REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico - Presidente -
Dott. VENUTI Pietro - rel. Consigliere -
Dott. BERRINO Umberto - Consigliere -
Dott. DORONZO Adriana - Consigliere -
Dott. GHINOY Paola - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
SESA S.P.A. SOCIO UNICO (già SESA S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell'avvocato AURELI MICHELE, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato MANCINI ASTORRE giusta delega in atti;
- ricorrente -
e contro
B.S.;
- intimato -
avverso la sentenza n. 407/2011 della CORTE D'APPELLO di ANCONA, depositata il 27/06/2011 R.G. N. 726/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/06/2015 dal Consigliere Dott. PIETRO VENUTI;
è comparso l'Avvocato MICHELE AURELI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA MARCELLO, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

Svolgimento del processo

Il Tribunale di Pesaro dichiarava illegittimo il licenziamento disposto dalla SESA S.p.A. nei confronti di B.S. con effetto dal 17 settembre 2001 per superamento del periodo di comporto e condannava la società alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla proposizione del ricorso introduttivo.
Su impugnazione di entrambe le parti, la Corte d'appello di Ancona, con sentenza depositata il 27 giugno 2011, respingendo l'appello principale della società, confermava la illegittimità del licenziamento e, in accoglimento di quello incidentale del lavoratore, condannava la società al risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dal licenziamento sino alla effettiva reintegrazione nonchè al pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali.
Ha osservato la Corte anzidetta che il lavoratore, cessata la malattia che aveva determinato il superamento del periodo di comporto, era stato riammesso in servizio il 26 luglio 2001 e posto in ferie fino al 17 agosto 2001. Si era quindi assentato per malattia dal 18 agosto al 4 settembre 2001 e poi era stato posto di nuovo in ferie sino al 16 settembre 2001. Il giorno successivo (17 settembre) era stato licenziato.
Ad avviso della Corte, l'avvenuta ripresa del servizio con il consenso del datore di lavoro ed il lasso di tempo con cui il medesimo aveva soprasseduto al recesso (dal 26 luglio al 17 settembre 2001), escludevano il nesso di causalità tra il superamento del periodo di comporto ed il licenziamento.
Questo era dunque illegittimo, con la conseguenza che il lavoratore oltre ad essere riammesso in servizio, aveva diritto alle retribuzioni sino alla data della reintegrazione.
Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso la società sulla base di dodici motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.
Il lavoratore è rimasto intimato.

Motivazione

1. Con i primi quattro motivi, trattati congiuntamente ed attinenti al risarcimento del danno, la ricorrente deduce che con il ricorso introduttivo il lavoratore, oltre a chiedere la reintegrazione nel posto di lavoro, aveva limitato la richiesta risarcitoria a cinque mensilità di retribuzione (ex art. 18 St. lav.), indicando il relativo importo (Euro 14.177,25). La domanda era stata accolta in questi termini in primo grado. Con il ricorso in appello era stata ampliata la domanda ed era stato chiesto il pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quella della reintegrazione. La Corte di merito, in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ha accolto la domanda in conformità a tali richieste.

2. Con il quinto, sesto e settimo motivo, anch'essi trattati congiuntamente, la ricorrente, in relazione alla ritenuta non tempestività del recesso, deduce vizio di motivazione, omesso esame di documenti, violazione di plurime disposizioni di legge.
Rileva che il lavoratore, dopo il periodo di malattia, cessato il 24 luglio 2001, era stato riammesso in servizio; quindi era stato in ferie, poi nuovamente in malattia e quindi di nuovo in ferie sino al 16 settembre 2001 senza soluzione di continuità. Non vi era stata quindi alcuna ripresa del servizio nè tanto meno il recesso era stato intempestivo, essendo stato intimato il 17 settembre 2001.

3. Con l'ottavo e il nono motivo, pure trattati congiuntamente, la ricorrente, denunciando violazione di norme di diritto e carenza di motivazione, assume che, ai fini della liquidazione del risarcimento del danno, la Corte territoriale avrebbe dovuto tener conto del concorso di colpa del lavoratore nella determinazione dello stesso, tenuto conto che erano stati lasciati decorrere oltre cinque anni prima di promuovere l'azione giudiziale e che usando l'ordinaria diligenza il lavoratore ben avrebbe potuto trovare una nuova occupazione.

4. Con il decimo, undicesimo e dodicesimo motivo, trattati congiuntamente, la società, denunciando plurime violazioni di norme di diritto e vizio di motivazione, deduce che il lavoratore, nell'impugnare la sentenza di primo grado in ordine alla entità del risarcimento, ha genericamente dedotto che quel giudice, nella determinazione dello stesso, era incorso in una "svista". Era stato invece proprio il lavoratore a chiedere il risarcimento pari a cinque mensilità. La sentenza di primo grado, che aveva deciso in conformità alla richiesta del lavoratore, non avrebbe pertanto potuto essere sul punto riformata.

5. Il ricorso, articolato in dodici motivi, attiene a tre questioni:
legittimità del recesso; conseguenze risarcitorie derivanti dalla illegittimità (eventuale) dello stesso; concorso di colpa del lavoratore ai fini della determinazione del risarcimento del danno.

Esso è fondato solo con riguardo alle conseguenze risarcitorie derivanti dalla illegittimità del licenziamento.

Devono innanzitutto essere respinte le censure rivolte alla sentenza impugnata per avere dichiarato illegittimo il recesso.
Il lavoratore, cessato il periodo di malattia, è stato riammesso in servizio dal datore di lavoro, senza che questi, pur essendo stato superato il periodo di comporto, si fosse opposto alla ripresa del lavoro, manifestando anzi con detto acquiescente comportamento la volontà di non volersi avvalere del potere di recesso.
I successivi eventi - concessione delle ferie e fruizione di un ulteriore periodo di riposo per ragioni di salute - non possono spiegare alcuna rilevanza sul licenziamento, trattandosi di fatti non connessi causalmente a quelli che hanno determinato il superamento del periodo di comporto.

Deve di conseguenza ritenersi, confermando sul punto l'impugnata sentenza, che il recesso, intimato in presenza di una precedente chiara volontà del datore di lavoro di voler continuare ad avvalersi delle prestazioni lavorative del B. e, per giunta, a distanza di circa due mesi dalla riammissione in servizio, sia stato disposto illegittimamente, verosimilmente non già per il superamento del periodo di comporto, quanto piuttosto perchè il lavoratore, dopo il rientro in servizio, si è ancora assentato per un ulteriore periodo.

6. Il lavoratore con il ricorso introduttivo ha chiesto, oltre la reintegrazione nel posto di lavoro, la condanna del datore di lavoro al pagamento di cinque mensilità di retribuzione ex art. 18 St. lav., pari ad Euro 14.177,25.

Il giudice di primo grado ha accolto la domanda negli stessi termini.
Tale statuizione, con riguardo alle conseguenze risarcitorie, è stata riformata dalla Corte di merito, la quale, in difformità dell'originario petitum, "ampliato" in appello, ha condannato il datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quella dell'effettiva reintegrazione.
Sul punto, la sentenza impugnata, in accoglimento delle censure proposte dalla società ricorrente, deve essere cassata, trattandosi di statuizione resa in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) ed a seguito di una domanda nuova, formulata in appello.


A tale ultimo riguardo, va precisato che "Costituisce domanda nuova in appello, come tale inammissibile ai sensi dell'art. 437 c.p.c., la richiesta del lavoratore di condanna del datore di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni maturate successivamente alla data del licenziamento dichiarato illegittimo dal primo giudice, ove egli si sia limitato in primo grado a chiedere la liquidazione del danno nella misura di cinque mensilità" (cfr. Cass. 3 giugno 1995 n. 6253).

Restano assorbiti i motivi attinenti al concorso di colpa del lavoratore nella determinazione del risarcimento del danno.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, con la condanna - come disposta dal giudice di primo grado - del datore di lavoro al pagamento della suddetta somma di Euro 14.177,25, pari a cinque mensilità, con gli accessori di legge.
L'esito alterno dei giudizi di merito e l'accoglimento parziale del presente ricorso, giustificano la compensazione delle spese dei giudizi di merito, mentre non v'è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.

PQM

La Corte, rigettato ogni altro motivo ed assorbiti l'ottavo e il nono, accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna la società ricorrente al pagamento della somma di Euro 14.177,25 con gli accessori di legge.
Compensa tra le parti le spese dei giudizi di merito.
Nulla per le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 24 giugno 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2015


 

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