissibile, richiamandosi documenti (le buste paga) che non risultano trascritti, nè se ne indica la collocazione in atti. Non si comprende inoltre in cosa sarebbe consistita la violazione di legge e di CCNL. 5. Come quarto motivo lamenta la violazione di legge (art. 233 c.p.c.) ed il vizio di motivazione nei quali sarebbe incorsa la Corte laddove non ha ammesso il giuramento decisorio che era stato dedotto e che aveva ad oggetto circostanze di fatto e non, come ritenuto dalla Corte, valutazioni.
5.1. Anche tale motivo di doglianza risulta inammissibile, essendo finalizzato a censurare la valutazione del contenuto delle capitolazioni istruttorie formulata dalla Corte d'appello, senza prospettare elementi che essa avrebbe ignorato o circostanze che avrebbe travisato. Il contenuto integrale della deduzione, come riportato in ricorso, non contrasta peraltro la soluzione adottata dalla Corte, poichè fa riferimento a due aspetti (la natura subordinata del rapporto e la natura di paga degli importi percepiti) che attengono alla qualificazione giuridica delle circostanze di fatto, mentre nulla dicono in ordine all'adeguatezza di quanto percepito.

6. In conclusione, il ricorso dev'essere rigettato.

6.1. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente la pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre ad Euro 100,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 18 novembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2015


 

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