REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio - Presidente -
Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere -
Dott. TADDEI Margherita - Consigliere -
Dott. RAGO Geppino - Consigliere -
Dott. LOMBARDO Luigi - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
R.P.;
avverso l'ordinanza del Tribunale di Lucca in data 9.12.2013;
Sentita la relazione del Consigliere Dott. LOMBARDO Luigi;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIALANELLA Antonio, che ha concluso per l'annullamento con rinvio;
Udito il difensore Avv. D'ASCOLA Vincenzo Nico, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. R.P. ricorre per cassazione - a mezzo del suo difensore - avverso l'ordinanza del Tribunale di Lucca del 9.12.2013, emessa in sede di riesame, che ha confermato l'ordinanza del G.I.P. del locale Tribunale, che ha disposto nei suoi confronti il sequestro preventivo -emesso ai sensi dell'art. 321 c.p.p. e D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies - delle società "Raffaelli & Partners s.r.l.", "Azienda agricola Fontanello s.r.l.", "Italian Consulting s.r.l.", con i beni mobili ed immobili ad esse intestati, nell'ambito del procedimento iscritto nei suoi confronti in ordine ai delitti di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies e L. n. 646 del 1982, artt. 30 e 31.
Secondo l'accusa contestata, R.P. -destinatario di una sentenza divenuta irrevocabile con la quale gli è stata applicata la pena su richiesta delle parti per i delitti di cui agli artt. 416 bis e 648 bis c.p., - onde evitare la confisca del proprio patrimonio avrebbe intestato fittiziamente diversi beni ai propri familiari.
Con i motivi di ricorso, deduce:
1) la erronea applicazione dell'art. 321 c.p.p., comma 2 e D.L. n. 306 del 1992, art. 12 sexies, in relazione alla mancata individuazione dei singoli beni di valore sproporzionato rispetto ai redditi o alle attività economiche dell'indagato e, comunque, la inosservanza degli artt. 321 e 125 c.p.p., in relazione all'obbligo di motivare sul punto; deduce che il Tribunale non avrebbe motivato o, comunque, avrebbe motivato in modo apparente in ordine alla suddetta sproporzione, avendo considerato il patrimonio di R. P. nel suo complesso e non i singoli beni, relativamente al momento dell'acquisto di ciascuno di essi;
2) la erronea applicazione dell'art. 321 c.p.p., comma 2 e D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, in relazione alla mancata individuazione di elementi indiziari da cui desumere la finalità di R.P. di eludere l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniale; deduce, in particolare, che non vi sarebbe prova della sussistenza del dolo specifico richiesto dal D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, perchè la maggior parte della attribuzioni patrimoniali sarebbero state realizzate con atto pubblico e perchè, ove il R. avesse perseguito lo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di contrasto alla criminalità mafiosa, non avrebbe certo intestato i suoi beni ai familiari, stante la presunzione di intestazione fittizia prevista dall'art. 326 del c.d. codice antimafia.
3) la violazione di legge in relazione all'astratta configurabilità del delitto di cui alla L. n. 646 del 1982, artt. 30 e 31, per avere omesso di comunicare al nucleo di Polizia tributaria le variazioni del proprio patrimonio, nonchè la violazione dell'art. 125 c.p.p., relativamente alla assenza della motivazione; deduce che la maggior parte delle variazioni patrimoniali hanno interessato i coindagati e solo in minima parte il ricorrente R.P.; che l'art. 31 Legge cit. prevede la confisca dei beni acquistati e dei corrispettivi dei beni alienati, ma non prevede la confisca del valore dei conferimenti attuati nelle forme delle variazioni di capitale sociale: conseguentemente, per tali ultimi conferimenti non potrebbe disporsi il sequestro; deduce ancora che le più significative operazioni patrimoniali sarebbero state realizzate a mezzo di atto pubblico, ciò che escluderebbe di per sè non solo la sussistenza del dolo del delitto in questione, ma anche la offensività del fatto;
4) la violazione dell'art. 321 c.p.p., comma 2 e L. n. 646 del 1982, art. 31, in relazione alla irretroattività della confisca per equivalente; deduce che, nel caso in esame, il giudice di merito avrebbe disposto il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente; e poichè la confisca per equivalente è stata introdotta in relazione al delitto di cui alla L. n. 646 del 1982, art. 31 solo con la L. 13 agosto 2010, n. 136, la misura cautelare reale non avrebbe potuto essere disposta retroattivamente con riferimento alle variazioni patrimoniali poste in essere prima del 28 agosto 2010, data di entrata in vigore della detta legge.

Motivazione

1. I primi due motivi di ricorso sono infondati.
Va premesso che le Sezioni Unite di questa Corte suprema hanno statuito che le condizioni necessarie e sufficienti per disporre il sequestro preventivo di beni confiscabili a norma del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, commi 1 e 2, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356 (modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), consistono, quanto al "fumus commissi delicti", nell'astratta configurabilità, nel fatto attribuito all'indagato e in relazione alle concrete circostanze indicate dal P.M., di una delle ipotesi criminose previste dalle norme citate, senza che rilevino nè la sussistenza degli indizi di colpevolezza, nè la loro gravità e, quanto al "periculum in mora", coincidendo quest'ultimo con la confiscabilità del bene, nella presenza di seri indizi di esistenza delle medesime condizioni che legittimano la confisca, sia per ciò che riguarda la sproporzione del valore dei beni rispetto al reddito o alle attività economiche del soggetto, sia per ciò che attiene alla mancata giustificazione della lecita provenienza dei beni stessi. (Cass. Sez. Un., n. 920 del 17/12/2003 Rv. 226492, imp. Montella).
Al fine di disporre la confisca conseguente a condanna per uno dei reati indicati nel D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12 sexies, commi 1 e 2, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356, allorchè sia provata l'esistenza di una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attività economica e il valore economico dei beni da confiscare e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza di essi, è necessario, da un lato, che, ai fini della "sproporzione", i termini di raffronto dello squilibrio, oggetto di rigoroso accertamento nella stima dei valori economici in gioco, siano fissati nel reddito dichiarato o nelle attività economiche non al momento della misura rispetto a tutti i beni presenti, ma nel momento dei singoli acquisti rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti, e, dall'altro, che la "giustificazione" credibile consista nella prova della positiva liceità della loro provenienza e non in quella negativa della loro non provenienza dal reato per cui è stata inflitta condanna (Sez. Un., cit. Rv. 226491).

Va ancora premesso che, contro le ordinanze emesse a norma dell'art. 324 c.p.p., in materia di sequestro preventivo (ma per effetto del rinvio operato dall'art. 257 c.p.p., alla disposizione anzidetta il discorso vale anche per il sequestro probatorio), il ricorso per cassazione è ammesso solo per "violazione di legge" (art. 325 c.p.p., comma 1), e non -invece - per vizi della motivazione, neppure nella forma della illogicità manifesta.
Sul punto, va tuttavia chiarito che, secondo questa Corte, nella nozione di violazione di legge devono comprendersi non solo gli "errores in iudicando" o quelli "in procedendo", ma anche la mancanza o la mera apparenza della motivazione, in quanto esse determinano la violazione della norma che impone l'obbligo di motivare i provvedimenti giurisdizionali (Cass., Sez. Un., n. 25080 del 28/05/2003 Rv. 224611; Sez. Un., n. 25932 del 29/05/2008 Rv. 239692); la mancanza o la mera apparenza della motivazione - però - integrano gli estremi della violazione di legge solo quando l'apparato argomentativo che dovrebbe giustificare il provvedimento o manchi del tutto o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di ragionevolezza, in guisa da apparire assolutamente inidoneo a rendere comprensibile l'itinerario logico seguito dall'organo investito del procedimento (Cass., Sez. Un., n. 25932 del 29/05/2008 Rv. 239692; Sez. Un., n. 5876 del 28/01/2004 Rv. 226710; nello stesso senso, più di recente, Sez. 6, n. 6589 del 10/01/2013 Rv. 254893).
Orbene, nel caso di specie, a fronte della ampia motivazione con la quale il Tribunale ha giustificato il proprio provvedimento, deve con certezza escludersi che ricorra quella apparenza della motivazione che è necessaria per legittimare l'intervento di questa Corte suprema, dovendo - al contrario - ritenersi che i giudici di merito hanno puntualmente osservato le prescrizioni metodologiche contenute nei richiamati principi giurisprudenziali.
Innanzitutto i giudici di merito hanno puntualmente motivato in ordine alla sussistenza del "fumus commissi delicti", consistente nell'astratta configurabilità - nel fatto attribuito agli indagati - del delitto di cui al D.L n. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies (p. 2- 3).
Hanno poi puntualmente motivato in ordine alla sussistenza del "periculum in mora", che hanno individuato nel concreto rischio di ulteriori atti o operazioni simulate finalizzate a sottrarsi a futuri provvedimenti ablativi.
Il Tribunale ha infine motivato, in modo congruo ed esaustivo, anche in ordine alla sproporzione tra il valore dei beni di cui R. P. risulta titolare tramite le interposte persone e i suoi redditi, profilo su cui si concentrano le censure mosse col primo motivo di ricorso.
A questo proposito, deve rilevarsi la infondatezza della censura secondo cui il Tribunale avrebbe considerato il patrimonio di R.P. nel suo complesso e non i singoli beni, relativamente all'acquisto di ciascuno di essi. Al contrario, dalla lettura del provvedimento (p. 4), risulta che i giudici di merito hanno ritenuto la sussistenza della detta sproporzione sia con riferimento al momento dei singoli acquisti (rispetto al valore dei beni di volta in volta acquisiti) sia con riferimento al valore complessivo di essi (con rinvio a p. 177 della informativa di P.G.); e hanno per di più constatato come il R. non abbia fornito alcuna prova della positiva liceità della loro provenienza.

Anche le censure mosse col secondo motivo di ricorso sono infondate.
Invero, in ordine alla sussistenza del dolo specifico del delitto di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12 quinquies, il Tribunale ha motivato, sottolineando, tra l'altro, come la cadenza temporale degli atti, in prossimità alla emissione della sentenza di applicazione pena richiamata in premessa, deponga per la sussistenza dell'intento di elidere le disposizioni di legge in tale di misure di prevenzione patrimoniali.
Il ricorrente sottopone, peraltro, alla Corte una lettura alternativa delle risultanze probatorie, che è inammissibile in sede di legittimità, non essendo chiamata questa Corte a condividere o non condividere la decisione dei giudici di merito, ma ad effettuare un controllo esterno nei limiti del vizio di "violazione di legge".

2. Anche il terzo motivo di ricorso è infondato.
Invero, come ha statuito ripetutamente questa Corte, "Il delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali è configurabile anche nel caso in cui l'omissione, posta in essere dal condannato per associazione di tipo mafioso, riguardi la stipulazione di atti pubblici, pur soggetti ad un regime di pubblicità, trattandosi di atti, comunque, non destinati ad essere portati a conoscenza del nucleo di polizia tributaria competente nè ad opera del pubblico ufficiale rogante nè di altri" (Sez. 2, n. 25974 del 21/05/2013 Rv. 256655; Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012 Rv. 254387).
Quanto alla sussistenza del dolo del delitto di cui alla L. n. 646 del 1982, artt. 30 e 31, vanno ancora ricordati i principi dettati da questa Corte, secondo cui "L'elemento soggettivo del delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali da parte del condannati per reati di criminalità organizzata è integrato dal dolo generico e non è pertanto necessario che l'autore abbia agito allo specifico scopo di occultare alla polizia tributaria le informazioni cui l'obbligo normativamente imposto si riferisce" (Sez. 6, n. 33590 del 15/06/2012 Rv. 253199); di modo che "Il dolo del delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali può sussistere pur quando l'omissione, posta in essere dal soggetto sottoposto a misure di prevenzione quale indiziato di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, riguardi una compravendita immobiliare effettuata per atto pubblico notarile" (Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010 Rv. 246398).
Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione di legge e la motivazione del Tribunale sul punto risulta tutt'altro che apparente.

Infine, è infondato anche il profilo della censura col quale si deduce che il reato di cui agli artt. 30-31 cit. non sarebbe configurabile con riguardo ai conferimenti attuati nelle forme delle variazioni di capitale sociale.
A questo proposito, va considerato che l'obbligo di comunicazione imposto dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, art. 30, costituisce una misura di prevenzione di natura patrimoniale volta a esercitare un controllo preventivo e costante sui beni dei condannati o degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, anticipato rispetto a quello svolto con le misure, pure patrimoniali, di carattere preventivo-repressivo costituite dal sequestro e dalla confisca, al fine di accertare ogni forma di illecito arricchimento.
La funzione preventiva dell'istituto si realizza con una verifica sistematica a carattere analitico, prevista dalla norma con riferimento a tutte le variazioni, non solo nell'entità, ma anche nella composizione del patrimonio, cioè riguardo tanto al valore complessivo dei beni posseduti, per l'accertamento e la verifica di liceità di ogni incremento di capitali e di beni, quanto ai singoli elementi che concorrono a formarlo e, quindi, ad ogni variazione del complesso dei capitali disponibili e dei beni posseduti, in vista dell'accertamento e del controllo di tutte le operazioni di natura economico-finanziaria compiute dall'affiliato. Il controllo riguarda, perciò, qualsiasi modifica di qualche rilevanza (non inferiore all'ammontare di euro 10.329,14) dell'assetto patrimoniale e non soltanto di quelle che comportano un effettivo incremento, ma anche di quelle in apparenza ininfluenti sull'entità del patrimonio, in quanto costituite da elementi contrapposti che entrano in compensazione ed anche delle modifiche passive, che incidono comunque sulla consistenza dei beni posseduti - e, quindi, sulla composizione del patrimonio - e valgono a segnalare perdite fittizie o illeciti trasferimenti di componenti attivi.
E' stato così ritenuto, nella giurisprudenza di questa Corte, che - oltre ai finanziamenti sotto qualsiasi forma (privati o pubblici) e ai conti correnti - anche il mutuo e l'affidamento bancario, nei quali ai capitali resi disponibili corrisponde l'assunzione di debiti di pari importo, ricadono nell'obbligo di comunicazione previsto dalla L. n. 646 del 1982, art. 30; e così il mutuo ipotecario che - pur se l'ipoteca, malgrado la sua funzione di garanzia, influisce sul valore del bene su cui è iscritta in misura più o meno corrispondente all'incremento realizzato con la disponibilità della somma mutuata - incide, se non sull'entità, certamente sulla composizione del patrimonio ed è pertanto soggetto al predetto obbligo di comunicazione alla polizia tributaria (Cass., Sez. 5, n. 40338 del 21/09/2011 Rv. 251724, secondo cui integra il delitto previsto dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, art. 31, l'omessa comunicazione alla polizia tributaria da parte del condannato per il reato di associazione di tipo mafioso della stipulazione di un mutuo garantito da ipoteca sui beni acquistati con la provvista così conseguita ed intestati a terza persona, non rilevando in proposito che il contratto di mutuo sia stato registrato e stipulato per atto pubblico).

Alla luce di quanto sopra e con riferimento al caso di specie, va ritenuto che ricadono nell'obbligo di comunicazione previsto dalla L. n. 646 del 1982, art. 30, anche i conferimenti di denaro attuati nelle forme di variazione di capitale sociale e che tali conferimenti sono soggetti alla confisca di cui alla L. n. 646 del 1982, art. 31, comma 2, rientrando nella nozione di "beni a qualunque titolo acquistati" indicati da tale ultima disposizione come oggetto di confisca.
E' indubbio, infatti, che le quote sociali, possedute attraverso la titolarità di azioni societarie, costituiscono frazioni del capitale sociale che entrano a far parte - quali beni mobili - del patrimonio del loro titolare; pertanto, come tali, sono suscettibili di confisca ai sensi della L. n. 646 del 1982.
A tal fine, non rileva il fatto che la quota sociale rimanga vincolata stabilmente alle attività della società (pur dotata di personalità giuridica), rilevando soltanto - ai fini della L. n. 646 del 1982 - che essa costituisca nuovo acquisto, non comunicato alla Autorità di polizia tributaria, di soggetti condannati o indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso (in senso contrario, tuttavia, Sez. 6, n. 16032 del 17/02/2009 Rv. 243518, in motivazione).

Può affermarsi pertanto il seguente principio di diritto: "Integra il delitto previsto dalla L. 13 settembre 1982, n. 646, art. 31, l'omessa comunicazione alla polizia tributaria da parte del condannato per il reato di associazione di tipo mafioso di conferimenti attuati nelle forme di acquisto di quote di capitale sociale di una società, anche dotata di personalità giuridica".
Non sussiste, pertanto, la pretesa violazione di legge, nè la motivazione sul punto risulta apparente, avendo la Corte motivato circa l'intento dell'indagato di prevenire provvedimenti ablativi nei suoi confronti.

3. Infine è inammissibile per genericità e aspecificità l'ultima censura, relativa alla pretesa violazione dell'art. 321 c.p.p., comma 2 e L. n. 646 del 1982, art. 31, in relazione alla irretroattività della confisca per equivalente, introdotta - in seno all'art. 31 cit.- dalla L. 13 agosto 2010 n. 136.
In proposito, va innanzitutto rilevato che il ricorrente, pur richiamando la motivazione della sentenza impugnata che ha spiegato in modo puntuale come il sequestro per equivalente fosse limitato alle variazioni patrimoniali avvenute dall'anno 2010 in poi, non ha poi sottoposto a critica tale motivazione, limitandosi ad lamentarne apoditticamente la insufficienza.
In secondo luogo, va poi rilevato come il ricorrente non si sia curato di precisare quali variazioni patrimoniali sarebbero anteriori al 2010 e quali successive, impedendo così alla Corte di verificare la fondatezza della censura e incorrendo nella inammissibilità della stessa; e ciò anche considerando il fatto che il sequestro, finalizzato alla successiva confisca, è stato disposto, non solo con riferimento al delitto di cui alla L. n. 646 del 1982, art. 31, ma anche con riferimento al delitto di cui al D.L. n. 306 del 1982, art. 12 quinquies, ossia ad un titolo di reato autonomamente legittimante la confisca stessa.

4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Penale, il 11 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2014


 

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