REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DUBOLINO Pietro - Presidente -
Dott. SAVANI Piero - Consigliere -
Dott. PEZZULLO Rosa - rel. Consigliere -
Dott. POSITANO Gabriele - Consigliere -
Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.P.;
avverso la sentenza n. 1679/2009 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 15/03/2013;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 28/03/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PEZZULLO ROSA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. SCARDACCIONE Eduardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso,
Udito, per il ricorrente, l'avvocato BARLETTA Alberto che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 15 marzo 2013 la Corte d'Appello di Napoli confermava la sentenza emessa il 10.1.2008 dal Tribunale di S.Maria Capua Vetere, Sezione Distaccata di Carinola, con la quale G. P. era stato condannato alla pena di mesi due di reclusione ed al risarcimento danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede, per il delitto di cui all'art. 610 c.p., per avere - con minaccia consistita nel posizionare la propria autovettura, modello fuoristrada, sulla strada denominata Acquaferrata del comune di Teano ed asserendo di essere titolare di una servitù di passaggio sulla stessa- costretto i proprietari degli appezzamenti di terreno limitrofi ed in particolare Gl.Pi. a tollerare tale ostacolo, impedendo l'accesso al fondo di sua proprietà.
2. Avverso tale sentenza l'imputato, a mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per Cassazione affidato a due motivi con i quali lamenta:
- con il primo motivo, la ricorrenza dei vizio di violazione di legge, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione alla configurabilità nella fattispecie in esame del delitto di cui all'art. 610 c.p.. In particolare, il ricorrente ha dedotto: che non si comprende come possa integrare comportamento minaccioso l'aver parcheggiato la propria autovettura in una parte del fondo di proprietà del suocero e, comunque, anche se il parcheggio è avvenuto in maniera irregolare certamente esso non integra un comportamento minaccioso, così come contestato nel capo di imputazione; che la sentenza impugnata incorre in errore di diritto, laddove ha ritenuto che l'imputato, non essendo proprietario del bene, del quale era titolare il suocero, non aveva neppure presuntivamente la possibilità di tutelarlo, laddove la tutela del diritto di proprietà ben può essere correttamente esercitata anche da chi non ha la titolarità diretta della proprietà che si intende tutelare, specie quando si verta, come nel caso in esame, in un'ipotesi di cui all'art. 392 c.p.; che, inoltre, andava considerato che quando si opera per difendere il diritto di proprietà, che all'attualità necessita di tutela piena ed esclusiva, per evitare il condizionamento di ingiuste pretese altrui, non vi è responsabilità penale, anche nel caso in cui vi sia stata un'azione con violenza sulle cose; che in definitiva il ricorrente ha agito in rappresentanza e nell'interesse del suocero R.P., con la conseguenza che al limite poteva essere considerato responsabile del reato di cui all'art. 392 c.p.;
- con il secondo motivo, i vizi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), atteso che la sentenza impugnata difetta di motivazione, anche con riferimento alla mancata assunzione di prove documentali che potevano essere decisive. Ed invero, contrariamente a quanto evidenziato nella sentenza impugnata, le censure rivolte in sede di appello non potevano essere ritenute carenti di novità, in quanto erano finalizzate a porre in luce veri e propri travisamenti in ordine alla valutazione delle deposizioni testimoniali e conseguentemente a verificare la reale esistenza del diritto accampato dalle presunte parti offese; che, in particolare, con i motivi di appello sono stati evidenziati tutti gli elementi che mettevano in luce la mancanza di concordia e sincerità delle dichiarazioni della persona offesa e le anomalie, contraddizioni, errori dei testi dell'accusa, tali da inficiare fortemente le testimonianze sulle quali è stata fondata la responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 610 c.p.; che, anche per quanto concerne le dichiarazioni dei testi estranei e segnatamente del brig. dei C.C. P. e del comandante dei VV.UU. D. N., la sentenza di primo grado evidenziava situazioni difformi da quanto riferito dai testi e, comunque, non aveva considerato tutte le dichiarazioni dei testi medesimi; che, dunque, risultava evidente che solo con l'appello potevano essere dedotte incongruenze della sentenza di primo grado che ha privilegiato testimonianze rese dai testi interessati rispetto a quelle rese dai testi terzi; che la sentenza impugnata non aveva esaminato alcuni fondamentali aspetti giuridici in ordine all'esistenza di presunti diritti il cui esercizio sarebbe stato negato dal comportamento dell'imputato e segnatamente atti e documenti, tra cui una sentenza del TAR divenuta definitiva, nonchè una relazione tecnica fondata su dati oggettivamente inoppugnabili, attraverso i quali si dimostrava l'inesistenza dei diritti accampati dalle presunte parti offese; che in particolare la sentenza d'appello, per avvalorare la tesi delle presunte parti offese ha fondato l'affermazione di un uso pubblico della strada in questione sulle dichiarazioni della teste M., che riferiva all'uopo di aver visionato una mappa militare, senza considerare che tale teste, pur invitata a dare riscontro di quanto da lei affermato, con l'esibizione della detta mappa, o quantomeno con indicazioni circa le modalità per il suo reperimento non esibiva alcunchè e non dava indicazioni per il suo reperimento.

Motivazione

1. Il ricorso non è inammissibile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3, sicchè non è preclusa a questa Corte la possibilità di rilevare e dichiarare cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p., (Sez. Un., n. 23428 del 22/03/2005; Sez. 4^, n. 31344 dell'11/06/2013).

2. Per il reato per cui è processo è maturato, successivamente alla sentenza impugnata, il termine di prescrizione, pari ad anni sette e mesi sei, a decorrere dal 6.11.2005, ma l'obbligo della immediata declaratoria di tale causa di estinzione, sancito dell'art. 129 c.p.p., comma 1, implica nel contempo la valutazione della sussistenza in modo evidente di una ragione di proscioglimento dell'imputato, alla luce della regola di giudizio posta dal secondo comma del medesimo art. 129 c.p.p., rilevabile, tuttavia, soltanto nel caso in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. 3^, n. 10221 del 24/01/2013).
Nel caso di specie non ricorrono in modo evidente ed assolutamente non contestabile ragioni di proscioglimento dell'imputato, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., comma 2, tenuto conto di quanto evidenziato nella sentenza impugnata circa la sosta del fuoristrada Suzuki del G., messa di lato, sulla strada Acqua Ferrata, in modo da impedire il transito con i propri veicoli ai proprietari dei fondi posti lungo la predetta via, circostanza questa confermata dai testi, proprietari dei fondi limitrofi a quelli del suocero del G., oltre che dal querelante G.P., nonchè dal brig. dei carabinieri P.A. e dal Com.te dei VV.UU. di Teano D.N.A. Tale condotta, poi, è stata, anche in base a quanto si evidenzierà innanzi, correttamente inquadrata nel reato di violenza privata e non in quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.

3. Il ricorso va però rigettato in relazione agli effetti civili scaturenti dalla sentenza impugnata.
3.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Ed invero, premesso che risulta pacifico, come già innanzi evidenziato; che il G. parcheggiò il suo veicolo fuoristrada in modo da impedire ai proprietari dei fondi di accedere ad essi, contrariamente a quanto evidenziato dal ricorrente, in tale condotta si ravvisa il delitto di violenza privata di cui all'art. 610 c.p.
Va in proposito evidenziato che sebbene il capo d'imputazione faccia riferimento alla "minaccia" consistita nel posizionare il veicolo in modo da impedire il transito sulla strada, la sentenza di primo grado richiamata per relationem da quella di secondo grado indica l'elemento oggettivo del reato innanzitutto nella "violenza" che ha assunto, poi, anche i connotati di una "minaccia".
Tale inquadramento è condivisibile tenuto conto dei principi più volte espressi da questa Corte, secondo cui integra gli estremi del delitto di cui all'art. 610 c.p., la minaccia, ancorchè non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa (Sez. 5, 21/03/2013, n. 23945); l'elemento della violenza o della minaccia nella fattispecie criminosa di violenza privata consiste nel privare l'offeso della libertà di determinazione e di azione, che può attuarsi attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Rv. 246551; Massime precedenti Conformi: N. 1195 del 1998 Rv. 211230, N. 3403 del 2004 Rv. 228063).
L'elemento della violenza nella fattispecie criminosa di violenza privata si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione, potendo consistere anche in una violenza "impropria", che si attua attraverso l'uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione (Rv. 246551; Massime precedenti Conformi: N. 1195 del 1998 Rv. 211230, N. 3403 del 2004 Rv. 228063; Sez. 5 18/11/2011 n. 603).

Alla stregua di tali principi, nel caso in esame l'aver parcheggiato l'autovettura sulla strada, in modo da impedire il passaggio agli altri proprietari per raggiungere i propri fondi ed aver profferito alla richiesta di spostare l'auto grida e minacce, intimando di andare via, tanto da richiedere l'intervento dei C.C., integra l'elemento oggettivo delle violenza ed anche della minaccia, capace di determinare la costrizione psicologica della persona offesa (Sez. 5 18/11/2011 n. 603) a non utilizzare più la strada ostruita.

Infondata è la tesi del ricorrente secondo cui alla condotta in questione va attribuito il nomen iuris ex art. 392 c.p. e non quello ex art. 610 c.p..
Innanzitutto nel caso in esame non è stata ipotizzata alcuna violenza sulle cose, bensì sulle persone. In ogni caso è ravvisabile l'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui all'art. 393 c.p., soltanto se il comportamento dell'agente si sia concretato nella realizzazione di una pretesa di diritto, mediante la sostituzione della privata violenza alla coazione del provvedimento giudiziale, traducendosi nell'indebita attribuzione a sè stesso, da parte del privato, di poteri e facoltà spettanti esclusivamente al giudice, e l'agente deve essere animato dal fine di esercitare un diritto con la coscienza che l'oggetto della pretesa gli competa effettivamente e giuridicamente "in toto" (anche se non sia azionabile o sia infondata). Ne consegue che resta escluso il reato di ragion fattasi quando trattasi di pretesa illegittima in tutto o in parte in tal caso l'opinato diritto non è altro che un pretesto per mascherare altre finalità che hanno determinato la violenza. (Sez. 2, 04/05/1990).
Nel caso di specie, posto che la strada oggetto di ostruzione con il fuoristrada era stata da sempre utilizzata dai proprietari dei fondi limitrofi, come emerge da quanto riportato nelle sentenze di merito, impedire l'accesso esulava del tutto dall'ottica dell'esercizio, sia pure arbitrario, di un diritto spettante all'imputato (Sez. 6 12/02/2013 n. 21197).

D'altra parte va richiamato il principio secondo il quale ricorre il delitto di violenza privata e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni quando si eccedono macroscopicamente i limiti insiti nel fine di esercitare sia pure arbitrariamente un preteso diritto (Sez. 5 n. 10148 del 15.11.84).
In tale contesto il rilievo del ricorrente circa l'erronea valutazione effettuata dai giudici di merito in merito alla non titolarità del diritto da parte dell'imputato appare irrilevante in riferimento al delitto di cui all'art. 610 c.p.

3.2.Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato sotto plurimi aspetti. In primo luogo il ricorrente, al di là dei vizi denunciati, si duole confusamente innanzitutto dei travisamenti compiuti nella valutazione delle prove testimoniali e delle contraddizioni in generale delle dichiarazioni dei testi e della p.o.
Tale censura si presenta inammissibile sotto il profilo della violazione della regola dell'autosufficienza" del ricorso, secondo la quale il ricorrente, che lamenti l'omessa o travisata valutazione di specifici atti processuali, deve provvedere, nei limiti in cui il relativo contenuto sia ritenuto idoneo a "scardinare" l'impianto motivazionale della decisione contestata, alla trascrizione nel ricorso dell'integrale contenuto degli atti medesimi ovvero all'allegazione di tali atti al ricorso ovvero, ancora, alla loro assolutamente puntuale e completa, indicazione in modo da non determinare la necessità di alcun tipo di ricerca e selezione autonoma; ciò in quanto il giudice di legittimità non deve essere costretto alla "ricerca" di quegli atti che confermerebbero la tesi del ricorrente, essendo piuttosto onere di chi impugna e dispone dell'intero incarto processuale mettere la Corte di legittimità in grado di valutare la fondatezza della doglianza (Sez. 6, n. 48451 del 11/12/2012 e Sez. 6, n. 18491 del 24/02/2010).
In secondo luogo, la valutazione della credibilità della persona offesa, così come degli altri testi, rappresenta una questione di fatto, che non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 1, n. 33267 del 11.6.2013), contraddizioni queste che non si ravvisano nel caso di specie.
Inoltre, il ricorrente sollecita inammissibilmente il giudice di legittimità a svolgere una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice del merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Cass. S.U. 30.4/2.7.97 n. 6402, ric. Dessimone e altri; Cass. S.U. 24.9-10.12.2003 n. 47289, ric. Petrella).
Per quanto concerne, poi, la doglianza secondo la quale la Corte di merito si sarebbe "rifiutata di prendere in esame " vari documenti a prescindere dalla sua genericità è infondata atteso che la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente all'insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che impone l'assunzione di ulteriori mezzi istruttori pur se le parti non abbiano provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall'art. 468 c.p.p., (Sez. 2, 27/09/2013, n. 41808). In proposito la Corte di merito ha escluso con motivazione esauriente la significatività delle documentazione della quale l'imputato aveva chiesto l'acquisizione, non essendo in grado di privare di rilevanza penale la condotta posta in essere dallo stesso e tale valutazione si presenta immune da vizi logici e da violazioni di legge.

4. La sentenza impugnata, dunque, va annullata senza rinvio agli effetti penali perchè il reato è estinto per prescrizione, laddove il ricorso va rigettato agli effetti civili.

PQM

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio agli effetti penali perchè il reato è estinto per prescrizione; rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2014


 

Collabora con DirittoItaliano.com

Vuoi pubblicare i tuoi articoli su DirittoItaliano?

Condividi i tuoi articoli, entra a far parte della nostra redazione.

Copyright © 2020 DirittoItaliano.com, Tutti i diritti riservati.