REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. STILE Paolo - Presidente -
Dott. NOBILE Vittorio - rel. Consigliere -
Dott. BERRINO Umberto - Consigliere -
Dott. GHINOY Paola - Consigliere -
Dott. TRICOMI Laura - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 535 - 2015 proposto da:
G.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI, 123, presso lo studio dell'avvocato SPINOSA BENEDETTO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
BANCA POPOLARE DI MILANO S.C.A.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 70, presso lo studio dell'avvocato LOTTI MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati DAVERIO FABRIZIO e FLORIO SALVATORE giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 8297/2014 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 21/10/2014 R.G. N. 3253/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/07/2015 dal Consigliere Dott. NOBILE VITTORIO;
udito l'Avvocato SPINOSA BENEDETTO;
udito l'Avvocato LOTTI MASSIMO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ricorso del 31/1/2013 G.M. (quadro direttivo di 1^ liv., poi dirigente di sportello) impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli per giusta causa dalla Banca Popolare di Milano Soc. coop. a r.l., in data 8/8/2012 e chiedeva la reintegrazione ed il risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18.

In fatto il G. allegava che la società gli aveva contestato gravi irregolarità nella concessione di presticash e di carte di credito rilasciate alla moglie, alla sorella e alla madre.

La Banca si costituiva allegando che il G. nella sua qualità aveva violato le procedure concedendo indebitamente fidi alla moglie, alla madre e alla sorella per un valore complessivo di quasi 50.000,00 Euro.

Il Giudice, con ordinanza del 18/7/2013, disattese le eccezioni di carattere formale (tempestività del licenziamento, genericità della contestazione, completezza della contestazione anche con riguardo alla richiesta di motivi) accertava la sussistenza delle condotte contestate e, valutate le stesse alla luce dell'art. 5 del codice etico, rigettava la domanda.

Il G. proponeva opposizione avverso la detta ordinanza e il Giudice con sentenza n. 6675 del 2014 respingeva l'opposizione.
Con ricorso depositato il 16/7/2014 il G. proponeva reclamo ed, in sintesi, lamentava, da un Iato, l'erroneità della decisione reclamata in quanto dal documento indicato pubblicato, prodotto, emergeva l'esistenza di una normativa che rendeva inattendibile la ricostruzione delle violazioni operate in sede di ispezione e riferite dall'ispettore sentito come teste e, dall'altro, che il conflitto di interesse non era sussistente e che, in mancanza di condotte contrarie al minimo etico o a norme di rilevanza penale, sarebbe stata necessaria l'affissione del codice disciplinare.
La Corte d'Appello di Roma, con sentenza depositata il 21/10/2014, rigettava il reclamo e compensava le spese.
In sintesi la Corte territoriale rilevava che la statuizione del giudice dell'opposizione circa la irrilevanza del citato documento (pubblicato il 28/6/2012), in quanto successivo al periodo contestato, non era stata censurata nel reclamo e riteneva inammissibili, oltre che poco comprensibili, le deduzioni in ordine alla insussistenza delle violazioni contestate, che comunque non erano idonee ad inficiare la deposizione del teste A. e le stesse dichiarazioni confessorie del G.
La Corte, poi, rilevava che il conflitto di interessi consisteva nell'aver favorito in modo decisivo parenti stretti, facendo loro ottenere un accesso al credito bancario in varie forme attraverso il sistematico mancato rispetto delle procedure interne stabilite per la concessione del credito.

Per la cassazione di tale sentenza il G. ha proposto ricorso con un unico articolato motivo, sviluppato in tre punti. La Banca Popolare di Milano ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

Motivazione

Con l'unico complesso e articolato motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 604 del 1966, art. 5, artt. 2104, 2105 e 2119 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè carenza e contraddittorietà della motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5.
In particolare, nel primo punto, concernente la "violazione delle procedure" il ricorrente, in sostanza sostiene che la Corte territoriale non avrebbe "in alcun modo evidenziato nella sentenza impugnata in cosa consistesse la violazione delle procedure aziendali" ed avrebbe incentrato la decisione esclusivamente sulla testimonianza dell' A., che richiamava la procedura "multicanale credito" (non indicata specificamente nella contestazione), senza considerare il contenuto del documento "COMO22 Carte di Credito pubblicato il 28/6/2012", che avrebbe evidenziato la sussistenza di altra procedura interna e la inattendibilità della testimonianza dell' A..

Con il secondo punto, relativo al "preteso conflitto di interessi" il ricorrente lamenta che, al riguardo, la motivazione della Corte di merito sarebbe "circolare" e "illogica", in quanto "si sostiene che violare le procedure genera conflitto di interessi, perchè violarle è contro gli interessi del datore di lavoro. Ma allora ogni violazione di procedure genera conflitto di interessi a prescindere dalle qualità delle persone coinvolte". Il ricorrente aggiunge, poi, che, per aversi conflitto di interessi in base al codice etico prodotto nella fase cautelare, da parte del dipendente "si deve ottenere una utilità autonoma specifica", che la Corte territoriale non avrebbe indicato.

Con il terzo punto, riguardante la proporzionalità della sanzione e la previsione di questa nel codice disciplinare, il ricorrente, in sostanza, lamenta parimenti carenze di motivazione sia in ordine alla mancata previsione di una specifica sanzione disciplinare per la concessione di credito ai propri familiari sia per la violazione delle regole procedurali, sia in relazione alla valutazione del "minimo etico" (circa la mancata considerazione che "i familiari del ricorrente non avevano atti pregiudizievoli o negativi tali da influenzare negativamente il rating"), così disattendendo con motivazione insufficiente le critiche avanzate con l'atto di appello.

Osserva il Collegio che le censure in parte sono inammissibili ed in parte sono infondate.
Innanzitutto, a ben vedere vengono denunciati violazioni di legge (con riguardo alla giusta causa di licenziamento, all'onere della relativa prova e agli obblighi del prestatore di lavoro) e vizi di motivazione, ma le censure si incentrano, in sostanza, in gran parte, nelle asserite illogicità e carenze di motivazione in relazione agli elementi dedotti che sarebbero stati trascurati dalla Corte di merito.

Orbene va, in primo luogo, premesso che, fermo restando l'onere della prova della sussistenza della giusta causa sul datore di lavoro, "il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria" (v. Cass. 25/5/2012 n. 8293, Cass. 7/4/2011 n. 7948, Cass. 15/11/2006 n. 24349). Spetta, infatti, al giudice di merito "valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell'addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravita, rispetto ad un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo" (v. fra le altre Cass. 13/2/2012 n. 2013, cfr. Cass. 10/12/2007 n. 25743, Cass. 24/7/2006 n. 16864), "fermo restando che, nell'ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l'idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario - rapporto che è più intenso nel settore bancario - deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro" (v. Cass. 27/1/2004 n. 1475, Cass. 28/4/2003 n. 6609).

Con riguardo, poi, alla "disciplina speciale prevista dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 58, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18", questa Corte ha precisato che la detta disciplina "va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro", con la conseguenza della "applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dell'art. 348 ter c.p.c., dei commi 3 e 4, anche del comma 5, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma 4 - ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c., - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cosiddetta "doppia conforme") (v. Cass. 29/10/2014 n. 23021).
In tale ultima ipotesi, pertanto, deve ritenersi del tutto inammissibile la denuncia di vizio di motivazione.

Peraltro, con riferimento alla riformulazione dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, questa Corte ha chiarito che la stessa "deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione", con la conseguenza che, ormai, "è denunciarle in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (v. Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053, Cass. 8/10/2014 n. 21257).

Orbene, osserva il Collegio che nel caso in esame, nel quale la Corte d'Appello ha respinto il reclamo confermando la decisione di primo grado, sono applicabili, ratione temporis, entrambe le nuove citate normative processuali, con la conseguenza che devono ritenersi inammissibili, ex art. 348 ter c.p.c., comma 5, le censure relative ai dedotti vizi di motivazione della sentenza impugnata, i quali, peraltro, neppure potrebbero rientrare nel paradigma ristretto stabilito dal nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, trattandosi tutti di asserite semplici insufficienze o illogicità della motivazione stessa.

Per il resto, con riguardo alle denunce di violazioni di legge, la Corte di merito non è incorsa in alcuno dei vizi denunciati. La Corte, infatti, confermando la decisione di primo grado che, all'esito di approfondito accertamento, aveva concluso per la sussistenza della giusta causa di licenziamento nel comportamento del G., concretizzatosi "nel sistematico mancato rispetto delle procedure interne stabilite per la concessione del credito, per favorire, in pieno conflitto di interessi, i propri stretti congiunti" - "comportamento che non è stato singolo ed episodico, ma reiterato in un consistente arco di tempo (oltre un anno)", con conseguente irrimediabile recisione del vincolo fiduciario che necessariamente deve sussistere tra datore di lavoro e lavoratore, tenuto conto "di ogni aspetto concreto del fatto e dell'elevato grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal ricorrente" - si è attenuta ai principi in primo luogo sopra richiamati.

Per quanto riguarda, poi, il documento COMO22 (peraltro neppure riportato in ricorso ai fini della relativa autosufficienza), la Corte di merito ha affermato che la decisione di irrilevanza del detto documento, in quanto successivo al periodo contestato al ricorrente, "non ha trovato censura nel reclamo".
Orbene, a fronte di tale statuizione, a ben vedere, il ricorrente ha semplicemente ribadito la propria tesi ma non ha specificamente censurato la statuizione della Corte d'Appello.

Circa, poi, la sussistenza del conflitto di interessi contestato, la Corte di merito ha accertato che lo stesso, "pienamente ricompreso nell'art. 5 del codice etico", nella specie "si determina per il solo fatto di aver favorito, utilizzando la posizione lavorativa e contro gli interessi del datore di lavoro, i propri stretti congiunti (moglie, madre e sorella), permettendo loro di ottenere utilità secondo modalità che lo stesso reclamante ha riconosciuto come violative delle regole bancarie". Infine, con riguardo alla violazione di norme relative al minimo etico la Corte territoriale ha affermato che "non può non essere percepibile da parte di un quadro direttivo di I livello il disvalore oggettivo presente nell'attività di chi, violando le procedure, abbia concesso indebitamente fidi alla moglie, alla madre e alla sorella per un valore complessivo di quasi Euro 50.000,00".
Orbene anche tali statuizioni, vengono censurate dal ricorrente soltanto con la riproposizione della propria diversa valutatone delle circostanze di fatto, in sostanza denunciando, inammissibilmente - come si è detto -, asserite insufficienze o illogicità di motivazione.

Il ricorso va pertanto respinto e, in ragione della soccombenza, il ricorrente va condannato al pagamento delle spese in favore del controricorrente, con attribuzione ai difensori, per dichiarato anticipo. Infine, trattandosi di ricorso notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare alla controricorrente le spese, liquidate in Euro 100,00 per esborsi e Euro 3.500,00 per compensi, oltre spese generali e pori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 16 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2015


 

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