REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SQUASSONI Claudia - Presidente -
Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere -
Dott. ORILIA Lorenzo - rel. Consigliere -
Dott. DI NICOLA Vito - Consigliere -
Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
F.L.;
avverso la sentenza n. 14599/2013 GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di BRESCIA, del 18/09/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;
lette le conclusioni del PG Dott. CESQUI Elisabetta.

Svolgimento del processo

Il GUP presso il Tribunale di Brescia con sentenza 18.9.2013 ha applicato al F., sull'accordo delle parti, la pena di giustizia in relazione a condotte associative finalizzate alla commissione di reati in materia tributaria e contro la pubblica amministrazione: per quanto ancora interessa, il GUP ha escluso la sussistenza di condizioni che giustificassero il proscioglimento nel merito ex art. 129 c.p.p., ed ha ordinato di ufficio la confisca dei beni in sequestro (immobili e somme di danaro), nonostante la mancata previsione nell'accordo, ritenendo obbligatoria l'applicazione della misura.
Il difensore ricorre per cassazione con due motivi.
Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte concludendo per l'inammissibilità del ricorso.
Sono stati depositati motivi aggiunti in ordine al tema della confisca.

Motivazione

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione della L. n. 296 del 2006, art. 1 comma 755 e la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla penale responsabilità per i reati di cui ai capi A, D, L, M ed evidenzia la carenza di motivazione nei limiti imposti dall'art. 129 c.p.p. con riferimento al reato di corruzione propria di cui al capo L.

Il motivo è manifestamente infondato e pertanto va dichiarato inammissibile.
Da tempo questa Corte, anche a sezioni unite, ha precisato come, nell'ipotesi di impugnazione di una decisione assunta in conformità alla richiesta formulata dalla parte secondo lo schema procedimentale previsto dall'art. 444 c.p.p., l'esigenza di specificità delle censure deve ritenersi addirittura "rafforzata" rispetto ad ipotesi di diversa conclusione del giudizio, dato che la critica al provvedimento che abbia accolto la domanda dell'imputato deve impegnarsi a demolire, prima di tutto, proprio quanto dalla stessa parte richiesto (Cass. Sez. U, Sentenza n. 35738 del 27/05/2010 Cc. dep. 05/10/2010 Rv. 247839; Sez. un., 24.6.1998, Verga, rv 211468).

Sempre secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, (cfr. Cass. 17.4.2011 n. 6455), in caso di patteggiamento ai sensi dell'art. 444 c.p.p., l'accordo intervenuto esonera l'accusa dall'onere della prova e comporta che la sentenza che lo recepisce sia da considerare sufficientemente motivata con una succinta descrizione del fatto (deducibile dal capo d'imputazione), con l'affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di esso, con il richiamo all'art. 129 c.p.p. per escludere la ricorrenza di alcuna delle ipotesi ivi previste, con la verifica della congruità della pena patteggiata ai fini e nei limiti di cui all'art. 27 Cost. (Cass. 27 settembre 1994, n. 3980; più di recente, Cass. 13 luglio 2006, n. 34494).
Con particolare riferimento all'onere di verifica dell'insussistenza delle cause di proscioglimento immediato, questa Corte ha altresì precisato che la sentenza del giudice di merito che applichi la pena su richiesta delle parti, escludendo che ricorra una delle ipotesi proscioglimento previste dall'art. 129 c.p.p., può essere oggetto di controllo di legittimità, sotto il profilo del vizio di motivazione, soltanto se dal testo della sentenza impugnata appaia invece evidente la sussistenza di una causa di non punibilità (Cass. 10 gennaio 2007, n. 4688).

In sostanza, l'esigenza minima di motivazione della sentenza a seguito di "patteggiamento" della pena può ritenersi adempiuta, in relazione all'assenza di cause di proscioglimento di cui all'art. 129 c.p.p., dal semplice testuale rinvio al medesimo articolo, il cui contenuto entra in tal modo a far parte per relationem del ragionamento decisorio ed esprime l'avvenuta verifica, da parte del giudice, dell'inesistenza di motivi di non punibilità, senza che occorra una ulteriore e più analitica disanima, purchè dal testo della sentenza medesima non emergano in modo positivo elementi di segno contrario.
Nel caso in esame, la sentenza del giudice di merito, previa una succinta descrizione dei fatti (deducibile dai capi d'imputazione e dalla motivazione), e previa l'affermazione della correttezza della qualificazione giuridica di essi nonchè la verifica della congruità della pena patteggiata, ha recepito le statuizioni concordate applicando la pena stabilita e rilevando che non vi è spazio per un possibile proscioglimento dell'imputato alla luce degli atti contenuti nel fascicolo e segnatamente dalla documentazione acquisita e dagli accertamenti operati dalla Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza sulle società delle quali gli imputati - anche quelli giudicati separatamente - rivestivano i dedotti ruoli gestionali "fattuali" e di rappresentanza legale. In particolare, ha evidenziato le condotte di false fatturazioni, illecite compensazioni, previa creazione di fittizi crediti di imposta, da adoperare per le stesse indebite compensazioni, di simulata assunzione di operai da parte delle "cartiere" di artata creazione e utilizzo di società di comodo, anche intestate a compiacenti prestanome, con relativo occultamento di scritture contabili e della documentazione per raggiungere gli scopi del sodalizio e di commissione di una pluralità di reati fine di natura fiscale anche per consentire alle società l'evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, giungendo addirittura a corrompere pubblici funzionar per "ammorbidire" i controlli ispettivi presso i cantieri o per eludere le conseguenze sanzionatorie per le violazioni contributive, ricevendo informazioni delicate e notizie riservate - anche concernenti accertamenti e verifiche di natura fiscale e giudiziaria - grazie alla corruzione di un maresciallo della Guardia di Finanza il quale era giunto anche a rivelare a terzi l'esistenza di indagini in un procedimento penale e di operazioni di intercettazioni telefonica, notizie coperte dal segreto investigativo".
Come si vede, alla luce dei principi di diritto sopra richiamati, il giudice di merito ha dato conto in maniera più che esauriente della insussistenza delle cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p. e quindi la sentenza si sottrae certamente alla censura mossa, non emergendo da essa in modo positivo alcun elemento di segno contrario, ma anzi gravi elementi di responsabilità a carico del F., partecipe, nel ruolo di consulente, della associazione a delinquere attraverso la pianificazione contabile della attività criminosa.
In definitiva, il motivo tende solo a rimettere in discussione i termini dell'accordo finalizzato all'applicazione della pena oggetto del patteggiamento.

2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione degli artt. 233 ter e 240 c.p., nonchè L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143 e il vizio di motivazione in ordine alla disposta confisca per equivalente degli immobili e degli altri beni in sequestro, alcuni dei quali appartenenti a terzi (il coniuge e il padre) oppure costituiti in fondo patrimoniale e comunque non riconducibili al prezzo o profitto del reato. Sottopone a critica il concetto di "disponibilità" inteso dal GUP, evidenziando la superficialità della decisione.
Col motivo aggiunto denunzia erronea applicazione degli artt. 444 e 445 c.p.p. con riferimento agli artt. 233 ter e 240 c.p., nonchè L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143 e il vizio di motivazione sotto il profilo della manifesta illogicità. Secondo il ricorrente il giudice, nel procedimento di applicazione della pena sull'accordo delle parti, non avrebbe potuto disporre la confisca in mancanza di accordo delle parti su di essa ma al più avrebbe dovuto rigettare integralmente la richiesta. Richiama alcune massime di questa Corte e segnala la contraddittorietà della pronuncia sul concetto di disponibilità laddove si consideri che in sede di riesame era stato disposto il dissequestro del conto corrente intestato alla associazione dei consulenti del lavoro di cui il F. era presidente.

Questi motivi - che ben si prestano a trattazione congiunta - sono infondati.
Va premesso che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, con riguardo ai reati tributari considerati dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca "per equivalente", può essere disposto non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato posto che l'integrale rinvio alle "disposizioni di cui all'art. 322 ter c.p.", contenuto nella L. n. 244, art. 1, comma 143, predetta, consente di affermare che, con riferimento appunto a detti reati, trova applicazione non solo il primo ma anche il comma 2 della norma codicistica (cfr, Sez. 3 sentenza n. 44445 del 9.10 2013 ud. dep. 4.11.2013 Rv 257616;, Sez. 3, n. 35807 del 07/07/2010, Bellonzi e altri, Rv. 248618; Sez. 3, n. 25890 del 26/05/2010, Molon, Rv. 248058).
Dalla sentenza impugnata (pagg. 8 e 9) risulta che il sequestro preventivo era stato disposto sino a concorrenza dell'importo di Euro. 17.754.072,18 oltre che nei confronti degli originari coimputati, anche nei confronti del F., e che in esito ad esecuzione nei confronti di quest'ultimo, è stato mantenuto il sequestro dei seguenti beni: 1) tre immobili, di cui uno in _____ (per la quota di 1/2) e due in ______; 2) il conto corrente n. 12/450211 presso la Banca di Credito Cooperativo di Barlassina, _____ intestato alla moglie P.L., con delega ad operare in favore del F., con un saldo di Euro. 7.659,20; 3) la cassetta di sicurezza n. ______, presso la stessa filiale, anch'essa intestata a P.L., con delega a F., contenente Euro. 66.000; 4) tre conti correnti a lui intestati presso la Banca Intesa, con saldi rispettivamente di Euro. 1.652,05, 901,10 e 86.202,71; 6) un deposito amministrato presso la stessa banca con saldo di Euro. 19.106,40.

2.1 La prima questione di diritto che il motivo sottopone al Collegio consiste nello stabilire se - in caso di patteggiamento - qualora le parti non abbiano previsto la confisca dei beni sequestrati oppure si siano accordate sulla restituzione degli stessi, il giudice possa disporre ugualmente la confisca.
Altre questioni sollevate dal motivo riguardano la delega ad operare su di un conto corrente bancario intestato ad altri: si tratta in particolare di stabilire se essa configuri per il delegato l'ipotesi di "disponibilità" richiesta dall'art. 322 ter c.p.; infine, occorre soffermarsi sui rapporti dei beni conferiti in fondo patrimoniale con la confisca.

Al primo quesito la risposta da dare è positiva.
La confisca obbligatoria per equivalente, operante, oltre che in caso di condanna, anche, in virtù del testuale contenuto della norma (art. 322 ter c.p.) in ipotesi di sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. va applicata pur laddove la stessa non abbia costituito oggetto dell'accordo delle parti (cfr. sez. 3 sentenza n. 44445 del 9.10.2013 ud. dep. 4.11.2013 riv. 257616; sez. 2 n. 20046 del 4.2.2011), conclusione questa, ulteriormente discendente dal fatto che la sentenza di patteggiamento è sentenza vincolata relativamente al solo profilo del trattamento sanzionatorio e non anche a quello relativo alla confisca per il quale la discrezionalità del giudice (discrezionalità vincolata quanto alla confisca obbligatoria) si riespande come in una normale sentenza di condanna sì che, ove accordo tra le parti su tale punto vi sia comunque stato, il giudice non è obbligato a recepirlo o a recepirlo per intero (sez. 2 n. 19945 del 19.4.2012, Toseroni Riv. 252825). Nè è necessario, per l'assenza di norme che dispongano in senso contrario, che la confisca per equivalente sia preceduta dal sequestro preventivo dei beni oggetto della stessa (sez. 3 n. 17066 del 4.2.2013, Volpe e altri, Riv. 255113).

E' stato in particolare precisato (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 19945/2012 cit.) che la sentenza di applicazione della pena è una sentenza che ha una natura giuridica diversa da quella ordinaria di condanna avendo caratteristiche formali, strutturali, genetiche e funzionali differenti da ogni altra sentenza di condanna.
L'atipicità della sentenza emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. è strettamente correlata alle particolari caratteristiche del procedimento del quale rappresenta il naturale epilogo, con la conseguenza che in essa non sono riconoscibili tutti gli elementi essenziali, idonei a qualificare una sentenza come sussumibile, a pieno titolo, nella categoria delle "sentenze di condanna". Se essa, infatti, è assimilabile ad una sentenza di condanna solo sotto l'astratto profilo del provvedimento giurisdizionale con il quale si dispone l'applicazione della pena nei confronti di un soggetto per un determinato reato, da quella si dissocia per la mancanza di una essenziale componente, l'accertamento giudiziale della responsabilità penale, formalmente estrinseca bile in una espressa dichiarazione di colpevolezza. Invece, in quella sentenza l'accertamento completo del fatto reato e della sua commissione da parte di un determinato soggetto sono sostituiti dalla ricognizione dell'accordo intervenuto tra le parti sul merito del processo e sulla pena da applicare": (SSUU 3600/1997; SSUU 11/1996; SSUU 8488/1998).

La principale peculiarità della sentenza di patteggiamento consiste, quindi, nell'accordo che interviene fra le parti (pubblico ministero ed imputato) sul trattamento sanzionatorio ex art. 444 cod. proc. pen., accordo rispetto al quale il giudice ha una sola alternativa: o ritenerlo congruo ed accoglierlo, disponendo con sentenza l'applicazione della pena (art. 444 cod. proc. pen., comma 2), o rigettarlo (art. 448 cod. proc. pen.).
L'accordo, quindi, è opportuno ribadirlo, si forma solo ed esclusivamente sul trattamento sanzionatorio e solo su questo il giudice rimane vincolato sicchè, ove non lo condivida, non gli resta che respingere l'istanza: sul punto, il combinato disposto del cit. art. 444 c.p.p., commi 1 e 2 e art. 448 cod. proc. pen. è inequivoco.
Resta, pertanto, fuori da ogni accordo ex art. 445 cod. proc. pen., comma 1:
a) l'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza ove la pena irrogata superi i due anni; b) la confisca - sia essa obbligatoria o facoltativa - qualunque sia la pena irrogata e, quindi, anche ove la medesima sia inferiore ai due anni. La circostanza che alcuni tipici effetti della sentenza di condanna vengano fatti salvi nel senso che non possono costituire oggetto di patteggiamento, è un ulteriore indice della natura allogena della sentenza di patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna tout court.
Il fatto che il legislatore abbia sottratto all'accordo delle parti le suddette misure, non significa che le parti, nell'ambito della loro discrezionalità ed autonomia, non possano inserire, nell'accordo sul trattamento sanzionatorio, anche un accordo sulle suddette misure. Tuttavia, proprio perchè la legge è categorica nello stabilire che le suddette misure non rientrano nella disponibilità delle parti, essendone riservata l'applicazione al giudice, è ovvio che un eventuale accordo potrebbe avere solo una semplice funzione di orientamento nella decisione del giudice il quale, quindi, può tenerne conto o no, avendo solo l'obbligo di motivare sulla decisione adottata.
Ciò comporta, di conseguenza, che non solo il giudice non è vincolato ad un eventuale accordo sulle pene accessorie, sulle misure di sicurezza o sulla confisca, ma che il medesimo deve considerarsi tamquam non esset, quand'anche le parti subordinassero l'intero patteggiamento all'accoglimento dell'accordo relativo alle pene accessorie, alle misure di sicurezza o alla confisca. Se, infatti, da una parte, la legge vincola il giudice solo sull'accordo sul trattamento sanzionatorio e, dall'altra, stabilisce che alla sentenza di patteggiamento si applicano anche le pene accessorie, le misure di sicurezza o la confisca, è consequenziale desumere, sul piano logico, che quest'ultime misure non possono far parte dell'accordo fra le parti sicchè, ove ciononostante le parti si accordino anche sulle suddette misure, il giudice ben può - motivando - non tenerne conto senza che perciò la sentenza i in caso d'impugnazione possa essere completamente travolta sul presupposto del mancato recepimento dell'intero accordo. Ad una tale conclusione osta sia l'inequivoco complesso normativo citato ed illustrato sia la natura giuridica della sentenza di patteggiamento che è formata da due capi che rispondono a logiche giuridiche completamente diverse: il capo relativo al trattamento sanzionatorio è di natura pattizia (e, quindi, non derogabile da parte del giudice), mentre quello attinente alle sanzioni accessorie è di natura pubblicistica (e, quindi, non soggetto ad alcun patteggiamento essendo sottratto alla disponibilità delle parti) come in ogni sentenza di condanna, alla quale la sentenza di patteggiamento, sotto questo profilo, è espressamente equiparata ex art. 445 cod. proc. pen., comma 2. Quanto appena detto trova un puntuale riscontro nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità che, in proposito, ha statuito che "con la sentenza di patteggiamento emessa nel procedimento a carico degli enti il giudice deve sempre applicare anche la sanzione della confisca, eventualmente nella forma per equivalente, del profitto del reato presupposto, rimanendo irrilevante che la stessa non sia stata oggetto dell'accordo intervenuto tra le parti": Cass. 20046/2011 Rv. 249823. In motivazione, la Corte ha chiarito essere "del tutto irrilevante la circostanza che la confisca non avesse formato oggetto dell'accordo tra le parti, essendo certa la determinazione dei beni profitto da reato destinati all'ablazione (cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 12508/2010 Rv. 246731). Trattasi poi di confisca obbligatoria, e quindi di un atto dovuto per il giudice, sottratto alla disponibilità delle parti, e di cui l'imputato deve comunque tenere conto nell'operare la scelta del "patteggiamento" (cfr. anche sez. 3 n. 31742/2013).

Pertanto, va ribadito il seguente principio di diritto: "le parti, nel patteggiamento, non possono inserire un accordo anche sulle pene accessorie, sulle misure di sicurezza o sulla confisca, atteso che le suddette misure sono sottratte alla loro disponibilità. Tuttavia, ove ciononostante, le parti inseriscano nel patteggiamento anche un accordo sulle suddette misure, l'accordo ha un mero valore di orientamento della decisione che il giudice deve obbligatoriamente adottare sul punto. Di conseguenza, poichè il giudice non è ad esso vincolato, ben può - motivando - non tenerne conto senza che perciò la sentenza - in caso d'impugnazione - possa essere completamente travolta sul presupposto del mancato recepimento dell'intero accordo". Corretta è dunque la decisione laddove ha applicato la confisca obbligatoria, prescindendo dalla omessa previsione nell'accordo (Sez. 2, Sentenza n. 19945/2012 cit.).

Le predette considerazioni inducono pertanto il Collegio a disattendere il precedente richiamato dal ricorrente (Sez. 6, Sentenza n. 12508 del 11/03/2010 Cc. dep. 30/03/2010 Rv. 246731), precedente che peraltro si riferiva ad un caso di omessa motivazione sulla confisca, come emerge chiaramente dalla lettura integrale della pronuncia.
Alla stregua di quanto esposto, non merita censura la sentenza impugnata laddove ha provveduto sulla confisca obbligatoria, prescindendo dalla mancata previsione delle parti in ordine ad essa.

2.2 L'altro tema sottoposto al Collegio consiste nello stabilire se la titolarità di una delega ad operare su di un conto corrente bancario intestato ad altri configura l'ipotesi di "disponibilità" richiesta dall'art. 322 ter c.p. (esteso ai reati tributari dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143) ai fini della ammissibilità del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
In tema di cointestazione del conto corrente si è affermato che qualora un conto corrente oggetto del sequestro sia cointestato con soggetto estraneo al reato la misura reale provvisoria "si estende ai beni comunque nella disponibilità dell'indagato" e non possono operare limitazioni provenienti da vincoli o presunzioni operanti ai sensi del codice civile nel rapporto di solidarietà tra creditori o debitori ai sensi dell'art. 1289, oppure nel rapporto tra istituto bancario e soggetto o soggetti depositanti ai sensi dell'art. 1834 (Cass. pen. 6 Sez., sentenze n. 40175 del 2007, Squillante e altro, rv. 238086, e n. 24633 del 2006, Lucci e altro, rv. 234729).
Nel caso di delega a operare su un conto che sia intestato ad un altro soggetto al quesito va data ugualmente risposta positiva, laddove la delega non preveda limitazioni, nel senso che il delegato sia autorizzato ad operare incondizionatamente (cfr. per una fattispecie analoga, Sez. 4, Sentenza n. 1560 del 2014).
Nel caso di specie costituisce accertamento in fatto (cfr. pag. 12 sentenza) la circostanza di una delega, per il F., ad operare "su un piede di parità rispetto alla moglie, senza limiti di sorta, tantomeno con obbligo di contenere i suoi atti entro la soglia della metà della somma depositata, corrispondente alla quota ideale a lui spettante secondo la presunzione di cui all'art. 1298 c.c.".
Ed allora, la procura speciale o delega ad operare conferita al F. teoricamente ha attribuito a quest'ultimo un potere dispositivo illimitato sull'intero capitale depositato, non essendo per la verità neppure dedotto che una siffatta delega avesse dei limiti peculiari ovvero che le modalità concrete di esercizio di essa da parte dell'indagato fossero contenute in margini ristretti e finalizzate alle specifiche esigenze proprie del soggetto intestatario (quali il prelievo periodico di pensioni, il pagamento di imposte facenti capo alla predetta, etc.).
Insomma, ciò che conta è il potere di utilizzo di fatto che, nel caso di specie, secondo quanto accertato dal giudice di merito, è pieno. E un tale accertamento non è qui sindacabile.
La sentenza n. Sez. 3, Sentenza n. 38929 del 2013 - che il ricorrente ha richiamato - non afferma affatto che la titolarità di una delega ad operare su di un conto corrente bancario intestato ad altri non possa mai configurare l'ipotesi di "disponibilità" richiesta dall'art. 322 ter c.p.: nella sentenza piuttosto si afferma - ed in maniera assolutamente condivisibile - che la semplice esistenza di una delega, senza alcuna precisazione sul suo contenuto, sia insufficiente, occorrendo accertare se comunque sussista una "disponibilità" in capo all'indagato tenendo conto dei principi enunciati sull'interpretazione del relativo concetto.

2.3 L'inclusione dei beni nel fondo patrimoniale, infine, non è di ostacolo al sequestro preventivo per equivalente, come più volte affermato in giurisprudenza (cfr. sentenza sez. 3 n. 40364/2012 e ancora, sentenza sez. 3 n. 18527/2011). Si è osservato in particolare che "... i beni costituenti il fondo patrimoniale rimangono nella disponibilità del proprietario o dei rispettivi proprietari, ma hanno solo un vincolo di destinazione. Da ciò consegue che i beni immobili conferiti dal ricorrente non possono che appartenere a lui e pertanto resta soddisfatto il criterio dell'appartenenza della cosa al reo, che ne giustifica la confisca e il preventivo sequestro.
Sul tema della sequestrabilita per finalità preventive dirette alla confisca dei beni costituenti il fondo patrimoniale si è altresì osservato che non esiste alcuna incompatibilità tra il sequestro preventivo e i regimi di particolare favore assicurati dalle leggi civili a taluni beni in ragione della loro natura o destinazione.
Alcune pronunce (sez. 3 sentenza 40364/2012 cit; Cass. sez. 2, sent. n. 16658 dep. il 2 maggio 2007; 29940 del 2007), contengono alcune puntualizzazioni applicabili anche alla fattispecie. Si è sostenuto che le norme civilistiche che definiscono la natura di taluni cespiti patrimoniali (es. artt. 169), ovvero disciplinano l'esecuzione coattiva civile (es. artt. 543 e 545 c.p.c.) riguardano esclusivamente la definizione della garanzia patrimoniale a fronte delle responsabilità civili, e in nulla toccano la disciplina della responsabilità penale, nel cui esclusivo ambito ricade invece il sequestro preventivo. Peraltro la struttura e la finalità del sequestro preventivo rendono evidente e non equivocabile la differenza con le fattispecie civilistiche, tanto cautelari che espropriative: il sequestro preventivo non presuppone alcuna responsabilità civile, ed è anzi indipendente dall'effettiva causazione di un danno quantificabile; non prelude ad alcuna espropriazione, ma semmai ad un provvedimento sanzionatorio, quale è la confisca, che prescinde dal danno e considera solo l'esistenza di un particolare rapporto di strumentante o di derivazione tra la cosa e il reato. Tali asimmetrie rendono improponibile qualsiasi tentativo d'analogia, che certo non può essere ispirata dai precedenti giurisprudenziali in tema di sequestro conservativo disposto nel processo penale, trattandosi nell'ipotesi del sequestro conservativo della medesima misura cautelare disciplinata dal codice di procedura civile, e posta a presidio della garanzia patrimoniale a fronte della responsabilità per obbligazioni di natura civilistica (risarcimento in favore della parte civile) o la cui realizzazione coattiva è strutturata sul modello dell'espropriazione forzata (spese processuali e pene pecuniarie)". "La legittimità del sequestro finalizzato alla confisca non è esclusa dal fatto che trattasi di confisca per equivalente, poichè l'assenza di nesso pertinenziale tra il reato commesso e i beni confiscabili "per equivalente" non altera la natura sanzionatoria della confisca, che colpisce il reo in quanto la giustificazione dell'intervento penale, con il simultaneo travolgimento dei vincoli civilistici, risiede unicamente nell'appartenenza del bene sequestrato al patrimonio del reo" (Cass. pen. Sez. 3 n. 6290 del 14.1.2010).

Il ricorso va pertanto rigettato.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2014.
Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2014


 

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