REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETTI Ciro - Presidente -
Dott. TADDEI Margherita - Consigliere -
Dott. DAVIGO Piercamillo - Consigliere -
Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere -
Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1. B.D.;
2. T.G.;
3. G.M.;
avverso la sentenza del 18/06/2013 Corte di Appello di Salerno;
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Geppino Rago;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Fraticelli Mario che ha concluso per l'inammissibilità;
udito il difensore avv.to MASINI Dario che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 24/03/2013, la Corte di Appello di Salerno confermava la sentenza con la quale, in data 18/06/2013, il tribunale della medesima città, a seguito di rito abbreviato, aveva ritenuto B.D., T.G. e G.M. colpevoli del reato di rapina aggravata e lesioni ai danni di D.A.
2. Avverso la suddetta sentenza, tutti e tre gli imputati, con un unico ricorso a mezzo del comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:
2.1. violazione dell'art. 143 c.p.p., per non essere stati tradotti nella lingua di appartenenza - con conseguente nullità della sentenza impugnata - i seguenti atti: a) il decreto di citazione in grado di appello: gli appellanti sostengono che, contrariamente a quanto attestato dall'ufficiale giudiziario, l'atto loro notificato non conteneva alcuna traduzione in lingua rumena; b) la sentenza di primo grado; c) la sentenza di appello;
2.2. manifesta illogicità della motivazione: il ricorrente G. sostiene che la Corte territoriale aveva omesso ogni motivazione in ordine agli elementi di accusa, tanto più che la perquisizione aveva dato esito negativo.
I ricorrenti T. e B. sostengono, invece, che avrebbero dovuto essere assolti ex art. 530 c.p.p., comma 2, sia perchè gli aggressori parlavano in arabo, sia perchè la persona offesa poteva essersi sbagliata nel riconoscerli trovandosi sotto stato di shock.

Motivazione

1. violazione dell'art. 143 c.p.p.: la censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.
In punto di diritto, va rilevato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'omessa traduzione di un atto nella lingua nota all'imputato, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che non può essere dedotta a seguito della scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullità ai sensi dell'art. 183 c.p.p.: SSUU 39298/2006 Rv. 234835 (con riguardo alla mancata traduzione del decreto di citazione a giudizio); Cass. 44844/2007 Rv. 238030; Cass. 19948/2010 Rv. 247566; Cass. 19483/2013 Rv. 256040.
Il suddetto principio conserva la sua validità anche a seguito dell'emanazione del D.Lgs. n. 32 del 2014, che, in ordine alle conseguenze della mancata traduzione degli atti processuali, non ha apportato alcuna novità.
Al caso di specie deve, pertanto, applicarsi il suddetto principio di diritto: infatti, avendo i ricorrenti scelto di accedere al rito abbreviato condizionato all'audizione della parte offesa, non potevano sollevare, nei gradi successivi del giudizio, la suddetta nullità.

La doglianza, pertanto, va respinto alla stregua del seguente principio: "L'omessa traduzione del decreto di citazione a giudizio, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che non può essere dedotta a seguito della scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullità ai sensi dell'art. 183 c.p.p., anche a seguito della novella introdotta con il D.Lgs. n. 32 del 2014, che, in ordine alle conseguenze della mancata traduzione degli atti processuali, non ha apportato alcuna novità": in terminis Cass. 09/04/2014, Masciullo.

A ciò aggiungasi che, poichè sia la sentenza di primo che di secondo grado furono emanate quando ancora non era entrato in vigore il D.Lgs. n. 32 del 2014, (entrato in vigore il 09/04/2014: in terminis Cass. 26416/2014) deve applicarsi - quanto alla mancata traduzione delle sentenze di merito - la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale "l'imputato alloglotta che non conosca la lingua italiana non ha diritto ad ottenere la traduzione della sentenza "tout court" ma solo se ne faccia espressa richiesta, sulla base dei principi contenuti nell'art. 3 della direttiva 2010/64/UE, che impongono agli Stati membri di assicurare la traduzione scritta dei documenti fondamentali per l'esercizio del diritto di difesa, ivi comprese le sentenze": Cass. 32/2013 riv 258558, anche perchè "spetta personalmente all'imputato alloglotta, e non al suo difensore, l'interesse a rilevare la violazione dell'obbligo di traduzione della sentenza e del relativo avviso di deposito, previsto dall'art. 143 c.p.p., al fine di consentire all'imputato che non comprenda la lingua italiana l'esercizio del potere autonomo di impugnazione ex art. 571 stesso codice" (Cass. 40616/2013 Rv.256934): e, sul punto, non risulta nè è stato dedotto che gli imputati avessero richiesto la traduzione delle sentenze.

2. manifesta illogicità della motivazione: la censura sul punto, dedotta da tutti e tre gli imputati è manifestamente infondata.
Infatti, la Corte, quanto agli imputati B. e T. ha illustrato il convergente ed univoco compendio probatorio a loro carico, dandone una corretta e razionale spiegazione e disattendendo, in modo congruo, anche la tesi difensiva oggi riproposta in questo grado di giudizio.
Quanto al G., è vero che non venne rinvenuto in possesso del provento della rapina (rinvenuto sulle persone di B. e T.), ma è anche vero che la Corte ha ritenuto, con motivazione incensurabile, che i tre - anche perchè rintracciati insieme dalla Polizia nell'immediatezza del fatti (tant'è che vennero arrestati in flagranza) - in realtà, avevano il compossesso degli oggetti rapinati al D. avendo tutti e tre (insieme ad altri rimasti sconosciuti) partecipato alla selvaggia aggressione.
In particolare, quanto al compossesso (e cioè, in pratica, l'unico punto contestato dal G.), nella sentenza di primo grado (confermata espressamente sul punto dalla Corte territoriale), prima a pag. 22, è scritto che "il B., il T. ed il G., dopo essere stati identificati e fermati, inequivocabilmente, in vista della perquisizione, si erano passati degli oggetti fra loro", e, poi, a pag. 23, si legge che il " G., pur nel tentativo di allontanare da sè gli indizi che lo attingono, ha sostenuto di avere trovato per terra e raccolto insieme con gli altri due coimputati le cose poi risultate di proprietà del D., così saldando la sua posizione a quella dei coimputati, salva la mera e scopertamente menzognera traslazione del titolo dell'apprensione dei beni della vittima dall'illecita sottrazione al proprietario al casuale ritrovamento sul selciato".
Pertanto, alla stregua dei due suddetti elementi fattuali, la conclusione alla quale entrambi i giudici di merito sono pervenuti in ordine al compossesso da parte di tutti e tre gli imputati dei beni appartenenti alla persona offesa, non è soggetta ad alcuna censura non essendo ravvisabile alcun vizio motivazionale contrariamente a quanto ritenuto dal G.

In conclusione, l'impugnazione deve rigettarsi con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

PQM

RIGETTA il ricorso e CONDANNA i ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 ottobre 2014.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2014


 

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