REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente -
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere -
Dott. TORRICE Amelia - Consigliere -
Dott. LORITO Matilde - Consigliere -
Dott. GHINOY Paola - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 11362/2010 proposto da:
P.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell'avvocato RIZZO ROBERTO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
POSTE ITALIANE S.P.A.;
- intimata -
Nonchè da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell'avvocato FIORILLO LUIGI, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente Incidentale -
contro
P.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21, presso lo studio dell'avvocato ROBERTO RIZZO, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 2773/2009 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 14/12/2009 R.G.N. 4147/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/09/2015 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;
udito l'Avvocato RIZZO ROBERTO;
udito l'Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega FIORILLO LUIGI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per l'accoglimento per quanto di ragione del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 16-5-2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Roma, in accoglimento della domanda proposta da P.D. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, dichiarava la nullità del termine apposto al primo contratto di lavoro intercorso tra le parti dal 22-6-1998 al 30-9-1998 per "necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie", con la conseguente sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 22-6- 1998, e condannava la società al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno commisurato alla retribuzione dal 31-12-2003 al ripristino.

La società proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto della domanda.
La P. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte d'Appello di Roma, con sentenza depositata il 14-12-2009, in parziale accoglimento dell'appello e in parziale riforma della impugnata sentenza, dichiarava la esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti dal 15-12-1998, data di decorrenza del secondo contratto, avente scadenza il 16-1-1999 e concluso per "esigenze eccezionali" ex art. 8 ccnl 1994 come integrato dall'acc. 25-9-1997 e succ. (al quale era seguito un terzo con la stessa causale per il periodo 3-5-1999/31-5-1999) e rigettava la domanda di risarcimento del danno, essendo intervenuta la messa in mora dopo oltre tre anni dalla scadenza dell'ultimo contratto.

Per la cassazione di tale sentenza la P. ha proposto ricorso con undici motivi.
La società ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con due motivi.
La P., dal canto suo, ha resistito con controricorso al ricorso incidentale di controparte ed infine ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivazione

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ai sensi dell'art. 335 c.p.c..

In ordine logico, poi, va dapprima esaminato il ricorso incidentale della s.p.a. Poste Italiane.
Con i due motivi la società censura, infatti, sotto i profili di violazione di legge e di vizio di motivazione, l'impugnata sentenza nella parte in cui ha ritenuto la nullità del termine apposto al contratto de quo in quanto stipulato (per "esigenze eccezionali...") oltre la scadenza ultima fissata dagli accordi collettivi attuativi dell'acc. az. 25-9-1997 ed all'uopo sostiene la insussistenza di tale scadenza e la natura meramente ricognitiva dei detti accordi.

Tali motivi sono infondati e vanno respinti.
In base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, "in materia di assunzioni a termine dei dipendenti postali, la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, nel consentire anche alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima apposizione di un termine al contratto di lavoro, ha consentito il ricorso ad assunzione di personale straordinario nei soli limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, con conseguente esclusione della legittimità dei contratti a termine stipulati oltre i detti limiti; resta altresì escluso che le parti sociali, mediante lo strumento dell'interpretazione autentica delle vecchie disposizioni contrattuali ormai scadute (volta ad estendere l'ambito temporale delle stesse), possano autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita, tanto più che il diritto del lavoratore si era già perfezionato e le organizzazioni sindacali non possono disporre dello stesso". (v. fra le altre Cass. 16-1.1-2010 n. 23120).

In particolare, come è stato precisato, "con l'accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell'art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto il 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell'ente e alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali, fino alla data del 30 aprile 1998. Ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998 per carenza del presupposto normativo derogatorio, con l'ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v. Cass. 18-11-2011 n. 24281, cfr. Cass. 28-11-2008 n. 28450, 4-8-2008 n. 21062, Cass. 27-3- 2008 n. 7979, Cass. 1-10-2007 n. 20608, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

Il ricorso incidentale della società va, pertanto, respinto, rilevandosi, peraltro che nessuna altra censura è stata avanzata dalla stessa società.

Passando all'esame del ricorso principale della P., va osservato che la stessa, con undici motivi, sotto vari profili (violazione dell'art. 112 c.p.c., vizio di motivazione e violazione degli artt. 1226, 2729, 1218, 1223, 1227, 2697 e 1175 c.c., artt. 432 e 114 c.p.c.) lamenta che, pur non essendo stato specificamente impugnato dalla società appellante il capo risarcitorio, erroneamente e senza adeguata motivazione la Corte di merito ha respinto la domanda risarcitoria, essendo avvenuta la messa in mora della società da parte della lavoratrice dopo il triennio dalla scadenza dell'ultimo contratto (periodo ritenuto ragionevole per reperire altra occupazione di analogo livello, oltre il quale il danno sarebbe da riferire integralmente al comportamento del creditore ex art. 1227 c.c.).

Innanzitutto va rilevato che in ordine alle conseguenze risarcitorie non può ritenersi che sia intervenuto il giudicato sulla decisione di primo grado, avendo la società appellante chiesto il rigetto integrale della domanda introduttiva e appellato la sentenza di primo grado sulle questioni concernenti l'an della pretesa azionata (cfr. Cass. 15-9-2009 n. 19870, Cass. 7-2-2013 n. 2894) - in specie la risoluzione per mutuo consenso tacito, per la inerzia protrattasi per oltre tre anni, e la asserita legittimità della apposizione del termine -.

Tanto premesso, poi, osserva il Collegio che (a prescindere da ogni considerazione sulla correttezza o meno della statuizione impugnata in base alla disciplina previgente, sulla quale ovviamente sono incentrati i motivi del ricorso della lavoratrice) nella fattispecie è intervenuto lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, i quali dispongono che: "5.
Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l'assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell'ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell'indennità fissata dal comma 5, è ridotto alla metà.

7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6, trovano applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l'eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttorì ai sensi dell'art. 421 c.p.c.".
Tale disciplina (v. fra le altre Cass. 31-1-2012 n. 1409, Cass. 29-2- 2012 n. 3056), applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di legittimità (v. già Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è fondata sulla ratio legis diretta ad "introdurre un criterio di liquidazione del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione", rispetto alle "obiettive incertezze verificatesi nell'esperienza applicativa dei criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione previgente".
La norma, che "non si limita a forfetizzare il risarcimento del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest'ultimo l'instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato", in base ad una "interpretazione costituzionalmente orientata" va intesa nel senso che "il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto", con la conseguenza che a partire da tale sentenza "è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva" (altrimenti risultando "completamente svuotata" la "tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a tempo indeterminato").

Nel contempo, sempre alla luce della citata pronuncia della Corte Costituzionale, "il nuovo regime risarcitorio non ammette la detrazione dell'aliunde perceptum. Sicchè l'indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria. Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per avere il lavoratore prontamente reperito un'altra occupazione".
Peraltro, "la garanzia economica in questione non è nè rigida, nè uniforme" e, "anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 1966, art. 8, consente di calibrare l'importo dell'indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende.
Così interpretata, la norma citata, risultata "nell'insieme, adeguata a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi", ha superato il giudizio di costituzionalità sotto i vari profili sollevati, con riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24,101, 102, 111 Cost., e art. 117, comma 1.

Successivamente, è stata emanata la L. 28 giugno 2012, n. 92, (in G.U. n. 153 del 3-7-2012), che all'art. 1, comma 13, con chiara norma di interpretazione autentica (in senso conforme a quanto già affermato dalla Corte Costituzionale e da questa Corte di legittimità), ha così disposto: "La disposizione di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro".
Infine, in attuazione della delega di cui alla L. n. 183 del 2014, il recente D.Lgs. n. 81 del 2015, nel disporre un riordino del contratto di lavoro a tempo determinato dettando una disciplina organica dello stesso, tra l'altro, per quanto qui interessa, all'art. 28, commi 2 e 3, ha regolato l'indennità prevista per i casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato e all'art. 55, lett. f), ha abrogato la L. n. 183 del 2010, commi 5 e 6.

A seguito di tale ulteriore ultimo intervento legislativo si pone, quindi, la questione se nella fattispecie in esame - nella quale questa Corte, con riguardo alle conseguenze risarcitorie, è investita da validi e pertinenti motivi di ricorso (cfr. fra le altre Cass. 1-10-2012 n. 16642) da parte della lavoratrice - debba trovare applicazione la L. n. 183 del 2010, art. 32, ovvero il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 28.
La soluzione di tale questione non può che partire dalla verifica del carattere innovativo (o comunque modificativo) della nuova disciplina, come tale idoneo a configurare una reale ipotesi di successione di leggi e non una mera riformulazione della medesima disciplina pregressa.
Orbene, dalla analisi letterale delle due disposizioni, seppure alcune difformità possono ricondursi ad una semplice riformulazione stilistica (ad es. "il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore" di cui all'art. 32 cit., comma 5, diventa "il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno a favore del lavoratore" nell'art. 28 cit., comma 2) ovvero all'intento di ricomprendere in un unico testo la norma interpretativa sul valore omnicomprensivo dell'indennità (già prevista dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 13, ed ora inserita nella seconda parte dell'art. 28 cit., comma 2), si evincono chiaramente almeno due modifiche sostanziali: 1) l'indennità non è più commisurata alla "ultima retribuzione globale di fatto", bensì alla "ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto" (in conformità al parametro prescelto per il contratto a tutele crescenti di cui al D.Lgs. n. 23 del 2015);

2) il rinvio ai contratti collettivi per il riconoscimento della riduzione dell'indennità previsto dall'art. 28, comma 3, non è più qualificato come quello già previsto dal comma 6 dell'art. 32 (che richiede la stipula con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).
Tanto rilevato, atteso che si pone quindi una questione di successione di leggi, deve considerarsi in primo luogo la assenza, nella specie, di una specifica disposizione transitoria, che riconosca espressamente una efficacia retroattiva alla nuova norma di cui all'art. 28 cit., laddove, invece, la norma pregressa dell'art. 32 cit., nel comma 7, prevede espressamente la applicabilità del medesimo art. 32, commi 5 e 6, a "tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data della entrata in vigore" della L. n. 183 del 2010.
Vero è, poi, che il citato comma 7 non è stato abrogato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 55, ma è pur vero che lo stesso è espressamente riferito e riferibile soltanto all'art. 32 cit., commi 5 e 6, e non anche alla "nuova" disciplina di cui all'art. 28 cit..
Inoltre, se si considera che tale ultima norma, riguardante le "tutele" "nei casi di trasformazione del contratto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato", ha senza dubbio natura di diritto sostanziale ed è inserita nella nuova "disciplina organica" del contratto di lavoro a tempo determinato dettata dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 19 e ss., (cfr. anche art. 55, lett. b) dello stesso D.Lgs..), deve concludersi nel senso della irretroattività della stessa e della applicabilità della nuova disciplina di cui all'art. 28 cit. soltanto ai contratti di lavoro stipulati dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. citato (25-6- 2015), così perdurando la applicazione della pregressa disciplina di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, in relazione ai "giudizi pendenti" relativi ai contratti precedenti.
D'altra parte, in mancanza, appunto, di un qualsiasi riferimento nella nuova norma ai "giudizi pendenti" e ad una qualche retroattività, stante l'assenza di una qualsiasi disposizione di carattere transitorio, non può in alcun modo ritenersi trasponibile nella nuova disciplina (che riguarda i nuovi contratti a tempo determinato) la previsione dell'art. 32 cit., comma 7, che concerne espressamente la "tutela" di cui allo stesso art. 32, commi 5 e 6, (prevista in relazione ai contratti pregressi), in altre parole, anche la abrogazione dei detti commi 5 e 6 (strettamente correlati al 7), non può che essere riferita ai nuovi contratti.
Del resto anche la interpretazione costituzionalmente orientata conforta tale conclusione, giacchè ove si riconoscesse alla nuova disciplina (che potrebbe risultare talora meno favorevole al lavoratore) una efficacia retroattiva, tanto da farne applicazione ai giudizi pendenti, dovrebbe comunque esserne vagliata la legittimità costituzionale, anche rispetto ai parametri Europei, in specie con riferimento all'art. 6 CEDU, al fine di verificare la sussistenza delle stringenti condizioni cui la giurisprudenza della Corte costituzionale e delle Corti Europee subordina la legittimità della retroattività in materia civile.

Pertanto, nella fattispecie, ratione temporis, deve applicarsi la L. n. 183 del 2010, art. 32, per cui, nei sensi e nei limiti di tale ius superveniens va accolto il ricorso principale della P., in tal modo risultando assorbita ogni questione riguardante la normativa previgente, con la conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e con rinvio, sul punto, alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, la quale provvederà alla determinazione del dovuto, statuendo anche sulle spese di legittimità.

PQM

La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso incidentale della società, accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso principale della P., cassa l'impugnata sentenza in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 23 settembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 20 ottobre 2015


 

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